
Al Fortín de Villa Luro, lo stadio del Vélez, il 25 Novembre del 2023 c'è la stessa luce dei momenti campali. Quasi trent’anni prima il Vélez vinceva la sua prima Coppa Intercontinentale, oggi si gioca la permanenza nella prima divisione argentina. Come si è arrivati a questo?
È una stagione balorda, lo si è capito dall’inizio. Ricardo Gareca, ex gloria del club, dopo un quinquennio alla guida del Perù è tornato – a dieci anni di distanza – in panchina a gennaio. Durerà solo 12 partite. Al suo posto ha preso le redini del club Hernán Manrique, tecnico della Reserva, più o meno la squadra B, ma le cose precipitano ulteriormente. Il 19 maggio, alla vigilia della partita contro il Racing, il suo cuore si ferma. E la squadra, già brancolante nel buio, ha ovviamente somatizzato.
Nel picco della crisi, dopo 11 partite senza vincere, una donna di settant’anni è andata a cercare personalmente il presidente del club, Sergio Rapisarda, negli uffici della sua agenzia immobiliare: non l’ha trovato, e ha distrutto l’ufficio. La prima parte della stagione finisce, miseramente, con un piazzamento al quart’ultimo posto.
In Argentina le retrocessioni sono determinate dalla media dei punti accumulati in Superliga e nella fase a gruppi di Copa Argentina. L’impressione è che quel quartultimo posto, nel prosieguo della stagione del Vélez, peserà come un macigno.
I tifosi, inferociti, irrompono nel centro sportivo, minacciano i giocatori, arrivano ad alzare le mani. Distruggono vetture, qualcuno tira fuori una pistola. Gianluca Prestianni, una delle stelle più fulgide cresciute nel vivaio, chiede di essere ceduto – firmerà di lì a pochi giorni per il Benfica. Máximo Perrone, oggi al Como, aveva già lasciato il club a gennaio. L’atmosfera da fine impero fa sì che anche i giocatori più rappresentativi scelgano strade alternative, tipo Lucas "el Oso" Pratto, che si trasferisce al Defensa y Justicia. In questo contesto spettinato, nel buco lasciato vacante al centro dell’area proprio da Pratto, si incunea l’ultima delle giovani promesse, un centravanti compatto e tignoso, che è nato nel 2004 e si chiama Santiago Tomás Castro. Ha esordito in prima squadra a sedici anni, poche settimane più tardi ha già segnato il suo primo gol contro il Talleres de Córdoba: ha ricevuto palla al limite dell’area, se l’è aggiustata e senza paura di sbagliare, con un po’ di incoscienza, ha tirato.
In questo Vélez scalcagnato, "Toto" Castro cresce esponenzialmente. Segna già alla seconda giornata, contro l’Independiente, il gol del momentaneo pareggio. Nella partita successiva, contro il colosso del River Plate, si ripete con un gran tiro da fuori, a incrociare, si capisce che sia una delle sue caratteristiche, quella di provarci (e riuscirci, oh se ci riesce) spesso da fuori area, senza starsi a preoccupare troppo delle conseguenze. Galvanizzato, contro l’Arsenal de Sarandí, va a segno con una mezza rovesciata piuttosto clamorosa.
Qualcuno lo paragona al primo Lautaro Martínez, lui vola basso: di Lautaro non ha la stessa esplosività sulla fascia, la stessa eleganza nell’uno contro uno, la stessa tecnica. È più uno di quei centravanti che si spendono per la squadra, che proteggono il pallone per pulirlo e associarsi ai compagni, che fanno a sportellate per guadagnarsi il possesso. E che gravitano al centro dell’area, in attesa del pallone giusto, per colpire letale come uno shushupe, il serpente velenoso più diffuso in Argentina.
Il 25 novembre, nella sfida per non retrecedere con cui si è aperto questo racconto, al quarto d’ora c’è un calcio d’angolo per il Vélez. Viene battuto con la fretta di chi vuole cavalcare un buon momento per tornare a spalancare gli occhi e accorgersi che è stato solo un brutto incubo. La palla arriva a Jara, che la fionda al centro di un’area gremita di gente, nella speranza di una deviazione. Là, tra quella selva di gambe, acciambellato prima dell’attacco ferale, shushupe coi capelli in disordine, c’è esattamente Santiago Castro. La sua rete scioglierà la tensione, ne seguiranno altre due, e alla fine il Vélez sarà salvo.
