Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
L'estate che non ci farà dimenticare Schillaci
18 set 2024
18 set 2024
Il suo nome rimarrà per sempre legato a Italia '90.
(copertina)
IMAGO / Buzzi
(copertina) IMAGO / Buzzi
Dark mode
(ON)

«Il mio è il coraggio della paura. Sono arrivato alla Juve e me la facevo sotto, temevo di passare tutto il tempo in panchina. E lo stesso è accaduto in Nazionale, avevo paura di fallire davanti a milioni di persone. Quella paura si è tradotta in uno stimolo a dare tutto»

Con le braccia al cielo e l’occhio sgranato, sognante, persino sorpreso per tutto ciò che gli stava accadendo, Totò Schillaci ha trasceso la sua esistenza terrena e s’è fatto entità al di sopra del bene e del male, diventando una madeleine umana. Dall’estate del 1990 in avanti, non è più importato davvero cosa facesse. Per molti è stato una folgorazione calcistica, l’effetto sulla pelle e sul cuore del primo amore, quello che non si scorda mai. Per tutta una generazione, quella che non aveva vissuto le gioie del 1982 per motivi anagrafici, Italia ’90 è rimasto il Mondiale della vita: una generazione che sente ancora una fitta dolorosa quando ripensa alla notte del San Paolo, all’incomprensione tra Ferri e Zenga, alla zazzera di Caniggia che si anima all’impatto con un pallone che mai sarebbe dovuto finire in rete. Ma non si scende a patti col primo amore, violento e irrituale rispetto a quelli destinati a venire dopo. Se ne ricorda solamente il buono, lo stomaco in subbuglio, la voglia di viverlo a prescindere da quel che lascerà, una meravigliosa sensazione di incoscienza.

Totò Schillaci è stato questo, per una bella fetta di italiani: la cotta bruciante e irresistibile di un’estate, le partite viste insieme a due, dieci, cento, mille persone, i televisori piazzati in condivisione nelle aree comuni dei palazzi per vivere un’esperienza collettiva su sedie pieghevoli di plastica e di legno pronte all’uso, i giornali letti il mattino dopo appoggiati sul frigo dei gelati di bar che rappresentavano il manifesto di un Paese alle prese con una sbornia collettiva. È diventato, senza volerlo, senza saperlo, l’epitome di un mese di storia d’Italia; ha incarnato così tanto alcuni versi di Un’estate italiana da far pensare che fosse stata scritta per lui. C’era stato altro, molto altro: la capacità di uscire da un contesto complicato, di arrampicarsi fino ai vertici del nostro calcio partendo da lontano, di scoprire che anche un ragazzo di un quartiere di Palermo poteva diventare l’uomo copertina della Juventus, e anche la voglia di lanciarsi in un’esperienza sconosciuta come quella in Giappone. Ma non è un oltraggio o una mancanza di rispetto sostenere che il suo ricordo rimane cristallizzato a quel mese folgorante: nemmeno lo juventino più accanito, il messinese più acceso, l’interista più fedele, al momento della notizia, chiudendo gli occhi può averlo immaginato con la propria maglia del cuore addosso. Perché Schillaci, ora e per sempre, ha le braccia al cielo, l’occhio vagamente sgranato e, sulla pelle, l’azzurro dell’Italia dell’estate del 1990.

