Durante la scorsa estate, la più incerta della recente storia juventina, l’imminente dismissione di Sami Khedira è stata a lungo una delle poche certezze. “Esubero”, “rescissione consensuale”, “inadatto al gioco di Sarri” (e pareva inadatto per il nuovo allenatore già da prima che il nuovo allenatore fosse presentato): erano le considerazioni più frequenti di chi commentava lo svolgersi del mercato bianconero. Poi sono arrivate le prime amichevoli e Khedira era lì, titolare col numero 6.
Nel mondo del tifo juventino si ipotizzava che Sarri lo stesse mettendo in mostra per il mercato, eppure alla prima giornata di campionato Khedira era sempre lì, mezzala titolare con Matuidi dall’altra parte. «Certo, Sarri ha la polmonite, non può andare in panchina e si affida quindi alla vecchia guardia. In fondo è la Juve, servono i tre punti». Ma ormai la parola “esubero” era sparita dal campo semantico dei commenti riferiti al tedesco. Infine, quando Sarri si è fisicamente seduto in panchina, in campo c’era ancora Khedira, ormai più simile a un perno della squadra che non a un vecchio arnese da riporre.
Una carriera straordinaria
D’altronde, un perno lo è sempre stato. Stagione 2006/07, lo Stoccarda vince la Bundesliga per la quinta e finora ultima volta nella sua storia. Sami ha 19 anni ed è titolare per l’intera stagione. Estate 2009, nella Germania Under 21 ci sono Neuer, Boateng, Hummels, Höwedes, Özil. Khedira è il capitano. Horst Hrubesch, l’allenatore, gli dice: «Sei il nostro leader, se diventiamo campioni d'Europa o meno la responsabilità è tua». La Germania vince l’Europeo subendo un solo gol in tutto il torneo. In finale smantella l’Inghilterra 4-0. «Avere a che fare con questa pressione è stata una delle sfide più grandi della mia carriera», dirà Sami.
Nel 2010 lo vuole Mourinho per il suo Real Madrid, e Khedira vince la Liga dei record (100 punti), più una Copa del Rey e una Supercoppa di Spagna, entrambe battendo il Barça di Guardiola. Quando a Madrid arriva Ancelotti, Sami resta al centro del progetto tecnico nonostante la rottura del legamento crociato. Rientra in squadra il 2 maggio 2014 e ventidue giorni dopo gioca da titolare la finale di Champions League contro l’Atletico Madrid, contribuendo a portare finalmente la Decima alla Casa Blanca. Quella stessa estate diventa campione del mondo con la Germania.
A 28 anni arriva alla Juventus, vince 4 scudetti e 3 coppe Italia di fila, e dà forma, insieme a Pjanic, al duo di interni sul quale si appoggia il 4-2-3-1 di Allegri e che porterà i bianconeri fino alla finale di Cardiff. Nel 2018 è il capitano della Germania al mondiale di Russia. Quasi quindici anni di trionfi in cui Khedira si è peraltro trovato a dover saltare oltre 200 partite per infortunio, che lo hanno costretto a restare fuori per quasi 900 giorni complessivi, ovvero 2 anni e 5 mesi.
“Khedira? Neanche gratis”
Questo breve excursus sulla sua straordinaria carriera (sì, straordinaria) da una parte ci impone di considerare Khedira per quello che è, ovvero un grande giocatore; dall’altra ci è utile per fare da contraltare alla sua reputazione, costruitasi non sul curriculum ma su quello che di lui si è visto, negli anni, in campo. E nel mondo del calcio sono davvero rare le voci che usano per Khedira aggettivi all’altezza di quello che dice la sua storia. Molte, invece, sono quelle critiche. Per dare un’idea di quali possano essere i toni e i giudizi prevalenti sul centrocampista tedesco, riportiamo il parere di Shaka Hislop, ex portiere di Newcastle e West Ham, oggi commentatore, che solo qualche mese fa, durante il calciomercato estivo, ha detto a ESPN: «Non so perché l’Arsenal dovrebbe correre il rischio di prenderlo. Anche se arrivasse gratis, cos’è che ha da offrire ormai? Credo che le sue gambe siano andate, non penso vada neanche vicino a dare quel che serve a centrocampo».
