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Quel mercoledì di coppa di 30 anni fa
19 apr 2019
Il 19 aprile 1989 la Sampdoria, il Napoli e il Milan raggiunsero le finali delle tre coppe europee nello stesso giorno.
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21 min
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Anni come giorni, son volati via. La mattina del 19 aprile 1989 abbiamo il dovere di essere ottimisti, come italiani e come appassionati di calcio: il nostro pallone si gioca tre semifinali europee con fondate speranze di filotto. Quella messa peggio è la Sampdoria, che deve rimontare una sconfitta in trasferta per 2-1 senza il suo attaccante più forte; meglio sta il Napoli, che parte dal 2-0 del San Paolo e progetta una serata di bunker e contropiede a Monaco di Baviera; inebetito da settimane, a testa in su guardando alte nuvole e altissimi progetti, è il Milan che sfida storia e futuro e dentro di sé si chiede se ne sarà all'altezza. Tutte e tre sono logiche favorite nel Paese sereno e positivo, indulgente e assai disposto al perdono, proteso verso un Mondiale di Italia '90 in poderosa e mostruosa costruzione.

L'Italia che ride e sogna con il Piccolo Diavolo di Benigni e Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, entrambi nel cartellone del Festival di Cannes 1989 – ma quel mattacchione di Wim Wenders, presidente di giuria, alla fine farà vincere le inquietanti dissonanze di Sesso Bugie & Videotape, il film d'esordio del 26enne americano Steven Soderbergh. L'Italia che canta “Won't you break my heart” come la radio della canzone di Raf così patinata e ruffiana da diventare irresistibile.

L'Italia che guarda con stupore e attenzione, ma sempre naturalmente con grande fiducia, alle piccole grandi rivoluzioni in Cina e in Polonia, che porteranno a grossi cambiamenti di là a qualche mese; l'Italia del Governo De Mita espressione del Pentapartito, di Paolo Cirino Pomicino “o' ministro” della Funzione Pubblica – e come spieghereste a un bambino di sei anni di cosa si occupa precisamente il ministro della Funzione Pubblica?

L'Italia, insomma, che il 19 aprile 1989 sta bene!, e lo ripete a piè sospinto, sì sì, stiamo proprio bene, tanto da indurre al fastidio. E difatti il 19 aprile 1989 Francesco De Gregori presenta a Milano il suo undicesimo album che invece è orgogliosamente pessimista, l'album in cui il Principe passa dalla metafora alla cronaca e parla di ecologia, aborti, criminalità, dei 300 milioni di topi che infestano l'Italia, un album ferocemente attaccato al presente tanto da chiamarsi, appunto, “Mira Mare 19.4.89”.

La canzone più inclassificabile dell'album è “Cose”, un elenco di piccoli elementi di inquietudine e di note stonate. «È venuto qualcuno, ma non si è presentato; è venuto lo stesso, ma non era invitato. È venuto qualcuno che ci guarda e sta zitto, e c'è qualcosa che cambia sotto questo soffitto».

Sta bene anche la Serie A, sempre più ricca e baldanzosa, sempre più aggressiva. Consapevoli della vetrina ulteriore rappresentata dal Mondiale, i migliori calciatori al mondo vogliono tutti venire da noi. In estate l'Udinese e la Cremonese, neopromosse in Serie A, compreranno giocatori della Nazionale argentina. Nel frattempo ristrutturiamo e ingrandiamo gli stadi, inseguendo discutibili propositi di gigantismo riassunti nel micidiale attacco di “Giocatore mondiale” di Elio e le Storie Tese, simpatico complessino milanese: «Là, c'è una bandiera che sale/qua, c'è un muratore che cade».

Tutto in diretta e in Eurovisione: il mercoledì di coppa è diventato un rito pagano accompagnato da un entusiasmo sempre maggiore ora che le squadre italiane non fanno da tappezzeria come negli anni Settanta ma se la giocano e puntano il traguardo, come quasi è riuscito l'anno prima all'Atalanta di Mondonico, squadra di Serie B arrivata in semifinale di Coppa delle Coppe. A sbarrarle la strada, allora, l'arcigno Malines, massimo esponente della "Grande Belghezza" di fine decennio. E proprio il Malines se la deve vedere la Sampdoria.