Lo scenario

L’Italia che arriva al Mondiale del 1990, con Azeglio Vicini in panchina, è alle prese con un bizzarro paradosso: la qualificazione già in tasca per il Mondiale casalingo ha portato il commissario tecnico, alle prese con due anni di amichevoli, a fare esperimenti su esperimenti, nel tentativo, non riuscito, di presentarsi alla rassegna con le idee chiare. Ha provato moltissime coppie d’attacco, in azzurro, tra il 1988 e il 1990, dall’Europeo al Mondiale. Questa la sequenza: Mancini-Vialli, Vialli-Baggio, Vialli-Serena, Vialli-Borgonovo, Vialli-Carnevale, Carnevale-Baggio, Carnevale-Schillaci. Il test di fine marzo con la Svizzera è il primo che vede in campo dal primo minuto Totò, in una Basilea in cui c’è la fila di immigrati siciliani pronti ad abbracciarlo. Certo, non c’è Vialli, fermo per un infortunio, ma la prima convocazione azzurra arriva a furor di popolo: il primo anno juventino di Totò, piombato agli ordini di Zoff dopo una stagione da capocannoniere in B con la maglia del Messina, lo proietta con merito nel gruppo che guarda al Mondiale. L’amichevole con la Svizzera è la prova del fuoco: steccare vorrebbe dire rischiare di rimanere fuori. «Sto con i piedi per terra, ci sono fior di attaccanti, sono l’ultimo arrivato e non voglio portare via il posto a nessuno: credo che Vicini abbia fiducia in me e vedrò di ricambiarlo», dice alla notizia della chiamata.

Per la prima mezz’ora non vede palla, tramortito dall’emozione, poi inizia a girare, a dare fastidio alla difesa svizzera. È lui che si procura la punizione con cui Gigi De Agostini toglie il tappo alla partita. «Non so se ho passato l’esame, Boniperti mi ha detto bravo, Vicini non mi ha detto nulla. All’inizio ero emozionato, intimidito, poi mi sono sciolto. Nessun rammarico, farò gol la prossima volta, se ci sarà una prossima volta», dichiara ancora stordito, mentre Vicini conferma che sì, Schillaci al Mondiale ci andrà. E ne preannuncia la compatibilità con Vialli: «Certo che si possono sposare, guai se non fosse così. Il calcio di oggi privilegia giocatori veloci, Schillaci lo è e può diventare importante». Le convocazioni per Italia ’90 sono attese alla fine di aprile, alla fine di un campionato il cui epilogo, da calendario, è anticipato il più possibile proprio per far lavorare al meglio il CT. Per i cronisti ci sono due posti per tre nomi, Schillaci non è nemmeno in dubbio, gli è bastata una presenza azzurra per stregare il CT: ballano Carnevale, Serena e Fusi. A togliere ogni dubbio è il jolly del Napoli campione d’Italia: «Mi ha telefonato Vicini per complimentarsi per lo scudetto e dirmi dell’esclusione. Ci sono rimasto male, ma non ne voglio parlare», dice il 29 aprile. Il giorno dopo Vicini conferma tutto, il parco attaccanti degli azzurri è ipertrofico: a voler considerare Donadoni nel gruppo dei centrocampisti puri, rimangono comunque Baggio, Carnevale, Mancini, Schillaci, Serena e Vialli, sei slot sui 19 riservati ai giocatori di movimento. Un’enormità per una squadra che ha in mente di giocare con due punte.

A Coverciano, la Nazionale è accolta da una caccia allo juventino da parte degli ultras della Fiorentina, perché il clima, tra la finale di andata Coppa UEFA appena giocata e l’affare Baggio, non è dei più sereni. Calci e sputi alla Lancia Thema targata Torino con cui Schillaci arriva in ritiro, reo di aver rifilato una pedata a Volpecina nella già citata finale di UEFA, accoglienza simile per Boniperti, il “traditore” Berti, andato all’Inter dopo gli anni di Firenze, scortato dalla polizia per consentire l’ingresso nel centro sportivo. «Meglio alla macchina che a me. Da mesi mi insultano in tutti gli stadi, ci sono abituato, ma ho avuto un po’ di paura», dice Totò. Il paradosso è che i bianconeri sono in ritiro ma destinati a salutare a breve, perché il raduno azzurro arriva tra una gara e l’altra: il ritorno della finale di UEFA è previsto il 16 maggio sul neutro di Avellino, scelta mai andata giù alla società viola, che di fatto si ritrova a giocare la partita “casalinga” in un feudo bianconero.