Un’opinione forte, ma che rispecchia quella di molti tifosi ed è piuttosto in linea con ciò che dicono, spesso con tono più accorto e istituzionale, anche diversi commentatori, influencer, analisti e addetti ai lavori. Secondo un certo discorso comune Khedira è lento; ha uno scarso impatto sulla partita; è privo di evidenti qualità. E non sono narrative nate quest’estate o nell’ultimo anno, ma accompagnano Khedira dai tempi di Madrid, quindi da quando è arrivato là dove resiste ancora oggi, ai vertici del calcio europeo.
La distanza tra il curriculum di Sami e la sua reputazione è sconcertante e perciò intrigante. C’è qualcosa che sfugge, e la ragione suggerisce che stia sfuggendo a noi, non a Mourinho, Ancelotti, Löw, Allegri e Sarri. Eppure all’occhio attento e al cuore agitato dei tifosi appesi alla squadra che lo ha in campo, Khedira pare davvero, per quanto ci si sforzi, l’incarnazione delle sue critiche.
La lentezza è quella di un uomo di un metro e novanta per novanta chili i cui movimenti non nascondono niente del peso e, assieme, della fragilità del suo corpo. Il giovane Khedira aveva se non altro un dinamismo dinoccolato che, enfatizzato da capelli allora lunghi e svolazzanti, segnalava una buona presenza fisica dentro le partite. Col tempo, con gli infortuni e con la scelta di un taglio più sobrio, questa sensazione di presenza si è affievolita, e ciononostante Khedira è rimasto in campo.
La tesi dello scarso impatto è supportata anche dai numeri. Khedira non eccelle in nessuna delle voci statistiche comunemente usate oggi per misurare le prestazioni dei calciatori. Passaggi completati, palloni intercettati, dribbling, passaggi filtranti, palloni toccati, assist, tackle, duelli aerei: in ognuno di questi ambiti Khedira si colloca poco sopra o spesso anche sotto la media dei centrocampisti dei cinque principali campionati europei, e ciò sembra dare sostanza anche ai dubbi di chi non si fida solo di ciò che vede, ma prova ad approfondire l’analisi sul tedesco.
La povertà del suo contributo numerico si affianca a una certa piattezza tecnica. Le clip che raccolgono il meglio delle sue giocate, rintracciabili in modiche quantità sulle principali piattaforme di videosharing, sono tendenzialmente brevi e rimpolpate da giocate pregevoli ma che non vanno a buon fine. C’è sì qualche gol, qualcuno anche di buona fattura, e qualche bell’assist, ma complessivamente i video di highlights di Khedira, realizzati secondo i codici di intrattenimento con cui si montano quelli di Neymar o di Iniesta, risultano stiracchiati e poco emozionanti. E la ragione è che un numero singolarmente alto di partite si conclude senza che ci si possa ricordare di una sua singola giocata. Guardando giocare Khedira non si ha l’impressione di qualcuno che stia giocando male, ma di un calciatore che non si capisce sulla base di quali qualità possa giocare bene. Un calciatore che potrebbe non avere alcun talento.
2 minuti e 12 secondi del meglio dei 5 anni di Sami in Liga.
Che cos’è il talento
Prima di arrivare alla illogica conclusione che non ne abbia, però, è opportuno interrogarsi sulla nostra capacità di riconoscere il talento, le sue origini e il suo sviluppo. C’è un talento immediatamente distinguibile anche da chi non segue il calcio, che è quello acrobatico: una rovesciata, un gol al volo da venti metri, un colpo di testa in tuffo, alcuni stop volanti sono gesti straordinari per chiunque li veda. C’è poi un talento che è evidente per tutti coloro che guardano il calcio, ed è tendenzialmente quello relativo al dribbling, a molti bei gol, in generale a diversi aspetti del gioco di chi ha compiti offensivi. Probabilmente per molto tempo questo è stato l’unico talento riconoscibile e attraente per il grande pubblico: per quasi tutto il ‘900 il calcio è sì stato The Beautiful Game, ma grande parte degli appassionati ne vedeva pochissimo.
