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Immaginate una città abbandonata in tutta fretta dai suoi abitanti negli anni Settanta, e dove tutto o quasi pare rimasto intoccato da decenni, con palazzi e marciapiedi sgretolati, vecchie insegne cadenti, negozi sbarrati e portoni arrugginiti.
Immaginatela ripopolata con la medesima fretta da 400mila persone la mattina stessa in cui ci mettete piede. Quella città è Santos, set perfetto per un film distopico, un caos dove l’unica testimonianza del presente siete voi e poco altro. Un luogo rivolto al passato e dove il passato si prende completamente la scena. D’altronde a Santos, se si esclude il porto - il più grande dell’America Latina - che conduce una vita a sé, a portata di passeggiata malinconica su un lungomare triste e incredibilmente senza mare (la vista è completamente ostruita da edifici, gru e magazzini), le cose che contano davvero sono due: Pelé e la Borsa del Caffè. E nessuna delle due c’è più.
Il primo, che nemmeno era di Santos, dopo vent'anni con la maglia bianconera della squadra locale e dopo aver vinto tutto, lasciò la città nel 1975; la seconda, nata a inizio Novecento per regolare il commercio del bene più prezioso movimentato dal suo porto, fu abbandonata poco dopo l’addio del numero 10. Dal 1998 il bellissimo palazzo in stile eclettico che ospitava la Borsa ha riaperto: dentro, nemmeno a dirlo, c’è il museo del caffè con annesso un bar, splendido e dal profumo inconfondibile e avvolgente, che è l’ennesimo tuffo in un passato che la città si ostina a non abbandonare.
Altro luogo della memoria è il Café Carioca (“dal 1939” c’è scritto orgogliosamente sull’insegna e anche sui boccali di birra con l’immancabile tazza di caffè disegnata sopra), che dà su una piazza (Praça Mauá) talmente stanca, appesantita e male in arnese che ti viene voglia di abbracciarla, se solo si potesse abbracciare, una piazza. Il pranzo al Café Carioca, con camerieri in divisa, tavoli spartani, un vecchio orologio a pendolo e il menù scritto con lettere adagiate su magneti - come in Europa ormai si vede solo nei bar di paese - è stato entusiasmante. Guardavo i tavoli degli altri, perlopiù lavoratori che sembravano conoscere i camerieri da sempre, indicavo un piatto e mi arrivava sotto il naso una delizia che sembrava uscita dalla cucina della nonna più nonna di Santos. Non me ne volevo più andare.
Una volta fuori da lì ho vagato per un po’ in questo mondo in bianco e nero che contrasta del tutto con l’immagine colorata che abbiamo del Brasile. L’aria dimessa, la sensazione di vagare immersi dentro una di quelle vecchie cartoline virate seppia che trovi sulle bancarelle dei mercatini è però impagabile. Era novembre, e dentro un centro commerciale alla buona c’era un Babbo Natale che credeva poco in quel che faceva con in braccio un bambino che, se possibile, ci credeva ancora meno di lui. A vederli mi veniva da pensare che l’intera città abbia barattato ogni altra illusione possibile con quella di essere ancora la città del caffè e di Pelé. Anche per lui c’è ovviamente un museo, che da fuori non ha nulla di sfarzoso. Davanti all’ingresso c’è la fermata di un vecchio tram che fa un percorso talmente corto che ti chiedi se non abbia senso aggiungere un po’ di binari. Eppure vale la pena salirci, accolti da un vecchio, simpatico bigliettaio che sembra essere lì da ben prima di Pelé, del caffè e del porto.
All’interno, il museo Pelé è pieno di ricordi, foto, cimeli e piccole, grandi chicche, come l’ingombrante televisore gialloverde che la federazione regalò ai vincitori della Coppa del Mondo del 1970, la terza conquistata da Pelé (unico a esserci riuscito). Qua e là spuntano vecchie frasi sul campione: “Se Pelé non fosse nato uomo, sarebbe nato pallone”, “Pelé è la prova che contraddice la mia tesi. Al posto di 15 minuti di popolarità, avrà 15 secoli” (firmato Andy Warhol) oppure “Il Brasile è famoso per il calcio e Pelé è più famoso del Brasile”. La più romantica la vedi all’uscita, accompagnata da una foto del campione con addosso la maglia del Santos e una specie di fascia da miss lungo il petto: “Oggi non lavoriamo perché andiamo a vedere Pelé”. In strada, poche vie più in là, c’è un murale di Pelé, di spalle, con la maglia numero 10 del Cosmos, che abbraccia e bacia sulla guancia la Gioconda. Sacrilegio? Poco più in là, in un bar senza pretese, ne è stato compiuto uno ben più grande per gli adepti del dio Pallone: un grande disegno di Diego Armando Maradona (argentino, per chi non lo sapesse) con un pallone sulla testa e addosso una maglia del Brasile. Chissà come gli è venuto in mente a chi l’ha fatto.
La sera, per onorare Pelé, sono andato a vedere la partita Santos-Coritiba. Nel settore ospiti perché lo stadio, storico, splendido a suo modo e relativamente piccolo, era stracolmo.
Fino al 12’ minuto di gioco eravamo sì e no in 50 in tutto il settore. Tutti tranquilli: qualche maglia del Coritiba, un nonno con il nipotino e pure qualche tifoso del Santos rimasto senza biglietto.
Poi è arrivata una specie di orda capitanata da uno che sembra fatto apposta per essere scelto come capo di un’orda durante un casting: grosso, sovrappeso - ma quel sovrappeso massiccio alla Bud Spencer, di uno che potrebbe sbriciolarti con una pacca - barba rossa, rossa color vichingo, lo stemma del Coritiba tatuato (male) sul cranio, una Madonna tatuata su un lato del collo e dall’altro un serpente o una corda, o un serpente avvolto attorno a una corda, o viceversa, non ho capito.
È la torcida del Coritiba: si chiamano Imperio Alviverde e mercanteggiano rumorosamente sulle scale con la polizia per venti minuti, poi occupano gli spalti con una specie dì accerchiamento rapido, in modo che agli altri non resta che scansarsi di lato oppure andare in alto, accanto ai poliziotti.
Dopo un po’ mostrano maglie con simboli equivoci, diciamo vagamente minacciosi. Quando espellono un giocatore del Coritiba e l’atmosfera si scalda temo di diventare un obiettivo, una valvola di sfogo, un punching ball pronto all’uso. Tra l’altro uno di loro viene dritto a parlarmi e io non so il portoghese, mentre lui non sa che il portoghese. Il momento di impasse si risolve grazie a Hector e Manoel, due tifosi del Botafogo in incognito (e militari della Marina in libera uscita) che fanno da traduttori. E così, invece di uccidermi, alla fine quelli di Imperio Alviverde sono diventati miei amici, soprattutto il buon vecchio Pedro, quello che mostrava con orgoglio misto a uno sguardo di sfida una delle maglie più truculente. Vedi a volte le apparenze. E comunque, nel dubbio, ho usato il trucco di aver fatto vivere e lavorare mio nonno quasi ovunque nel mondo per giustificare la mia presenza come tifoso di squadre improbabili. Il mio povero nonno, che ha vissuto e lavorato davvero a Montevideo, l’ho fatto trasferire per un po’ anche a Rosario, Città del Messico, Buenos Aires, Quito, Bogotà, Monterrey… e Coritiba. Ovunque, nel mondo, potesse proteggere la mia incolumità.
A fine partita, sano e salvo, bevo una birra in un bar che organizza un barbecue improvvisato sul marciapiede a prezzi più che popolari. Poi torno nel mio hotel vista mare dove il mare, finalmente, lo puoi vedere. È sempre Santos, eppure la zona della spiaggia è lontanissima dal centro. A piedi ci puoi arrivare risalendo i canali che la città costruì a cavallo tra Ottocento e Novecento per evitare l’ennesima epidemia dovuta alle cattive condizioni igieniche. Loro ne vanno orgogliosissimi, ma non è proprio Venezia, né Strasburgo. Sembra più un lavoro iniziato e mai finito.
La Santos marittima ha un’aria decadente come tutto il resto, specialmente sotto la pioggia. Durante la bella stagione, che è lunghissima, le spiagge vengono prese d’assalto dalla gente della vicina San Paolo, mentre la mattina in cui sono arrivato io c’erano solo quattro ragazzi che giocavano a beach ball sotto l’acqua. E tutt’intorno niente, nemmeno uno a spasso col cane. Mi sono perfino illuso, per un attimo, che i quattro ragazzi giocassero con un Super Santos, il pallone arancione a righe nere della nostra infanzia balneare. Sarebbe stato tutto troppo allineato e la realtà, si sa, lo è raramente.