Coverciano si trasforma in un bunker, Vicini definisce «campioni di stupidità» i tifosi che continuano ad accorrere al solo fine di insultare tutti. Il CT pensa soprattutto all’amichevole contro la Grecia, la prima in cui potrà sperimentare la coppia Vialli-Schillaci. È un mezzo disastro. Finisce 0-0, l’Italia rischia grosso nel finale, gli ultimi venti minuti vedono Baggio al posto di Totò. Per tutti è una bocciatura. E così, nell’ultimo test prima del Mondiale, giocato ad Arezzo contro il Cannes, al fianco di Vialli rispunta Carnevale. Schillaci entra sul 3-0 (doppietta di Vialli e gol di De Napoli), sfiora il gol su punizione. Il regolamento del Mondiale prevede che i CT debbano comunicare anche chi sono le cinque riserve, la panchina non è aperta a tutti. Sull’attacco azzurro cala la nebbia. Il tracollo argentino al debutto con il Camerun non fa che aumentare i dubbi: e se Italia ’90 diventasse un clamoroso boomerang?

Watch on YouTube

Una ampia sintesi di Italia-Grecia, partita giocata con una maglia lisergica: non essendo un’amichevole ufficialmente riconosciuta dalla UEFA, gli azzurri non potevano presentarsi con la maglia effettiva, ripiegando su quella d’allenamento.

L’estate di Totò

Alla vigilia di Italia-Austria, debutto azzurro nel Girone A, Schillaci non è nemmeno certo di andare in panchina, con Vialli-Carnevale coppia titolare. «Un anno fa ero in Serie B, ora sono in Nazionale. Mettiamo che contro l’Austria non ci sia nemmeno la panchina: per questo dovrei essere infelice?», spiega ai giornalisti il giorno prima della partita con una serenità ultraterrena. Alla fine Vicini sceglie una panchina con più soluzioni offensive del previsto, portando con sé Vierchowod, De Agostini, Baggio e Schillaci. Per un’ora e un quarto, Italia-Austria puzza di imboscata. Le palle gol si susseguono ma non finiscono mai come dovrebbero. Sprecano Carnevale, Vialli, Ancelotti. Al minuto 74 arriva il momento del cambio, fuori un Carnevale spremuto come un limone, dentro Schillaci a fare coppia con Vialli. Quest'ultimo indovina quella che rimarrà la cosa migliore del suo Mondiale, un pallone lavorato in maniera sublime sulla fascia destra, accarezzato, guidato e poi lasciato andare senza esitazioni. Il cross dal fondo attraversa metà area di rigore, supera una testa e finisce lì, dove si è andato a piazzare Schillaci, in mezzo a due esseri umani decisamente più grandi di lui.

L’impatto con la fronte è perfetto, l’Olimpico erutta, Totò corre pazzo di gioia e con lui c’è un Paese intero che si è tolto dalle spalle una scimmia fastidiosissima. Eccole, le braccia al cielo, l’occhio sgranato, una gioia incontenibile, pura come acqua di sorgente. Festeggia pure Andreotti, in quel momento a capo del suo sesto governo da premier, il penultimo, all’apice del CAF, l’alleanza Craxi-Andreotti-Forlani. Schillaci ha buttato in porta il primo pallone toccato in un Mondiale. A fine partita si presenta ai giornalisti con gli occhi rossi di chi potrebbe aver pianto. «Io di testa sono negato, non la prendo quasi mai, tantomeno riesco a fare gol. Invece faccio un salto ed è fatta, con i due armadi immobili a guardarmi. Questo è un sogno, io che segno davanti a un miliardo di persone. Chissà cosa starà succedendo dove sono nato», dice ben sapendo che ha rischiato di non entrare nemmeno in campo, perché Baresi era a un passo dalla sostituzione dopo che Vicini aveva già tolto Ancelotti per De Agostini.

Nei giorni successivi è il più richiesto, il più cercato. Gli fanno leggere pezzi in cui si racconta di una Palermo esplosa di gioia per lui e si commuove come un bambino: «Io amo Palermo, non mi sentirete mai parlarne male. Non userò questo gol per lanciare messaggi sociali. Mi mancano il mare, il sole, le strade, gli amici. Palermo ha tutto, tranne il lavoro. Ed è per questo che tanti la lasciano. Ma per ritornarci. E lo farò anch’io, a fine carriera. Mi dicono che i bambini di CEP, il mio vecchio quartiere, stanno crescendo nel mio mito. E pensare che non sono nessuno. Sto raccogliendo un po’ di magliette così quest’estate gliele potrò regalare».