Oggi abbiamo più nozioni calcistiche e possiamo riconoscere la grandezza di calciatori con funzioni che prima davamo per scontate. Non ci stupiamo della titolarità di Matuidi, perché siamo abituati a incorporare nella nostra analisi aspetti del gioco che prima non mettevamo a fuoco, come la capacità di portare pressione, il recupero palla, corsa e sacrificio, “fatiche e botte”. La novità, casomai, nel calcio innovato da Guardiola, è stata imparare a vedere il senso di Busquets e di Xabi Alonso, o anche di uomini come Carrick e Thiago Motta. Gente che non tira, non segna, non sgomita, non corre, non fa assist né dribbla. Gestisce il pallone, “fa girare la squadra”, “detta i tempi”, trova tra le linee avversarie compagni più creativi: tutti elementi meno palesi di un doppio passo, e che hanno un’importanza distribuita su novanta minuti e non concentrata su di un singolo momento. Eppure, anche un pubblico ormai molto più competente di un tempo, guarda Khedira e non vede niente di particolare. Khedira non fa girare la squadra. Tocca pochi palloni e li gioca quasi tutti in modo apparentemente semplice. Non dribbla, non ha rilevanti capacità di verticalizzare, né di giocare sul lungo. Non è una mezzala di possesso, non contrasta, non va in tackle, non vince duelli aerei. Non scatta, non strappa palla al piede, non copre ampie zone di campo. Spesso non dura neppure novanta minuti.
Alla Juventus questa sua impercettibilità è stata se non altro alleviata dai gol. Nel centrocampo di Allegri, e in particolare da mezzala pura, Khedira ha avuto il compito di andare a riempire l’area avversaria e questo gli ha permesso di andare a segno 21 volte in quattro anni. Il 22 ottobre del 2017, in un ruvido Udinese-Juventus giocato alle 18 e finito 2-6, Khedira mette a segno una tripletta, un traguardo che è riuscito a pochissimi centrocampisti della Juventus (e a molti fuoriclasse non è riuscita: Tardelli, Zidane, Nedved, Pogba, per citarne qualcuno).
Incornata su inserimento, girata in area, percussione con destro incrociato.
I gol di Khedira sono quasi tutti semplici. Giungono come naturale conseguenza di uno stato di cose, in situazioni in cui tutto è apparecchiato e Sami non deve forzare niente. Anche se non ha un’efficacia realizzativa superiore alla media, Khedira arriva molto spesso, come si dice, “nel posto giusto al momento giusto”. La sua però non è una capacità di sentire il gol, di prevedere o addirittura indurre l’errore avversario, caratteristica degli Inzaghi, degli Icardi, in un certo qual modo anche di Messi e Cristiano. Khedira non segue un’intuizione, ma va al tiro attraverso la lettura e la comprensione di ciò che si sta sviluppando, supportando il naturale svolgimento di un’azione. Altre volte, con invariabile semplicità, riesce a trovare e penetrare le crepe di un sistema difensivo in conduzione palla al piede, o con un triangolo ben eseguito: il gol nel derby del 2016, dove capisce che nessuno sta chiudendo su di lui, o quello al San Paolo del 2017, nel quale coglie impreparati sia Allan che Callejon e passa nel mezzo a entrambi.
Come mettere in discesa una partita complicata.
La capacità di andare in gol di Khedira, tratto finalmente visibile del suo gioco, si è però manifestata solo nei suoi ultimi quattro anni, quelli alla Juventus. Al Real, fin dalla prima stagione (40 presenze, 0 gol), ha avuto compiti molto meno offensivi e in cinque anni a Madrid sono solo 9 le reti segnate da Sami, una media di neppure 2 a stagione. La grandezza di Khedira, quindi, non si spiega con i gol. Forse, in parte, quella del Khedira juventino, che potrebbe aver colmato la perdita di dinamismo con una maggior intelligenza negli inserimenti sottoporta, anche se si tratterebbe di uno sviluppo in controtendenza con la generale propensione di molti calciatori ad arretrare il loro raggio d’azione con il passare del tempo. Ed è quindi ragionevole pensare che i gol avrebbe potuto segnarli anche prima, se solo glielo avessero chiesto.