Sampdoria-Malines, semifinale Coppa delle Coppe (andata 1-2)

Cos'è questo Malines? Non sarebbe più giusto chiamarlo con il suo nome originale, ovvero Koninklijke Voetbalvereniging Mechelen – ok, meglio Malines. Sono scaltri fiamminghi, esegeti dello 0-0 in trasferta, eccellenti rimestatori di un calcio razionale e meditabondo come quello della Nazionale di Guy Thys, di cui costituiscono l'ossatura. Sono detentori del trofeo, conquistato dopo aver eliminato l'Atalanta e in finale il favorito Ajax - massima goduria per il loro allenatore olandese, Aad De Mos, cacciato proprio dall'Ajax tre anni prima per far posto all'Eletto Johan Cruijff, intenzionato a diventare allenatore. Poi hanno vinto la Supercoppa Europea strapazzando il PSV Eindhoven di Guus Hiddink, Romario e Ronald Koeman in un altro derby del Benelux andato in scena a febbraio.

Sono il miracolo del miliardario John Cordier, industriale nel settore elettronico con la Telindus, che ha potenziato l'organizzazione del club e ha ristrutturato il piccolo stadio Achter de Kazerme (letteralmente, “Dietro la caserma”). I punti di forza sono il fortissimo portiere Michel Preud'homme, il centrocampista Erwin Koeman (fratello maggiore – ma solo per l'età - di Ronald, sontuoso libero del PSV e dell'Olanda campione d'Europa) e l'attaccante Eli Ohana, probabilmente il più forte calciatore israeliano di ogni tempo, che dopo una stagione da one-hit-wonder sta rapidamente rientrando nei ranghi. Ma anche un giovane attaccante, Marc Wilmots, che sarà stella nel Belgio del futuro.

Se negli anni Ottanta una sconfitta per 2-1 in trasferta è un risultato da vivere con un certo ottimismo, il Malines è l'eccezione che conferma la regola, essendo capacissima di esprimersi in trasferta ancora meglio che in casa – parla chiaro la striscia di 16 partite europee senza mai perdere. Ha vinto 2-1 la gara d'andata, giocata sotto una pioggia mista a neve che ha spiazzato la squadra e gli 800 tifosi arrivati da Genova, poco avvezzi all'aprile polare delle Fiandre. Nella melma di Mechelen si sono sentiti i cingoli dell'immenso Vierchowod ma Roberto Mancini è finito nelle sabbie mobili; così, sotto 2-0, a portare a casa la pagnotta ci ha pensato Luca Vialli che ha accorciato le distanze di pura rabbia, inviperito dal cartellino giallo che lo costringerà a saltare il ritorno.

A Marassi lo sostituisce il friulano Loris Pradella, mestierante dell'area di rigore che interpreta il calcio come il rugby, un granatiere che si è adattato bene al ruolo di rincalzo. Agli avvoltoi che gli prospettano l'esonero in caso di eliminazione, Boskov ha predicato calma e gesso («Al ritorno tempo buono, terreno perfetto. Il Malines dopo un quarto d’ora non saprà più dov’è nord, sud, est, ovest»), ma la notte del 18 aprile e la mattina del 19 aprile a Genova piove a dirotto e lo scheletrito Ferraris, con le due gradinate inagibili per metà e il nuovo settore Distinti ancora non aperto al pubblico, si riduce a un pantano.

Il paperotto Mancini sembra nuovamente annaspare già dopo pochi minuti, Vierchowod è costretto a stendere Dewilde lanciato verso Pagliuca e rimedia quel giallo che gli farà saltare per certo la finale (e l'assenza sarà pesantissima). Serve un battito d'ali che risollevi il Doria impantanato e Boskov tira fuori il jolly al 65': toglie Pradella e mette Fulvio Bonomi, un centrocampista per un attaccante, mossa contro-intuitiva che priva di punti di riferimento un Malines che inizia a mandare accentuati segnali di bollitura e lo costringe a badare a ogni spazio.