In vista ci sono gli Stati Uniti, il ruggito dell’Olimpico al gol di Giannini, il rigore sbagliato da Vialli, le parate di Zenga, il vaffa di Carnevale che al minuto 51 lascia il campo per Schillaci e in un colpo solo si trova ai margini del Mondiale e della Nazionale, la cui maglia non indosserà più. È una vittoria che ha il sapore del brodino, perché nel 1990 fare solo un gol agli Stati Uniti puzza di fallimento, soprattutto sotto gli occhi di 26 milioni di italiani appollaiati davanti al televisore. È in quei giorni che nasce Mattia, il figlio di Totò: volo per Torino, giusto in tempo per assistere alla nascita, quindi il rientro repentino nel ritiro di Marino. Per la terza partita del girone, Vicini sceglie la coppia Schillaci-Baggio. L’Italia deve vincere se vuole rimanere a Roma anche per gli ottavi: non c’è problema, perché i palloni sembrano attratti da Schillaci, gli finiscono addosso in tutti i modi. Dopo nemmeno dieci minuti c’è Giannini che colpisce malissimo al volo dal limite dell’area: Totò raccoglie una sfera destinata sul fondo e segna ancora di testa: «Quel pallone l’ho visto arrivare, l’ho aspettato, l’ho coccolato. E l’ho messo dentro con la mia testa spelacchiata». Nella ripresa viene abbattuto in area e chiede invano un rigore che non arriva e lo consegna alla storia: sul volto gli si dipinge un’espressione da arci-italiano, tra la protesta e la sorpresa. Poi si materializza Baggio, con uno dei gol più belli della storia dei Mondiali, uno di quei momenti di leggerezza che lo vedevano capace di sfilare accanto a corpi protesi unicamente nel tentativo di spedirlo a terra, senza mai riuscirci.

L’Italia scopre a scoppio ritardato che l’ostacolo successivo è l’Uruguay, per la combinazione delle migliori terze. Vicini dimostra un certo coraggio confermando la coppia Baggio-Schillaci, ma il gol non arriva. Dopo una manciata di minuti del secondo tempo decide che è il momento di rischiare ancora. Lo fa lasciando Vialli in panchina e inserendo Serena per Berti. La magia che avvolge Totò sembra svanita: nel primo tempo aveva sfiorato il gol con una girata volante di poco a lato, ora calcia addosso alla mano sinistra di Alvez. E invece anche questa è la sua notte. Un tocchetto lieve di Serena lo mette in posizione di sparo dal limite dell’area, è una palla rasoterra che gli corre di lato. È sul sinistro, è il piede debole. Debole a chi? Gli esce un missile, il pallone sale e poi scende subito dopo aver oltrepassato la figura tramortita di Alvez. Ancora quelle mani, quegli occhi, quel corpo sballottato a terra da un Baggio incredulo. «Ho visto la palla e mi è venuta voglia di tirare», non riesce a ricostruire altro a fine partita.

Watch on YouTube

Il gol più bello della carriera?

L’Italia vince 2-0 perché segna anche Serena, Schillaci si ritrova in sala stampa davanti a centinaia di giornalisti, deve mettere la cuffia dell’interprete per le domande in lingua straniera, fa una mezza gaffe, chiede scusa: «Abbiate pazienza, è la prima volta». Gli endorsement arrivano da ogni angolo del Paese. «Si vede dai suoi occhi spiritati che vive per segnare, più che un atleta mi sembra un attore: non ha una grande eleganza ma caracolla in modo cinematografico», dice di lui Pippo Baudo. Alle spalle c’è Vialli che sgomita, vuole riprendersi il posto in squadra. Ma chi togliere? L’Italia è tutta un carosello, da nord a sud. Non può spaventarci l’Irlanda, non con l’Olimpico dietro a spingere.