A sostenere la sua causa a Madrid, se non c’erano i gol, c’era comunque Mourinho che, rispondendo a chi già allora criticava Sami, scelse un lapidario: «non vedo attualmente nessun giocatore che sia migliore di lui nella sua posizione». Massimiliano Allegri, in simili circostanze, è stato forse ancora più netto: a un giornalista che gli chiedeva come convincere i critici del perché Khedira fosse così fondamentale, Allegri rispose «Non ho da dire niente. [...] Non si può criticare Khedira. [...] In molti guardano le partite, ma in pochi le vedono», , alludendo apertamente alla scarsa competenza dei critici.
Ma cosa c’è da vedere, che i critici non colgono e gli statistici non misurano? Cos’è che sfugge?
L’influenza decisiva e sottile di Sami Khedira
In un’altra occasione Allegri lo aveva elogiato dicendo che Khedira «capisce a che velocità bisogna andare durante la partita e vi si adegua». Il che non definisce nessuna caratteristica tecnica o fisica particolare, ma è un’affermazione che implica una superiorità del tedesco sul suo contesto. C’è la partita, ci sono i calciatori che fanno la partita, e poi c’è lui, sopra la partita, che la comprende e la controlla. Per provare a spiegare Khedira, Allegri ricorre quindi a un concetto astratto e vago, la «velocità della partita», che appartiene più al livello delle percezioni che a quello dei dati misurabili, se non altro, fino a oggi.
Anche Sarri, dopo la vittoria della Juventus a Bergamo, ha per la prima volta dovuto rispondere alle critiche su Sami, e anche lui ha richiamato il tema della velocità della partita. A un giornalista che chiedeva se le molte partite giocate da titolare dal tedesco fossero dovute ad una ricerca della condizione ottimale, visto che in campo sembra un problema più che una risorsa, Sarri ha replicato in maniera molto simile ad Allegri: «Mah, se Khedira è un problema io i problemi me li tengo volentieri. È un ragazzo di un’intelligenza tattica mostruosa. Poi può darsi che quando le partite viaggiano su certi livelli di intensità, di accelerazione e di ritmo possa avere anche un attimino di difficoltà. [...] Può dar l’impressione in certi momenti di non reggere il ritmo della partita».
Sarri inizialmente sembra concedere qualcosa a chi sostiene che Khedira soffra in contesti molto veloci; poi però precisa che è un’impressione che si può avere, uscendo dall’apparente contraddizione con la tesi di Allegri: Khedira capisce, sceglie la velocità a cui bisogna andare, che non necessariamente deve essere la massima possibile. In ogni caso, la sostanza della risposta di Sarri è in gran parte dietro alla scelta dell’aggettivo «mostruoso». Il valore di avere in campo Khedira e la sua «intelligenza tattica» è superiore agli ipotetici svantaggi portati dalla sua lentezza, reale o percepita che sia. Per questo Sarri lo ha scelto come titolare anche in casa dell’Atalanta di Gasperini, probabilmente la partita più «veloce» della Serie A 2019/20.
A volte le impressioni che si ricavano dalle partite si sintetizzano online in piccoli miti collettivi, meme o giocose superstizioni, e in questa prima parte del campionato si è iniziato a leggere che Khedira non si nota quando è in campo, ma quando esce. E da un’analisi parziale e semiseria di alcune partite emerge che il punteggio dell’ultimo Juventus-Napoli, una volta uscito Khedira (per Emre Can) è passato in mezz’ora da 2-0 a 4-3, quello dell’ultimo Atletico Madrid-Juventus in venti minuti da 0-2 a 2-2. Pur non essendo dati statistici rilevanti, non possiamo ignorare la sensazione che, una volta priva di Khedira, la partita si sparpagli, soprattutto sulla catena di destra della Juventus, che finisce per perdere fluidità, armonia, distanze.