Dal letame nascono i fior, diceva uno che proprio blucerchiato non era, ma fa niente; così passa la Samp al minuto 69, con un colpo di stecca di Roberto Mancini, eseguito su un prato che del tavolo da biliardo ha solo le buche: la palla passa attraverso due o tre belgi e viene raccolta dal puntuale inserimento di Toninho Cerezo, arrivato con il tipico passo felpato da gatto giaguaro dell'Amazzonia. Piattone destro con tutta la tranquillità del mondo per segnare uno dei gol più importanti della storia della Sampdoria e cambiare completamente la partita, perché ora il Malines da cinico e spietato si fa sgangherato e lascia praterie ai doriani schierati in modalità testuggine, in cui anche i massaggiatori si sentono in obbligo di partecipare: uno di loro spinge in campo Marco Lanna prima ancora che sia uscito Stefano Pellegrini e l'arbitro ammonisce il difensore, provocando l'ira di Boskov.

Così a cinque minuti dalla sirena arriva il momento fatale. Vierchowod spazza e Bonomi rifinisce per la lunga cavalcata di Beppe Dossena, che ha davanti un'intera metà campo deserta ed è spinto verso la rete dal telecronista RAI Ennio Vitanza: «Vai Dossena, tocca a lui risolvere la partita!». Dossena, inciuchito di fatica pure lui, quasi incespica, sembra allungarsi la palla, ma poi risolve la grana Preud'homme con un numero stile Pelé contro il portiere dell'Uruguay Mazurkiewicz ai Mondiali 1970: gli fa sfilare la palla a sinistra e lo aggira da destra, ma poi non buca l'appuntamento col destino come aveva fatto O Rey, che non avrebbe mai colto la drammaticità di un Sampdoria-Malines nel fango. Gol! E siccome tutti i salmi finiscono in gloria c'è tempo anche per il 3-0 di Fausto Salsano, che si avventa da dietro su una sponda di Mancini e scaraventa rabbioso in rete di sinistro, a schemi completamente saltati. È la prima finale europea della storia di una squadra che, dopo tanti passi avanti e passi indietro, proclami e delusioni, coraggio e disappunto, è finalmente riuscita a diventare grande senza mai derogare dallo stile imposto da Paolo Mantovani.

Bayern Monaco-Napoli, semifinale Coppa UEFA (andata 0-2)

Sulle guide tv del giorno prima, la diretta di Bayern Monaco-Napoli non è prevista su alcun canale. La questione è complessa: come forse saprete, il presidente del Milan Silvio Berlusconi è anche molto affezionato alle tre reti Fininvest di cui la RAI – che ha i diritti delle partite di Coppa Campioni – è concorrente. Ogni grande partita europea del Milan porta sì soldi agli sponsor rossoneri (su tutti Mediolanum Assicurazioni, il cui proprietario ha una grande villa ad Arcore) ma anche ascolti faraonici alla RAI, il che danneggia direttamente Fininvest.

Perciò ora il Cavaliere chiede una cifra astronomica – qualcuno dice addirittura un miliardo – facendosi forte di una clausola inserita nel contratto che la RAI ha firmato a inizio stagione con le società impegnate in Europa, in cui si impegnava a evitare sgradite sovrapposizioni che avrebbero danneggiato la visibilità degli sponsor. La televisiùn la g'ha una forsa de leun, diceva Jannacci, e insomma, Berlusconi ha ragione, ma se i tedeschi programmano Bayern-Napoli per le 20:15, come se ne esce? Con un accordo all'italiana, propiziato dal governo campano-centrico: 150 milioni a Sua Emittenza per il disturbo e Bayern-Napoli in diretta alle 20:15 su Raitre, che non copre l'intero territorio nazionale.

Ma è davvero un peccato che il collegamento con Monaco di Baviera inizi a ridosso del calcio d'inizio, perché durante il riscaldamento vanno in onda immagini leggendarie, catturate dalle telecamere della tv tedesca. Diego Armando Maradona sta vivendo una stagione da separato in casa con l'allenatore Ottavio Bianchi, con cui non fa mistero di detestarsi cordialmente, e col presidente Ferlaino, a cui ha strappato una mezza promessa di venderlo a fine stagione all'Olympique Marsiglia di Tapie.

Eppure, da grande sensitivo qual è, avverte molto bene il peso della storia e della responsabilità che gli sta rovesciando sulle spalle il popolo napoletano concentrato a fissare il tabellone della Coppa UEFA: se tutto andrà bene, dopo aver eliminato la Juventus nei quarti, il Napoli contenderà il primo trofeo internazionale della sua storia agli squadroni tedeschi (l'altra semifinale è Stoccarda-Dinamo Dresda), andando a giocare entrambe le partite di ritorno in Germania, davanti a decine di migliaia di emigrati napoletani.

Unico depositario del mazzo di chiavi che apre i cancelli del Paradiso, consegnatigli probabilmente da San Pietro in persona o dal suo amico El Barba, Maradona fa il prezioso, si allena con il contagocce, lamenta cronici problemi alla gamba destra su cui specula come il più napoletano degli argentini, si diverte a provocare il risentimento umano di Bianchi che non lo sopporta più, ma non può farne a meno. All'andata è sceso in campo al 50%, ma ha comunque servito gli assist per i due gol di Careca e Carnevale; è il miglior giocatore al mondo, i tedeschi ne sono terrorizzati (in conferenza stampa l'allenatore Heynckes lo ha messo sul livello di Pelè) e in più al ritorno sono anche privi del medianone Olaf Thon, squalificato. E dunque cosa fa Maradona? Balla.

Gli altoparlanti dell'Olympiastadion sparano un pezzo riempipista per scaldare lo stadio. Si chiama “Live is life”, è opera di un gruppo austriaco che si chiama Opus e nel 1985 ha spadroneggiato nelle classifiche della Mitteleuropa (in Italia non è andato oltre la sesta posizione in hit parade, fermandosi curiosamente sotto un altro futuro caposaldo del tifo partenopeo, “L'estate sta finendo” dei Righeira). È un pezzo allegrone, chiassoso, genuinamente tamarro – o maranza, per adeguarci allo spirito dei tempi.

A pochi minuti dalla partita che può valere al Napoli la prima finale europea della sua storia, Maradona nota il palleggiatore ufficiale del Bayern che sta intrattenendo il pubblico bavarese e decide di sfidarlo: bada che tutti i compagni lo stiano guardando, muove le generose anche, tratta il pallone come se fosse il suo pupazzo Rockfeller e inizia a dipingere il videoclip perfetto, quello che Herwig Rudisser, frontman dei dimenticabili Opus, non avrebbe neanche potuto sognare. È il suo modo diretto e inimitabile di dire alla sua banda: «Guardatemi, io sono qui, insieme a voi, e non ho paura». Si astrae dall'aspetto sportivo e agonistico della faccenda per tre minuti di balletto contemporaneo, l'arte per l'arte, puramente gratuito.

Il contrasto tra la grazia dei movimenti di Diego e il contesto intorno a lui - una giacca da allenamento brutta e pesante, lo sponsor di uno snack iper-calorico in bella vista, un tardo pomeriggio grigio e senza luce - rendono questi tre minuti una scena di Sorrentino. E' per momenti come questo, molto probabilmente, che lo stesso Sorrentino non manca mai di infilare Diego anche in dichiarazioni molto impegnative («Maradona mi ha salvato la vita»), fino a ricordarsi di lui nel momento più alto della sua carriera, il discorso di ringraziamento per l'Oscar.

Sugli spalti ci sono 15 mila napoletani provenienti non solo da Napoli ma da varie regioni d'Europa: c'è anche un Napoli Club appena aperto in Olanda dove, si dice, è iscritto anche il padre di Ruud Krol. Il Bayern Monaco è una grande squadra e fa onore alla teoria di chi, in quegli anni, considera la Coppa UEFA ancora più competitiva della Coppa dei Campioni. Ha perso una sola partita in campionato, sta dominando la Bundesliga e in Europa ha già fatto sollevare più di un sopracciglio riuscendo a eliminare l'Inter “dei record” di Trapattoni nonostante una sconfitta casalinga per 0-2 all'andata: al ritorno ha segnato tre gol in sette minuti, Wohlfarth-Augenthaler-Wegmann, e ha ammutolito San Siro. Credono alla rimonta e preparano un assedio nei piani insostenibile.

Il Napoli è senza Carnevale, anche lui squalificato, e alle spalle di Maradona e Careca si abbottona con attenzione, pronto a ripartire. La partita è vibrante e lo 0-0 resiste solo per le prodezze dei portieri: Giuliani è strepitoso sul colpo di testa di Wegmann, Aumann addirittura monumentale sulla classica punizione radiocomandata di Maradona, smanacciata miracolosamente dall'angolo alto a destra. Lo stesso Diego, mentalmente tirato a lucido, alla mezz'ora entra duro in pressing alto su Flick e viene ammonito: un altro segnale ai compagni a non arretrare, neanche mentalmente. Ma il Napoli di Alemao, Renica, De Napoli, Ciro Ferrara non corre questo rischio e anzi sono i quadratissimi tedeschi a rischiare il tilt: a inizio ripresa Aumann regala clamorosamente il pallone a Crippa che, come sorpreso da tanta gentilezza, glielo calcia addosso. Dopo 60 minuti il punteggio è ancora 0-0, ma il Bayern è sbilanciatissimo e frequenti errori di appoggio e palleggio ne tradiscono la serenità.

La serenità e la spavalderia di Maradona non può avercela per costituzione il numero 2 bavarese, Norbert Nachtweih: nel 1976, in Turchia con l'Under-21 della Germania Est, aveva avuto il fegato di abbandonare la delegazione DDR, imboscarsi in un negozio di tè di un bazar a Istanbul e unirsi a una comitiva di americani per farsi portare al consolato tedesco occidentale e chiedere asilo. Da lì era stato messo su un aereo per Monaco, finalmente a Ovest, ma rassegnandosi a oltre un decennio di libertà vigilata, sempre tenuto sotto osservazione dai servizi segreti – quando avrà finalmente la possibilità di consultare l'archivio della STASI, aperto al pubblico dal 1991, si rifiuterà sempre di farlo, per paura di trovare nomi di amici o parenti nella lista dei suoi delatori.

Il 19 aprile 1989 il Muro sta lentamente cedendo ma anche Nachtweih non si sente molto bene: liscia maldestramente il pallone e sulla pressione di Maradona va giù come una piuma, lasciando il Pibe libero di appoggiare in mezzo per l'accorrente Careca. La semifinale di fatto finisce qui e inizia la mezz'ora più bella della storia del Napoli e dei suoi tifosi, i cui pensieri non sono turbati nemmeno dall'immediato pareggio di Wohlfarth. Anzi, all'ennesimo dei mille contropiedi lasciati dal Bayern, aperto da un altro svarione del povero Nachtweih, arriva lo scacco matto in tre mosse: Crippa-Maradona-Careca, questo centravanti meraviglioso che anche in Nazionale ha il vizio di castigare sempre i tedeschi, Ovest o Est. Il Bayern ha un ultimo sussulto e pareggia ancora con Reuter, poi il Napoli misericordioso si divora il 2-3 con Carannante quando già l'Olympiastadion è tutto un “Oj vita, oj vita mia”. I Righeira sono ancora di là da venire.

Milan-Real Madrid, semifinale Coppa dei Campioni (andata 1-1)

Arrigo Sacchi non riesce a chiudere occhio, per colpa dei pavoni, presagio di sventura. Li ha visti, quei maledetti pennuti, li ha incrociati a tradimento nel laghetto di Milanello spalancando le palpebre pesanti delle cinque del mattino. Il Milan sta viaggiando come su una crociera aerospaziale. Appena sei anni prima era in Serie B e non sono passate neanche tre stagioni da un concreto rischio di fallimento e libri in tribunale. Proteso verso il Duemila il Milan di Berlusconi ha fatto le cose enormemente più veloce degli altri, tanto che adesso siamo già arrivati al Real Madrid.

Il Madrid degli anni Ottanta è un'ottima squadra, è prima in campionato e segna a valanga soprattutto con il messicano Hugo Sanchez, ma non ha certo l'allure di quella mitica di Di Stefano, Gento e Puskas. Non vince una Coppa Campioni dal 1967 e questo le causa una certa ossessione, eppure in Italia più che altrove sembra il mostro insuperabile dell'ultimo livello dei videogiochi e si fa un gran parlare di questo miedo escenico, le sirene del Bernabeu che hanno portato a schiantarsi la Juventus, il Napoli e ripetutamente l'Inter (il “grande Real” cantato da Max Pezzali nel ritornello de Gli Anni è proprio quello anni Ottanta di Santillana e Butragueno che eliminava regolarmente i nerazzurri in Europa, quattro volte in sei anni).

In Italia il Real Madrid è un problema culturale. Non li eliminiamo dal 1967 (l'ultima Inter di Herrera, Coppa Campioni) e ultimamente a casa loro le abbiamo sempre buscate nonostante l'ostinata fortificazione di barricate di cartapesta, persino l'anno precedente quando il Napoli aveva avuto la fortuna di trovarlo deserto a causa di una squalifica del campo. Invece il 5 aprile il Milan è sceso in campo e ha lentamente abbassato il volume del Bernabeu, con un pressing feroce guidato da un grandioso Franco Baresi, senza paura nel guidare la linea difensiva fino al cerchio di centrocampo e mandare in doppia cifra il numero di fuorigioco degli attaccanti del Real.

Solo una mascalzonata dell'arbitro Fredriksson, che ha annullato a Gullit un gol regolare di almeno due metri, ha impedito il colpo grosso; ma a un quarto d'ora dalla fine è arrivato il meritatissimo 1-1 grazie al volo impossibile di van Basten, capace di trasformare un crossetto di Tassotti in un arcobaleno di testa laddove altri avrebbero faticato a metterla di piede. La partita di ritorno a San Siro è circondata di un'eccitazione che i tifosi milanisti non provavano da almeno vent'anni. Ma sono spuntati i pavoni.

È accaduto che Bubu Evani, uno dei pretoriani più preziosi di Sacchi, sia stato messo fuori combattimento proprio nell'ultimo allenamento da un'entrata troppo irruenta di un centrocampista della Primavera che aveva voglia di farsi notare: si chiama Demetrio Albertini, e Arrigo in futuro dimostrerà di non serbargli rancore. Smaltita la scorta di porcogiuda, Sacchi sceglie di puntare sul capitale umano: prende da parte il fido Carletto e gli chiede il sacrificio di indossare la numero 11 e spostarsi a sinistra, per non togliere Rijkaard dal salotto di centrocampo.

L'ultima notte a Milanello ha qualcosa di magico e teatrale: van Basten ha lo stomaco chiuso dalla tensione e salta la cena, Donadoni perde a biliardo, Ancelotti si sveglia ogni venti minuti per molestare il compagno di stanza: «Ruud, che ore sono?». Solo Rijkaard dorme beato, dopo aver visto in tv un film di Franco e Ciccio. Sacchi ammazza l'alba guardando i pavoni e ascoltando il pastore tedesco Max che abbaia alla luna piena. Sa di aver fatto tutto il possibile. Ha mandato l'amico Natale Bianchedi a spiare le idee di Beenhakker alla Ciudad Deportiva, travestito da giornalista. Ha ripassato il copione e ha ripetuto la processione camera per camera, fermandosi dai suoi Intoccabili, Galli, Tassotti, Maldini, Ancelotti, Baresi che lo chiamano Eliot Ness, come il personaggio di Kevin Costner nel film di Brian De Palma. E domani, come andrà?

La sera del 19 aprile 1989 piove anche a Milano. La UEFA ha dato disposizione di osservare sui sei campi delle semifinali un minuto di silenzio per i 96 morti di Hillsborough, quattro giorni prima; quello di San Siro è particolarmente sentito. L'arbitro belga Ponnet ferma i giocatori in campo al sesto minuto, lo stesso in cui è stata interrotta la semifinale di Sheffield tra Liverpool e Nottingham Forest. Dalla curva Sud si alza solenne “You'll never walk alone” ed è una circostanza per nulla banale, a meno di quattro anni dal trauma internazionale dell'Heysel a causa del quale le squadre inglesi, il 19 aprile 1989, il mercoledì sono ancora semplici spettatrici.

Rallegrati dalla Sampdoria, caricati dalla resistenza del Napoli a Monaco, gli appassionati di calcio all'ascolto scoprono adesso il futuro, come l'astronauta di Kubrick lanciato alla velocità della luce oltre l'infinito. La dimostrazione d'intenti di Galli, Tassotti, Maldini, Colombo, Costacurta, Baresi, Donadoni, Rijkaard, van Basten, Gullit, Ancelotti era stata in un certo senso anticipata il giorno prima da Silvio Berlusconi, che aveva vagheggiato il calcio di domani con parole straordinariamente attuali: «Sarebbero necessari due campionati, quello nazionale di domenica e quello europeo di mercoledì. I vantaggi sarebbero per tutti: maggior interesse sui giornali, in tv, maggiori incassi e miglior spettacolo. E anche una spinta sul cammino dell'integrazione europea».

