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Storia tattica della Lazio di Sarri
14 mar 2024
Cosa non ha funzionato al terzo anno di Sarri alla Lazio.
(articolo)
17 min
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IMAGO / Gribaudi/ImagePhoto
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Dopo la sconfitta di lunedì sera contro l’Udinese, la quarta consecutiva tra campionato e Champions League, Maurizio Sarri ha rassegnato le dimissioni da allenatore della Lazio. Con una coerenza da hombre vertical, propria di chi ha rischiato tutto nella vita per provare a fare del calcio una professione, il tecnico toscano si è fatto da parte nel momento in cui ha capito di non avere più margine di manovra con la squadra.

Alfredo Pedullà, probabilmente il giornalista più affidabile per quanto riguarda le sue vicende, ha pubblicato quello che sarebbe stato il discorso di commiato di Sarri alla squadra: «Ho visto che non mi seguite più, qualcuno è troppo diverso dalla scorsa stagione, ho deciso di dimettermi. Se il problema sono io, mi metto da parte così date una scossa alla stagione».

È sempre delicato analizzare gli equilibri di uno spogliatoio. Dall’esterno è impossibile capire le dinamiche che hanno portato a una decisione tanto drastica. Ci si può limitare, allora, a osservare il dato empirico del campo, che quest’anno parla di una Lazio nona in campionato e senza obiettivi tranne la Coppa Italia (detto che l’eliminazione contro un avversario del calibro del Bayern era piuttosto preventivabile).

Cosa non ha funzionato nel rapporto tra Sarri e i biancocelesti? Perché non è riuscito a sviluppare l’eccellente lavoro dello scorso anno? Le motivazioni sembrano molteplici, tra incomprensioni di mercato, problemi tattici e la natura di una rosa che forse lo ha costretto a troppi compromessi.

I problemi del primo anno

Che la Lazio ereditata dal ciclo precedente non disponesse della rosa ideale per Sarri, era chiaro a tutti. La squadra di Simone Inzaghi si disponeva con un 3-5-2 che esaltava la verticalità di Immobile e in cui Luis Alberto aveva totale libertà di scelte e movimenti. In fase difensiva, poi, il 5-3-2 permetteva di fare densità al centro e, contestualmente, controllare le fasce, senza cercare quasi mai il pressing alto.

Nonostante le differenze con il suo predecessore, Sarri nei primi mesi a Formello ha provato a impiantare quelli che venivano riconosciuti come i cardini del suo calcio, cioè il controllo della partita attraverso il pallone e il pressing aggressivo.

Già alla terza giornata di campionato, a San Siro contro il Milan, è parso però evidente come quelle idee fossero lontane dalla natura dei giocatori. In particolare, la Lazio non aveva mai trovato il modo di pressare i giocatori del Milan, che con le loro conduzioni avevano fatto a fette le linee avversarie. I rossoneri, poi, avevano stritolato col pressing i tentativi di uscita dal basso della squadra di Sarri. Se le difficoltà in costruzione erano prevedibili, visto il poco tempo trascorso dall’arrivo del nuovo tecnico, due giornate più tardi la sconfitta per 3-0 in casa del Bologna avrebbe messo in mostra tutti i problemi della Lazio ad attaccare blocchi bassi. Mihajlović aveva varato un inedito 5-3-2 a presidio della propria trequarti. La Lazio aveva potuto solo palleggiare sotto ritmo, senza mai trovare soluzioni degne di nota.

Insomma, le falle erano tante e bisognava apportare dei correttivi. La prima mossa di Sarri ha coinvolto il centrocampo, dove con il passare del tempo Cataldi ha sostituito Lucas Leiva. Il brasiliano era stato uno dei migliori metodisti della Serie A, perfetto per il blocco basso di Inzaghi e per lasciare ogni responsabilità con la palla a Luis Alberto. A Sarri, però, serviva un giocatore più attivo negli scivolamenti e più preciso negli scarichi.

Alla fine, comunque, la Lazio non ha trovato continuità di rendimento e si è trascinata gli stessi problemi lungo tutto il 2021/22. La fase difensiva, in particolare, è stata disastrosa: la Lazio voleva recuperare alto il pallone, ma non riusciva mai ad essere efficace, e infatti ha avuto il quinto PPDA più alto di tutto il campionato, peggio solo di squadre che non avevano di certo intenzione di recuperare palla col pressing come Udinese, Venezia, Spezia e Salernitana. I biancocelesti erano spesso in balia degli avversari, costretti a correre affannosamente all’indietro. Il risultato erano le troppe occasioni concesse: la Lazio 2021/22 è stata undicesima per gol subiti (58, un’enormità per una candidata ai posti europei) e nona per xG concessi (50,1).

Ai problemi collettivi se ne sono aggiunti alcuni di carattere individuale. Né Reina né Strakosha sono stati affidabili tra i pali, mentre la coppia di centrali Luiz Felipe-Acerbi si è rivelata molle, lenta e incline all’errore.