Lorenzo Minotti, dopo Parma Juventus 0-1, ha commentato nel post-partita di Sky che dopo i cambi la squadra si è disunita. In quell’occasione era stato proprio il tedesco ad uscire, per far posto a Rabiot. Cercando una parola sola si potrebbe dire che spesso la squadra senza Khedira, o meglio quando viene sostituito, perde “coesione”, ma forse il termine giusto è proprio quello richiamato da Minotti: “unità”.
L’assenza di Khedira evidenzia quella che forse è la sua funzione principale e la sua eccellenza: muoversi in base al contesto, non comportandosi mai da individuo, ma sempre come parte di un insieme operativo e in funzione del suo scopo. Oltre le indicazioni dell’allenatore, la tattica, la strategia, i principi di gioco, c’è Khedira, un uomo che contribuisce come nessun altro ad assemblare dieci teste e dieci corpi in un singolo sistema equilibrato, funzionale, e con un unico intento. Con Khedira in campo, il succedersi delle singole scelte di gioco appare più coerente e la disposizione complessiva degli individui in campo più organizzata, perché uno di loro si muove costantemente e perfettamente in base agli altri, e in relazione all’avversario. E per la posizione che ricopre può estendere la sua influenza a 5 o 6 dei 9 compagni di movimento: da mezzala destra in un 4-3-3, Sami può muoversi in relazione a esterno basso ed esterno alto, vertice basso, mezzala sinistra, punta centrale (o trequartista).
Quando la sua squadra è in possesso, Khedira accompagna i movimenti degli esterni, oppure li compensa. A possesso consolidato, sa spingersi in avanti fino a riempire lo spazio libero in area di rigore, di fatto funzionando, anche all’interno della stessa azione, sia da contrappeso che da punta di scorta.
In questo gol al Milan va sottolineato lo scatto orizzontale che Khedira compie una volta che il pallone da Douglas Costa arriva a Dybala, figlio di una lettura del gioco e delle intenzioni del compagno di livello superiore rispetto a tutti gli altri in campo. La conclusione poi arriva naturale come al solito, e in quel momento dà anche l’occasione al tedesco di rispondere su Twitter a qualche fischio che si era sentito allo Stadium.
In fase di non possesso, invece, Sami legge costantemente il campo attorno a sé e si muove per dare quanta maggior compattezza possibile alla sua squadra, riducendo al minimo lo spazio e le linee di passaggio disponibili per gli avversari. Ed è come se ogni volta, ogni secondo del match, dovesse risolvere una sequenza numerica inserendo il valore esatto. Palla, avversari, compagni, indicazioni tattiche, momento specifico della partita. Quanto pesa questo dentro a una partita? Più o meno di 5 dribbling riusciti, di 10 palloni recuperati, di 20 passaggi in verticale completati? È più semplice questo o un tiro all’incrocio da 30 metri? È più utile questo o un gol? E quanto vale per un allenatore?
Il momento forse più surreale in cui si è parlato di Khedira è arrivato durante lo scorso mercato invernale, fase in cui la Juventus era poco brillante e afflitta dagli infortuni. Khedira era rimasto fuori quasi sempre, fin lì, per problemi fisici, e sarebbe dovuto tornare a disposizione poco dopo (non andò così: dopo poche settimane gli venne diagnosticata un’aritmia atriale che lo costrinse a saltare tutta la fase più importante della stagione). A chi gli chiedeva se fosse il caso di intervenire sul mercato, evocando come spesso accade nomi del livello di Pogba o Milinkovic-Savic, Allegri rispose: “Il nostro acquisto di gennaio sarà Khedira”. Un’affermazione che sembra una battuta, una trollata tipica dell’allenatore. Ma quella è solo la nostra interpretazione, o al limite l’interpretazione che Allegri sapeva che avremmo dato. Non abbiamo nessun motivo per pensare che Allegri non considerasse Khedira un giocatore del livello dei nomi che giravano per il centrocampo della Juventus, e che non credesse davvero che il ritorno in condizione del tedesco sarebbe stato determinante per affrontare la parte cruciale della stagione. È possibile che Allegri abbia detto la verità e che noi la abbiamo presa per uno scherzo.