Quella con il Colón è la sesta rete in campionato per Castro: il più giovane capocannoniere del Vélez in un torneo, a soli 19 anni, 2 mesi e 7 giorni; più giovane anche di Thiago Almada, un altro che ha lasciato il Vélez forse troppo presto e che è finito per vincere la Coppa del Mondo in Qatar. Quando a febbraio tornerà a farsi vedere al Fortín de Villa Luro, nonostante tutti i pregressi, Castro scenderà dalla macchina per firmare autografi ai tifosi. Nel frattempo, Castro è diventato già qualcosa d’altro, rispetto al Vélez, perché lo ha ingaggiato il Bologna, al momento quinto in Serie A, autore di un campionato oltre le aspettative, entusiasmante. Per i suoi servizi ha sborsato 12 milioni di euro: un investimento importante per dare a Joshua Zirkzee un sostituto capace di interpretare, in qualche modo, il suo gioco.
La firma per il Bologna è arrivata in medias res rispetto al preolimpico, che l’Argentina sta disputando in Venezuela. Castro è uno dei punti di forza dell’Under 23 guidata da Javier Mascherano, al quale non sfugge quanto il giovane centravanti possa essere ambito (a novembre sono arrivati interessamenti anche dal Brentford, in Premier League), e che non può essere felice. Sa che questo cambio epocale che si sta spalancando di fronte a "Toto" può portare distrazione, specie nel bel mezzo del torneo. «Mi preoccupano sempre situazioni del genere», dice «perché diamo troppo spesso per scontato che i giocatori sappiano gestire la situazione, e a volte invece non è così». Castro, che ha segnato all’esordio (un gol comunque che non ha salvato l’Argentina dalla sconfitta con il Paraguay), nel dubbio verrà tenuto in panchina per le ultime due partite.
Per Santiago, in ogni caso, è un momento d’oro: quello che suo padre, forse, avrebbe sognato per lui, e che ora si gode attraverso il figlio. «Mi dà consigli sulla vita, su come si fa ad essere una buona persona, prima che un giocatore di calcio». Dario Castro, che ora fa l’impiegato in tribunale, ha avuto una carriera minore, ma non per questo meno splendente. È stato bandiera del Comunicaciones, club piuttosto antico, nato come costola sportiva dopolavoristica delle Poste (non a caso le sue maglie sono gialle e nere, come le divise dei postini negli anni Trenta). È la squadra per la quale fa il tifo lo scrittore Osvaldo Bayer, e nelle cui giovanili è cresciuto anche Santiago – prima di giocare per qualche tempo a futsal nel vivaio di una delle squadre più importanti d'Argentina, il 17 de Agosto – giusto qualche anno dopo una storica qualificazione alla B Metropolitana (la terza serie argentina) guidata proprio da Dario Castro.
Argentini che lasciano la Primera, i club di appartenenza, ancora acerbi, nel fiore dell’età in cui dovrebbe compiersi la loro gestazione calcistica, ce ne sono stati a centinaia: non tutti riescono poi ad affermarsi, a comprendere il calcio in cui si trovano immersi, ad adattarsi ai ritmi. Non tutti, poi, soprattutto quando sono ammantati da un discreto hype, riescono ad avere pazienza. Serve consapevolezza nei propri mezzi, certo, ma anche dei propri limiti. Serve di sapere a menadito cosa già sai fare, e cosa puoi imparare. Alle spalle di Zirkzee, nelle sessioni di allenamento con Thiago Motta, forse Castro non diventa un giocatore migliore, ma diventa un giocatore perfetto per il tipo di gioco che fa il Bologna. Sa che prima o poi arriverà la sua opportunità: si guadagna scampoli di minuti fin quando Thiago Motta, nell’ultima partita casalinga della stagione, con la qualificazione in Champions League matematicamente ottenuta, lo schiera da titolare nella partita contro la Juventus. Castro segna il gol del due a zero momentaneo, con un colpo di testa in mezza mischia (altra sua specialità), dopo il quale resta in ginocchio, quasi incredulo.
Oltre a "Toto" lo chiamano "King Kong", per le movenze potenti e un po’ goffe. Ma anche: locomotora. Perché quando parte palla al piede, o quando riceve la sfera con le spalle alla porta, sembra sempre pronto a partire con l’esplosività travolgente di una locomotiva. Sferragliante, se del caso. Di quei treni che attraversano la pampa con i loro tempi, più che di un treno proiettile.
Quest'estate, con il Bologna, gioca sei amichevoli, segna sei gol. Contro l’Asteras Tripolis raccoglie un cross di Orsolini, lo ammaestra, si gira su se stesso e conclude in rete con un rasoterra a incrociare. Contro il Mallorca insacca anticipando il suo marcatore. Sfoggia una capigliatura vistosa, sembra quasi Mateo Retegui – di Retegui ha la stessa letalità sotto porta, la stessa incapacità di incarnare un cliché, quello della nostra idea di nove, argentino per di più.