Ancora Baggio-Schillaci davanti, ancora questo potere mistico, inspiegabile, che porta una conclusione centrale di Donadoni sui guantoni di Bonner e poi sul destro di Totò, con il portiere che dopo la parata si ritrova totalmente fuori dallo specchio: è il gol più facile del Mondiale di Schillaci. «Mi sembra tutto così assurdo, vi prego, non svegliatemi». Nel secondo tempo spacca in due la traversa su punizione, il pallone per poco non rimbalza oltre la linea e invece, per una volta, viene sputato via dal destino. L’Eire si aggrappa alla partita ma non basta. L’Italia saluta Roma, destinazione Napoli, destinazione Argentina. Schillaci sente su di sé la caducità del momento: «Me lo devo godere, non capita ogni anno. C’è la gente che allo stadio invoca il mio nome pure quando non segno, quando il campo è vuoto. E c’è la gente davanti alla tv che tifa per me, dimenticandosi che sono un terrone. Mi fa piacere che anche i milanesi mi amino, forse quelli che prima mi insultavano non avevano ancora capito chi sono».

Si avvicina così uno dei capitoli più controversi della storia della Nazionale, una semifinale che doveva lanciarci verso la finale dell’Olimpico e che invece consacra un’Argentina sghemba, per una volta davvero composta da Maradona e altri dieci, molto più che in Messico. A generare il mito di un San Paolo ostile agli italiani a fine partita sarà soprattutto il commissario tecnico Vicini, che dirà «il pubblico di Roma ci aveva abituati in ben altra maniera». Schillaci parte lì davanti con Vialli e il gol che porta avanti gli azzurri è il manifesto di tutto ciò che ha funzionato per Totò e non ha funzionato per Vialli, che colpisce benissimo il pallone a differenza del tap-in del compagno, scoordinato, addirittura col piede sbagliato rispetto al previsto, eppure vincente. Si va ai rigori dopo il pareggio di Caniggia, si finirà per discutere in parte persino Totò, che sul dischetto non si presenta: «Avevo un dolore all’inguine, non me la sono sentita di tirare». Italia-Argentina è un drammone di cui si è già detto e scritto tutto il pensabile, tutto il possibile. L’Italia saluterà il Mondiale con la finale per il terzo posto vinta contro l’Inghilterra, questa sì, con un rigore di Schillaci, divenuto capocannoniere di un torneo che pensavamo di vincere e invece non abbiamo vinto.

Eppure non è un caso se oggi, a 34 anni di distanza, nel ricordare l’eroe leggendario e sfortunato di quel Mondiale, nei ricordi di tutti ci sono solo i momenti belli di un torneo chiuso in disgrazia. Schillaci, giunto secondo nella classifica del Pallone d’Oro di quell’anno alle spalle del trionfatore Lothar Matthäus, è stato agitato e invocato come un santino prima di ogni grande rassegna affrontata dalla Nazionale da quel momento in avanti, nella speranza di ritrovare qualcuno come lui, una manifestazione di gioia improvvisa, uno squarcio in un copione noioso, qualcosa di vero che illuminasse il cielo proprio come lui, per dirla con le parole di un capolavoro di Zucchero. Abbiamo cancellato tutto il resto, ce ne ricordiamo soltanto se qualcuno ci sussurra all’orecchio i nomi di Ferri e Zenga, di Caniggia, di Maradona che trasforma il suo rigore passeggiando, di Goycochea, l’eroe argentino addirittura meno atteso di Schillaci alla vigilia. Perché con il primo amore funziona così, salvi il bello e dimentichi il brutto.

E allora Schillaci ha sempre le braccia in alto, l’occhio sgranato, e riparte Un’estate italiana, la voglia di vincere, un’avventura in più. Quelle braccia in alto ce le ha oggi, ce le avrà domani, ce le avrà per sempre. E dobbiamo scomodare ancora Zucchero, che non ce ne vorrà: abbiamo camminato per le strade col sole dei suoi occhi. Ma ci vuole un attimo per dirsi addio.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura