Grazie ad una striscia di nove vittorie in fila, anche in questa stagione i San Antonio Spurs viaggiano spediti verso la post-season, ma per conquistarsi un posto tra le migliori otto della Western Conference per la ventiduesima stagione consecutiva hanno dovuto faticare molto più che in passato. La dolorosa separazione da Kawhi Leonard, colui che doveva rappresentare l’anello di congiunzione tra passato e futuro della franchigia, non solo ha indebolito la squadra sotto il profilo tecnico, ma ha tolto anche certezze sulla costruzione del roster. Soprattutto dopo che, ancora in pre-season, Dejounte Murray, la pietra angolare su cui si pensava di ricostruire, ha subito un terribile infortunio rompendosi il crociato anteriore del ginocchio destro. Per di più, gli addii di Manu Ginobili e Tony Parker hanno privato la squadra di quella coperta di Linus tecnica ed emotiva che da anni riusciva a coprire tante mancanze.
La rivoluzione estiva ha lasciato scorie che hanno richiesto tempo per essere superate e tuttora, a regular season ormai quasi completata, alcuni dei dubbi continuano a rimanere irrisolti. La mancanza di un’identità chiara, soprattutto nella metà campo difensiva, ha impedito agli Spurs di trovare stabilità, con il nuovo arrivato DeMar DeRozan – sul quale i texani hanno puntato forte per mantenere aperta il più possibile la loro finestra di competitività – che ha avuto bisogno di tempo per adattarsi alla nuova realtà. «È stato molto paziente – dice lo stesso DeRozan a proposito di Popovich – ci sono tante cose nuove che devo ancora imparare, ci vuole tempo». Dopo la pausa per l’All-Star Weekend gli Spurs sembrano aver intrapreso la strada giusta, ma nonostante la qualificazione quasi certa ai playoff molti dei dubbi continuano a non essere stati dissipati.
I problemi difensivi
Le partenze di Leonard e del sempre troppo sottovalutato Danny Green, oltre all’infortunio di Murray, hanno costretto Popovich a rivedere l’assetto difensivo della squadra, con risultati piuttosto modesti visto il talento a disposizione. L’avvio di stagione è stato tremendo, con gli Spurs che dopo venticinque partite erano addirittura ventinovesimi per efficienza difensiva con 113.4 punti concessi su cento possessi, migliori solo dei derelitti Cleveland Cavaliers.
Bastano due dribble passaggi consegnati e un pick and roll centrale per far perdere rotazioni e marcature ai texani, permettendo a Mikal Bridges di trovare una linea di penetrazione troppo facile.
Lo scopo primario della difesa dei texani è quello di concedere il minor numero possibile di tiri al ferro (come dimostrano i soli 26.4 tentativi subiti a sera, secondi solo ai Milwaukee Bucks), spingendo gli attacchi avversari a prendersi tiri meno remunerativi e più facili da contestare nel resto dell’area. La mancanza di atletismo e di versatilità, soprattutto nel reparto degli esterni, però, ha impedito spesso agli Spurs di essere efficaci, con lo stesso DeRozan apparso in evidente difficoltà contro il livello più elevato degli attacchi dell’Ovest. Per mascherare molti dei problemi, Popovich è ricorso spesso all’utilizzo di una zona 2-3, cercando di portare maggiore pressione sul perimetro e di spingere gli avversari verso il centro del campo.
Due azioni a pochi minuti di distanza l’una dell’altra. Nella prima, un’imperdonabile mancanza di attenzione porta a una tripla troppo facile anche per un tiratore sotto media come Dennis Smith Jr.. Nella seconda, invece, Belinelli e Bertans non comunicano tra loro, aprendo una voragine sul lato debole e permettendo ai Knicks di prendersi una tripla aperta e in ritmo con un semplice ribaltamento di campo.
Nonostante restino ventesimi per efficienza difensiva, gli Spurs hanno saputo migliorare i propri numeri nel corso della stagione, tanto che dopo la pausa per l’All-Star Game i texani sono addirittura ottavi con 106.6 di Defensive Rating. I migliori equilibri, seppur sottilissimi, sono da attribuire alla consapevolezza tattica di due giocatori chiave. Il primo è Rudy Gay, che ristabilito dopo una stagione spesa più in infermeria che sul parquet, è cresciuto fino a divenire un giocatore imprescindibile. E’ l’unico esterno a roster in grado di giocare entrambi gli slot di forward, permettendo a LaMarcus Aldridge di poter stare nei pressi del ferro, dove resta un protettore del ferro di buon livello.
L’altro è Derrick White, che una volta smaltiti i problemi fisici di inizio stagione, si è conquistato i gradi di point guard titolare dimostrandosi un difensore estremamente competente. È in grado di reggere bene contro diverse tipologie di attaccanti, sfruttando una buona mobilità laterale e un’intelligenza sopraffina che gli permette di capire e anticipare gli spostamenti. Sposta i piedi perfettamente, come se copiasse i movimenti dell’attaccante che ha di fronte e nonostante misuri abbondantemente sotto i 2 metri, ha tempismo e braccia lunghe che gli permettono di tenere bene gli scivolamenti e chiudere al ferro, dove vanta la miglior percentuale di stoppate in stagione di ogni giocatore della lega sotto i due metri. Nell’ultimo periodo Popovich gli ha affidato spesso il miglior attaccante avversario, con il giovane da Colorado che ha fornito prestazioni di assoluto livello, come rifilando sei stoppate (record di franchigia su Duncan e Robinson) nella recente vittoria contro Atlanta.
Un assaggio delle potenzialità di Derrick White su entrambe le metà campo: la sicurezza con cui gioca è degna di un veterano, mentre la lucidità con cui riesce a leggere quello che succede attorno a lui gli permette di prendere sempre la scelta giusta.
Nelle partite in cui ha giocato almeno 20 minuti, gli Spurs vantano un record di 31-13 (che proiettato su un’intera stagione diventerebbe 57-25) e sembrano avere maggiori certezze in entrambe le metà campo. Difficilmente sbaglia una scelta, gioca con semplicità e sa già fare quasi tutto su un campo da basket a un buon livello. Dopo aver passato quasi tutta la stagione da rookie ad apprendere la “Spurs Way” con la squadra di G League, White adesso è un elemento cardine dello scacchiere tattico di Popovich in entrambe le metà campo, anche in quella offensiva, dove invece gli Spurs sono una sicurezza da inizio stagione.
Forza offensiva
Con 112 punti segnati su cento possessi, San Antonio vanta il sesto miglior attacco della lega ed è grazie a questo fattore se è riuscita a tenere in piedi la stagione nei momenti più bui. I dubbi di inizio anno sulla convivenza tra Aldridge, DeRozan e Gay – tre giocatori che fanno del gioco interno e dalla media distanza i loro punti di forza – sono stati spazzati via da una squadra che gioca una pallacanestro da architettura funzionalista sovietica.
Più che il bello o lo spettacolare, gli Spurs ricercano l’essenziale, sfruttando tutte le loro armi nel modo più semplice possibile. Il fatto di tirare dalla lunga distanza col 39.9% ha risolto molti dei problemi delle spaziature. Nonostante siano ultimi per tentativi da tre a partita, i texani sono primi per efficienza, tenendo in scacco le difese avversarie con una batteria di tiratori (Bertans, Forbes, Belinelli, Mills, lo stesso Gay, che in questa stagione sta tirando con oltre il 42%) pronti a punirti se lasci loro troppo spazio.
L’importanza di Mills nello spingere la transizione quando serve, trovando bene Belinelli nell’angolo. L’australiano in questa stagione sta tirando con cifre sublimi da tre punti, soprattutto in catch-and-shoot, dove come dimostra la seconda azione non ha bisogno neanche di separazione dal difensore per sparare immediatamente.
Per quanto Popovich vada dicendo da anni che il tiro da tre punti abbia rovinato la bellezza del gioco, è troppo furbo per non capirne i vantaggi che regala a un attacco nella NBA contemporanea. E gli Spurs alla perfezione nella costruzione dei loro pattern offensivi, producendo ben 1.15 punti per possesso in situazioni di spot-up.
LaMarcus Aldridge resta il centro gravitazionale dell’attacco dei texani, che si affidano spesso alle sue ricezioni in post per iniziare i loro set offensivi. Anche in questa stagione restano la squadra che sviluppa maggiormente il proprio attacco da situazioni di post-up, ma la filosofia di base è cambiata per sposarsi meglio con i giocatori a roster. L’arrivo di DeRozan ha permesso di colmare una delle più grosse lacune della passata stagione, dove gli Spurs a causa dei pochi creatori di gioco dal palleggio (complice l’assenza di Leonard) risultavano spesso sterili.
L’ex Raptors non solo è uno scorer di assoluto livello - per la sesta stagione consecutiva sopra i 20 punti di media - ma, ancora più importante, è in grado di creare per sé e per i compagni quasi dal nulla. Inoltre le sue letture sono andate migliorando anche in questa stagione, come dimostrano i 21.8 assist su cento possessi (massimo in carriera). Per quanto Popovich abbia provato a inserirlo in un attacco strutturato come quello che da anni giocano gli Spurs, ha capito ben presto che un modo ancora più efficace di sfruttare le sue qualità era quello cercare di costruirgli attorno un habitat offensivo molto simile a quello in cui si muoveva a Toronto. Nel corso della stagione infatti, i texani hanno ridotto drasticamente il numero di passaggi a partita – passando dalla top-10 della prima settimana al 27° posto attuale – snaturando la loro filosofia di base e andando a costruire situazioni di isolamento dove DeRozan può esprimersi al meglio, visto che ancora oggi rimane uno dei migliori interpreti delle lega.
Le ricezioni in post non sono più un’esclusiva di Aldridge in questa stagione, con DeRozan che viene isolato in post per permettergli di creare in uno-contro-uno. Un’azione che spiega meglio di molte parole la filosofia offensiva di San Antonio in questa stagione.
Potendo contare anche sulle qualità di White, di Aldridge e del più pimpante Gay, gli Spurs realizzano ben 0.96 punti per possesso su isolamento (solo Bucks, Warriors e Rockets fanno meglio), potendo controllare al meglio il pallone (30esimi per turnover) e sviluppare con calma le loro trame offensive.
DeRozan viene lasciato libero di creare in isolamento, con tutti i compagni che dopo la rimessa si rispaziano per aprirgli l’area. O, come nella seconda azione, basta un cambio difensivo per scegliersi un accoppiamento più agevole e batterlo con il tiro dalla media distanza, la sua soluzione più congeniale.
Il grosso dell’attacco arriva comunque dal mid-range, dove i texani tentano oltre 25 tiri a partita (ben sei in più rispetto ai Warriors secondi) convertendoli con un buon 43%. Non è una novità per San Antonio l’andare controcorrente rispetto al resto della lega: nella stagione 2000/01 i texani tiravano con oltre il 40% da tre punti, così come la fluidità e il movimento di uomini e pallone della stagione 2013/14 (altro titolo, contro gli Heat di LeBron James) sono ancora negli occhi di tutti. Adesso, in un’epoca in cui le difese sono ben contente di concedere questo tipo di soluzioni, Popovich e il suo staff hanno saputo lavorare bene per renderle efficaci il più possibile.
L’importanza della second unit
Un altro aspetto fondamentale della stagione degli Spurs è la forza della panchina. Seppur priva di grandi nomi, la second unit dei nero-argento è essenziale per variare il ritmo della gara, aumentando i giri di un motore che con lo starting-five resta sempre sotto i 100 possessi a partita. Capitanata da Marco Belinelli e Patty Mills, la panchina porta tutta un’altra energia, fornendo agli avversari soluzioni drasticamente diverse da fronteggiare: il ritmo sale, la circolazione della palla si fa più veloce e spesso gli Spurs riescono a costruire parziali importanti che poi vengono mantenuti dai bassi ritmi del quintetto base.
Mills, oltre a rappresentare perfettamente il senso di culture all’interno dello spogliatoio, è sempre un giocatore prezioso in uscita dalla panchina, portando playmaking secondario, aggressività e dedizione difensiva e tirando benissimo da tre, soprattutto in catch-and-shoot (98° percentile in situazioni di spot-up). Belinelli ha trovato la sua dimensione di facilitatore offensivo, mentre Jacob Poeltl ha saputo crescere tanto da garantirsi i grado di titolare nell’ultimo periodo grazie al suo lavoro sporco e spesso invisibile nella metà campo difensiva.
Già negli anni ai Raptors, Poeltl si era messo in mostra come un buon protettore del ferro. Una qualità che si vede bene nella capacità di aspettare i giocatori nei pressi del canestro, come nella stoppata a Russell Westbrook dove sfrutta tutta la sua verticalità; sia come nella seconda azione, dove prende bene il tempo alla penetrazione di Jeremy Lin inchiodandolo al tabellone con gran tempismo.
Chi sta trovando una dimensione sempre più importante è Davis Bertans. Dopo la conferma estiva, l’ala lettone ha saputo guadagnarsi un minutaggio sempre più importante grazie a una precisione chirurgica dal perimetro (dove è uno dei migliori della lega con il 45.6%) e alla versatilità difensiva. Popovich lo ha provato con buoni risultati anche nel “blocco dei titolari”, tanto che nei 105 minuti giocati assieme a Forbes, White, DeRozan e Aldridge il Net Rating dice +25.6. Ma la sua presenza nella second unit è fondamentale per San Antonio per variare le proprie lineup, tanto che con lui, Mills e Belinelli in campo i texani sfondano il tetto dei 118 punti segnati su cento possessi, sovrastando gli avversari di oltre 13 punti.
Due azioni che dimostrano sia l’importanza di Bertans sia il cambio di ritmo operato dalla second unit, con Mills a spingere sempre sull'acceleratore e il lettone a punire sugli scarichi con precisione.
Il suo utilizzo potrebbe crescere ulteriormente in vista dei playoff (è ottavo in questo momento per minutaggio), quando presumibilmente gli Spurs avranno bisogno di abbassare i propri quintetti senza perdere di fisicità per cambiare sui blocchi senza concedere vantaggi.
Roller coaster
Nonostante un attacco sopra le righe, gli Spurs hanno dovuto faticare per trovare la propria dimensione. «Dobbiamo ancora conoscerci bene – aveva detto un mese Gay a ESPN – siamo un gruppo molto nuovo. Abbiamo bisogno di tempo». Abituati da anni a vincere grazie a un’esecuzione pulita e puntuale, i texani ci hanno messo un po’ prima di trovare tutti gli automatismi, offrendo prestazioni altalenanti anche a distanza di pochi giorni l’una dall’altra. La partenza a handicap (record 11-14) è stata rimontata nel corso della stagione ma tuttora gli Spurs restano una squadra dalle due facce.
C’è quella casalinga, dove con 28 vinte e 7 perse San Antonio vanta uno dei migliori record della NBA, con un attacco e una difesa di assoluto livello; e quella esterna, dove invece sono arrivate sconfitte pesanti e la squadra è sempre apparsa in difficoltà. Solo Cavs e T’Wolves possiedono un rating difensivo peggiore dei texani lontano dall’AT&T Center, dove la mancanza di esperienza ha pesato e non poco specialmente nel fatidico momento del Rodeo Trip, chiuso con sette sconfitte in otto partite di cui una inconcepibile al Madison Square Garden contro New York.
E se c’entrassero qualcosa i pipistrelli?
In casa invece la trasformazione è totale. La squadra diventa pragmatica, quasi cinica e veramente difficile da superare in difesa. Tranne un passaggio a vuoto con gli Indiana Pacers a inizio stagione, gli Spurs nella propria arena hanno battuto almeno una volta tutte le squadre che in questo momento parteciperebbero ai playoff, sia a Ovest che a Est (ad eccezione dei Miami Heat, con i quali però devono ancora giocare), sovrastando i propri avversari mediamente di oltre 7 punti a partita.
La pausa per l’All-Star ha permesso a Popovich e al suo staff di lavorare per risolvere alcuni dei problemi, con gli Spurs che come loro consuetudine non hanno operato alcun cambio alla trade deadline per non alterare gli equilibri del roster. I neroargento sanno che per mettere in difficoltà gli avversari anche ai playoff servirà mantenere un livello accettabile anche lontano da casa, soprattutto perché con molta probabilità il primo turno li vedrà privi del fattore campo. Lo scetticismo che ha circondato la squadra nel corso della stagione sembra essere stato spazzato via dalle recenti buone prestazioni, ma il futuro resta ancora piuttosto incerto.
Aldridge e Gay non hanno mai dato grosse certezze nella post-season, così come DeRozan, sulla cui tenuta ai playoff pesa una tremenda spada di Damocle forgiata in Canada. Il roster sembra essere piuttosto corto e alcuni giocatori (White e Gay su tutti) sarebbero difficili da sostituire qualora dovessero infortunarsi – cosa non impossibile vista la loro storia clinica in questa stagione. Gli Spurs non sembrano necessariamente attrezzati nel reparto esterni per competere ad alto livello, così come l’efficace e funzionale attacco visto nel corso della regular season potrebbe rischiare di venir smontato facilmente ai playoff quando i coaching staff hanno tempo e modo di concentrarsi sul modo migliore per metterti i bastoni tra le ruote. Non solo: per quanto Derrick White sia indiscutibilmente la miglior notizia della stagione, soprattutto in prospettiva futura, e per quanto un back-court composto da lui e Murray possa intrigare soprattutto per quanto riguarda la metà campo difensiva, il fit tra i due potrebbe essere più difficile di quanto si pensi, essendo molto più simili di quanto il loro gioco possa apparire.
Inoltre, Gregg Popovich – che lo scorso 28 gennaio ha compiuto 70 anni – non ha ancora dichiarato ufficialmente quando avrà intenzione di ritirarsi. E nonostante gli Spurs possano sempre contare su uno dei migliori coaching staff della NBA, dal suo futuro (e da quello del General Manager RC Buford) passerà molto anche del futuro della franchigia, che ormai da due anni sembra entrata in una sorta di limbo dal quale non si capisce bene come uscirà. Intanto, come dimostrato anche stanotte contro i Golden State Warriors che stanno accendendo il Diesel in vista dei playoff, nessuno può mettere Pop in un angolo. E non è sicuramente cosa da poco.