Il secondo posto del 2022/23

Nonostante premesse simili, però, la stagione seguente è stata un vero successo per Sarri e i suoi, capaci di chiudere il campionato al secondo posto. Il tecnico toscano ha accettato i limiti della sua rosa, ha rinunciato al pressing alto ma non alla sua vocazione per la difesa a zona, e ha costruito una fase di non possesso precisa ed efficace. Il 4-1-4-1 della Lazio si assestava su un blocco medio, intento a indirizzare il pallone verso le fasce. Se non riusciva a recuperare la sfera col contributo della linea laterale allora indietreggiava in blocco per concentrarsi sulla difesa della propria trequarti.

Mentre l’anno prima i ripiegamenti della Lazio erano faticosi, con la difesa totalmente sfilacciata rispetto al centrocampo, nel 2022/23 la Lazio accettava di rinculare, ma sempre con le distanze corte. Il recupero attivo del pallone, contro gli avversari più abili in fase di possesso, ha continuato a essere difficoltoso. Tuttavia, i miglioramenti nella difesa della propria trequarti e dell’area sono stati esponenziali. Casale e Romagnoli, arrivati col mercato estivo, si sono dimostrati due difensori adatti al gioco di Sarri, fatto di scalate e copertura degli angoli giusti. Alle loro spalle, poi, Provedel si è rivelato il miglior portiere della scorsa Serie A insieme a Maignan. Anche dalle loro prestazioni passa la differenza di rendimento tra xG concessi, dove la Lazio è stata solo settima (42,65), e gol effettivamente subiti, dove la Lazio ha avuto la seconda miglior difesa della Serie A con 30 reti incassate.

A riprova di ciò, alcune partite di strenua resistenza nei propri trenta metri: il secondo tempo della vittoria per 2-1 contro la Juventus all’Olimpico, oppure la gara del Maradona contro il Napoli, dove un gol dalla distanza di Vecino ha ricompensato la Lazio per 90’ di grande concentrazione difensiva.

La squadra di Sarri ha perfezionato il rendimento col trascorrere delle giornate e il miglior indicatore di tutto ciò è stato l’impiego di Luis Alberto, partito spesso dalla panchina durante le prime gare, visto che Sarri non si fidava di schierare sia lui che Milinković-Savic per questioni di equilibrio, e poi tornato titolare man mano che la squadra acquistava solidità e fiducia.

Ovviamente, il modo di difendere ha influenzato la fase offensiva. Nemmeno nella sua miglior versione la Lazio è diventata una squadra archetipica di Sarri, capace di dominare il possesso e costruire occasioni. Tuttavia, si è rivelata efficace in transizione. Non abbiamo visto i triangoli e le pareti di Sarri in fase di attacco posizionale, ma abbiamo goduto degli scambi corti e veloci quando la squadra si dispiegava a campo aperto. Un contesto che ha permesso di sopperire alla prima stagione sottotono di Immobile in maglia biancoceleste (anche a causa di diversi infortuni) e che ha evidenziato le eccellenti individualità in rosa: Zaccagni e Felipe con le conduzioni, Luis Alberto a lanciare le transizioni, Milinković con la sua capacità di essere uno e trino (sarà stato per una questione di maturità, ma con Sarri ha vissuto le annate più produttive della carriera: 8 gol e 10 assist nel 2021/22, doppia doppia nel 2022/23 con 11 gol e 11 assist).

La fine del ciclo

Arriviamo così alla stagione corrente, dove da subito lo staff tecnico si è ritrovato ad affrontare un problema difficile risoluzione: come sostituire Milinković-Savić. Alla fine, a prendere il suo posto da mezzala destra è stato Matteo Guendouzi.

Al netto delle scelte di mercato, la Lazio è tornata a essere preda della fragilità che aveva caratterizzato la prima stagione. L’involuzione difensiva – con una normalizzazione del rendimento di Provedel – unita alla solita fase di possesso farraginosa e improduttiva, ha posto le basi per la crisi attuale. La Champions League, poi, deve aver inficiato ulteriormente il rendimento. A differenza di Europa League e Conference, Sarri stavolta non ha potuto permettersi di dare minore importanza alla competizione europea per favorire il campionato. Così, la difficoltà a gestire il doppio impegno – triplo se si considera il percorso in Coppa Italia, dove la Lazio affronterà la Juve in semifinale – deve aver inciso sui pessimi risultati in Serie A.

Il fatto che al terzo anno non fossero stati risolti i problemi di sempre e che, anzi, vi fossero stati dei peggioramenti, lasciava intuire come il ciclo fosse già finito.

Se la fase difensiva costituisce l’architrave di ogni progetto di Sarri, il ritorno delle debolezze tipiche di una difesa a zona così radicale era il segno più evidente della crisi.