Come da tradizioni locali, le dichiarazioni pre-partita dei madridisti sono state improntate a un ottimismo da televendita: ma ehi, è il 19 aprile 1989 e quelli ottimisti davvero siamo noi. Sul campo va in scena qualcosa di molto simile a un'esecuzione sommaria, però praticata con il senso dello spettacolo e della grandeur imposto da Berlusconi ai suoi talentuosissimi dipendenti. Inizia Carlo Ancelotti, con una fiondata dai 25 metri su cui Buyo sfarfalla maldestramente. Prosegue Frankie Rijkaard, evidentemente ritemprato dalle gag di Franco e Ciccio, che prende l'ascensore sul cross da destra di Tassotti e schiaccia in porta il 2-0. Ogni pallone che gonfia la rete scarica a terra litrate d'acqua: è una di quelle notti di pioggia furibonda che hanno fatto, e faranno ancora, la storia del Milan.

Dopo un netto rigore negato a Gullit, il 3-0 arriva già a fine primo tempo, al culmine di una percussione condotta dal Tulipano Nero insieme a Donadoni, con il piglio di due generali romani all'ultima perlustrazione tra le rovine dell'accampamento nemico: al fin della licenza Donadoni crossa e Gullit incorna imparabilmente alle spalle di un Buyo sconfortato, incapace anche di tuffarsi.

Il Milan come concezione wagneriana del gioco del calcio, in cui ogni interprete suona uno spartito regale, dal “portatore d'acqua” Colombo che azzanna alla giugulare i Michel e gli Schuster di turno al ventenne Maldini dominatore della fascia sinistra come non si vedeva fare a un italiano dai tempi di Facchetti. Aveva ragione Sacchi quando, rispondendo nel tunnel alla domanda di Berlusconi sul motivo delle grida di battaglia provenienti dallo spogliatoio del Real Madrid, aveva risposto: «Presidente, urlano di paura».

La paura mangia l'anima e difatti il Real Madrid si costituisce definitivamente nella ripresa, affrontata dal Milan con il medesimo spirito. Il quarto gol andrebbe assegnato a tutti e tre gli olandesi: Rijkaard alza la testa e crossa sulla testa di Gullit che fa sponda per Van Basten, che tocca due volte di destro prima di fulminare Buyo con un sinistro all'incrocio. Perde ogni contegno anche Bruno Pizzul, che rapito informa gli spettatori di questa “gragnuola di reti”. Manca solo una firma, la più delicata e cristallina, quella di Roberto Donadoni che qualche mese prima aveva rischiato di rimanerci sul prato del Marakanà di Belgrado, in una delle avventure più balorde ed esaltanti del Milan di Berlusconi. Arriva il suo marchio di fabbrica, il rasoterra maligno che infilza Buyo sul primo palo, e la cronaca può finalmente diventare storia – cinque a zero, tuttora la peggior sconfitta europea mai patita dal Real Madrid insieme a un Kaiserslautern-Real Madrid 5-0 in Coppa UEFA nel 1982.

Per la prima volta in quasi trent'anni il calcio italiano qualifica tre squadre alle tre finali delle tre coppe continentali nello stesso giorno: in questo modo e con queste dinamiche succederà solo un'altra volta, quasi un anno dopo, il 18 aprile 1990.

Sulla Stampa Gian Paolo Ormezzano riassume bene lo spirito e l'atmosfera di quei mercoledì di coppa che «se ne andranno come spray»: pieni di luce e di magie, di sfarfallii e ritardi audio per colpa del satellite, trascorsi in tentativi primitivi di zapping da un canale all'altro, da una partita all'altra: «Guardiamo fuori, non abbiamo calato le persiane ma è come se i vetri fossero tutti smerigliati. Al massimo si vede il lucore sacro, in altre case, di altri televisori». La sera del 19 aprile 1989 abbiamo il dovere di essere felici.

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