Sarebbe in forma strepitosa per andarsi a giocare le sue carte alle Olimpiadi, ma qua arriva il colpo di scena – in realtà meno sorprendente di quanto si possa pensare: d’accordo con il Bologna, Castro decide di declinare la convocazione – a conti fatti la mossa più saggia che potesse fare, dato che la spedizione dell’Albiceleste olimpica sarà un mezzo disastro. Nel frattempo arriva anche Dallinga, che l’anno precedente ha fatto le fiamme con il Nizza, ma non è ancora pronto. Italiano sembra voler scommettere su Castro.
Quanto può essere suicida, in potenza, la scelta di scommettere su un ragazzo che di fatto annovera tra i professionisti la miseria di otto gol (più altri 8 nelle varie Nazionali giovanili)? Castro non è apparisciente, non è classy, non ha le giocate del fenomeno. A più di qualcuno sembra, semplicemente, non all’altezza della situazione. Ma Castro, dalla sua, oltre all’umiltà di attendere il proprio momento, ha un’aura proletaria che sembra perfetta per il Bologna di Italiano. Cuce, raccoglie, smista il gioco. Allarga le braccia e difende il pallone. Ci mette sempre, come piace fare a tanti argentini, los huevos. Sarebbe perfetto per le nostre serie minori, l’archetipo per eccellenza dell’argentino che calca i campi di provincia, e invece è lì, al Bologna, probabilmente per scaldare il posto a qualcuno più forte di lui, ma cosa importa? Non era questo, alla fine, il destino che avevano predetto un po’ tutti anche al "ropero" Santander?
E poi, come capita anche con le certezze più solide del mondo: finisce che non sono più, poi, così solide. Dallinga ci mette più del previsto a carburare, mentre il "Toto" Castro, beh, il "Toto" Castro prende le misure e comincia a diventare incandescente. A Como, il Bologna passa subito in svantaggio; poi il Como raddoppia, sembra in possesso della gara, ma se c’è qualcuno che proprio non vuole saperne di mollare, qualcuno che ci mette e trasmette garra, quello è Santiago Castro. Che prima segna un gol di quelli per i quali hanno iniziato ad amarlo al Vélez, tutto corazón y huevos, pronto a riprendere una palla vagante in area dopo un tentativo dalla distanza di Odgaard respinto dalla difesa, e poi compie il gesto – nell’arco della partita – forse più rappresentativo di cosa sia, davvero, Santiago Castro. E cioè uno che ti aspetti faccia molte cose, là davanti, e che invece non le fa sempre, o non le fa bene. Ma che poi difende il pallone con il coltello tra i denti, si fa rifugio, prima di saltare un avversario nel senso opposto alla porta, sì, ma solo per imbeccare in area il compagno – in questo caso Illing Junior – che piazza nella porta avversaria, proprio al novantesimo, il gol di un pareggio insperato.
Negli ultimi giorni Castro è tornato a rimbalzare sulle pagine social dei suoi vecchi tifosi del Vélez, e un po’ anche sulle nostre, per il gol francamente meraviglioso che ha segnato contro il Monza, il gol che è valso il successo al Bologna. Questo gol qua.
L’account YouTube della Serie A ci ha piazzato sotto un po’ di cumbia, che ci sta sempre bene. Qualcuno ha paragonato questo gol a quello che nella stagione 2021/2022 Lautaro ha segnato ad Anfield Road, e che per l’Inter è stato il gol della stagione. Ma mentre Lautaro, in quell’occasione, aveva assecondato la traiettoria dell’assist piegando la sua traiettoria di corsa affinché arrivasse all’appuntamento col pallone come in una precisa consequenzialità fluida, Castro riceve il pallone con le spalle alla porta, si gira tempestivo e con un tocco di sinistro, e poi destro, ancora destro, toc, tac, tac, si apparecchia la conclusione. Il che equivale a dire che in qualche modo, mentre il tiro di Lautaro è un perfetto coronamento, quella di Castro è una vera e propria invenzione dal nulla. Quel tipo di gol che fa chi ha un’altissima considerazione di sé, o solo una grande incoscienza. Una bomba da fuori con gli occhi chiusi, più per fiducia in quello che succederà che per paura di vedersi sbagliare. Un gol immaginifico.
D'altra parte, se c’è qualcosa che salva – che ha sempre salvato e per sempre salverà – il calcio argentino, quel qualcosa è l’immaginazione. Un valore al quale, a differenza di noialtri cinici quarantenni, può votarsi con tutto se stesso un ventenne come Santiago Castro, la locomotora. Soprattutto quando i binari non oppongono resistenza e il paesaggio tutt’intorno sembra sorriderti.