Khedira con Sarri
L’annuncio da parte della Juventus di Sarri come nuovo allenatore aveva portato subito a immaginare una squadra tecnica, intensa, aggressiva in fase di recupero palla e rapida nel gioco a uno o due tocchi, aspetti del gioco apparentemente poco affini al profilo del tedesco. Eppure Khedira, in questi mesi di lavori in corso, sembra poter dare a Sarri la tranquillità di costruire il suo sistema, di cambiare modulo e interpreti, di sperimentare, limitando come nessun altro il rischio di squilibri ed equivoci tattici, offrendogli preziose garanzie di compattezza difensiva e di intelligenza nel disordinare una difesa con il movimento. Inoltre la sua la capacità di riempire l’area, ormai priva di Mandzukic, allevia alcune delle incertezze nell’impostazione di un sistema offensivo che deve assemblare Douglas Costa, Dybala, Ronaldo e un Higuain rifinitore. E in una squadra che vuole essere dominante, che difende in avanti e mira a giocare prevalentemente in una sola metà campo, anche i suoi limiti di dinamismo sulle lunghe distanze finiscono per perdere importanza. Alla luce di questi primi mesi, insomma, Khedira sembra un calciatore ideale per questa squadra in questo momento. E alla somma dei suoi pregi visibili e delle sue funzioni specifiche sembra sempre mancare qualcosa che possa spiegare completamente la impronosticabile naturalezza con cui Sami è passato da un sistema all’altro, restando se stesso, e restando in campo.
A corollario di queste considerazioni, è forse legittimo supporre che almeno una parte del talento di Khedira sia impercettibile non solo per noi, ma anche per alcuni suoi compagni. In fondo saper giocare a calcio a vent’anni non implica capire il calcio, almeno non in tutte le sue sfumature. In un’ideale partitella al parco, dopo l’ipotetico pari o dispari tra, facciamo, Higuain e Dybala, è difficile immaginare se Khedira sarebbe scelto tra i primi o tra gli ultimi. E ci si chiede cosa abbia potuto pensare Emre Can quando a inizio settembre è stato escluso dalla lista Champions per far posto, di fatto, a Khedira. Emre Can che è più forte a livello fisico, più veloce, più resistente, più agile di Khedira. È più bravo di testa e nel corpo a corpo, ha un miglior tiro da fuori. È migliore nei tackle, in marcatura, ha più familiarità con il gioco in acrobazia, col dribbling, è più duttile, è più integro fisicamente, copre più campo ed è più giovane di 7 anni. Non sappiamo se Emre Can capisca appieno il talento di Khedira, ma se c’è un uomo che ne avrebbe bisogno oggi è certamente lui.
L’ultima domanda da farsi è se Sami stesso si capisca e abbia chiaro il suo valore. Se sia consapevole della sua importanza, della sua eccellenza. Se saprebbe descriverla, motivarla, insegnarla. Se sia qualcosa di innato, come il sinistro di Dybala o lo scatto di Douglas Costa. Se sia principalmente istintiva, come il fiuto del gol, la capacità di leggere un rigorista o di intercettare passaggi. O se sia invece frutto di una comprensione conscia e consapevole del gioco. I suoi movimenti sono intuizioni o scelte ponderate? Khedira quando gioca pensa, o sta meditando?
La grandezza della carriera di Khedira ci sfida ad approfondire aspetti del calcio che vanno oltre le singole giocate, oltre i sistemi di gioco, in parte anche oltre i dati attualmente nostra disposizione. Ci apre la porta su un universo di altri modi in cui si può influenzare una partita, quasi senza toccare quello che apparentemente è l’oggetto del proprio mestiere, il pallone. O facendolo sempre in modo semplice, perché il calcio è un gioco semplice, diceva Cruyff, ma giocare un calcio semplice è la cosa più difficile che ci sia.
Io mi immagino che chi allena Khedira colga questa dimensione per noi inafferrabile, che sia capace di apprezzare gli effetti di ciò che Sami fa. E che veda un giocatore che rende la squadra un po’ più squadra. Potrebbe non esserci talento calcistico più grande.