Nel 4-1-4-1 della Lazio, con la punta che scherma il centro, sulla costruzione degli avversari i giocatori abbandonavano la linea per alzarsi solo uno alla volta, lasciando sempre uno scarico libero lateralmente. La Lazio riusciva a coprire il regista avversario, ma, con la palla che arrivava al terzino, poteva bastare abbassare una mezzala o l’ala per trovare qualcuno che appoggiasse il pallone al regista, libero alle spalle dell’attaccante che lo schermava. Altre volte, invece, bastava ricominciare il possesso arretrato dal terzino verso i difensori per trovare la Lazio un po’ più bassa e quindi salire sempre di più.

L’incapacità di fronteggiare la costruzione avversaria era evidente soprattutto contro squadre che alzavano i terzini o gli esterni a tutta fascia a metà campo. La Lazio, infatti, si preoccupava di coprire il centro. Con la mezzala che saliva all’altezza di Immobile per infastidire il centrale in possesso, l’ala aveva il compito di rimanere stretta per negare la linea di passaggio in verticale nel mezzo spazio. Così, agli avversari bastava aprire il gioco sul terzino o esterno a tutta fascia che aveva tutto il tempo di ricevere e avanzare, visto che l’ala laziale era più alta e stretta.

Il modo di difendere della Lazio di Sarri era molto dispendioso, sia a livello fisico che a livello mentale. Le mezzali, in particolare, erano parecchio sollecitate, chiamate a salire all’altezza di Immobile per avvicinarsi al possesso e poi rientrare sulla linea dei centrocampisti una volta che il difensore si liberava della palla.

Ripetere questo tipo di movimenti di partita in partita, col pensiero, da parte di tutti i giocatori, di dover coprire determinati angoli e di dover mantenere determinate distanze, non deve essere facile. È anche per questo che la Lazio ha sofferto cali di rendimento netti anche all’interno della stessa partita: è successo in una sconfitta come quella in casa contro il Bologna, ma anche in una vittoria come quella contro l’Atalanta per 3-2. Così, sfibrata dagli impegni di coppa e da avversari sempre più preparati su come punire una fase di non possesso del genere, la Lazio di Sarri ha finito per capitolare, vittima della sua ossessione per le linee e per lo spazio.

In Europa la palla è ancora il primo riferimento in fase difensiva. Tuttavia, gli scivolamenti sono molto più flessibili e i giocatori hanno più possibilità di spezzare le linee per cercare attivamente di recuperare il pallone. La Lazio, invece, raramente rompeva il suo ordine geometrico e ha rappresentato un caso quasi unico, nel calcio contemporaneo, per il modo in cui i suoi difensori rifiutavano di staccarsi in avanti, anche quando le linee di difesa e centrocampo erano compatte.

Eseguire scivolamenti di quel tipo in maniera efficiente, poi, richiedeva un’intensità fisica, oltre che mentale, che nella Lazio sembra essere in grado di garantire il solo Guendouzi. I tentativi di dare sempre più spazio a un giocatore “di gamba” come Vecino sono parsi velleitari da questo punto di vista.

Infine, il rammarico più grande è di non aver mai avuto una Lazio brillante col pallone, che rendesse onore alla fama che Sarri si era costruito a Empoli e a Napoli. D’altra parte, con problemi strutturali così gravi era difficile ipotizzare il contrario: non poter recuperare palla immediatamente implicava non poter avere una fase di possesso continuativa e coraggiosa. Ragion per cui la Lazio dava il meglio in transizione e nelle fasi di attacco posizionale si rivelava sterile.

Sarri è sempre stato un tecnico poco convenzionale nell’impostare il gioco di posizione, un raro esempio di interprete di questo tipo di calcio che non cerca l’ampiezza su entrambi i lati. La Lazio aveva grandi picchi di talento, ma non aveva una qualità così diffusa da poter cercare le combinazioni con tanti uomini addensati sul lato palla che ci saremmo aspettati da Sarri. Anche quando è riuscita ad agglomerare tanti uomini sulla fascia, la Lazio non ha saputo ricavare molto dal palleggio. Un po’ per mancanza di dinamismo dei giocatori coinvolti nelle rotazioni. Un po’ per la scarsa qualità dei terzini – fondamentali per far filtrare il pallone nelle combinazioni corte in fascia – e per lo scarso contributo a parete di Immobile e Castellanos. Un po’ per il carattere poco associativo di un’ala come Felipe Anderson a destra.

Sarri non ha saputo, o forse non ha potuto, sviluppare un gioco troppo vario con il pallone. La manovra si è ridotta a delle semplici combinazioni di fascia tra terzino, mezzala e ala. Chiamati a giocare a ridosso della linea laterale con gli avversari appiccicati, gli interpreti delle catene hanno avuto poco spazio per potersi scaglionare in maniera utile. Il più delle volte il possesso riusciva ad avanzare solo con un’invenzione spalle alla porta di Luis Alberto e Zaccagni a sinistra, o di Guendouzi a destra. Non era sostenibile, però, richiedere loro sempre una giocata difficile per sbloccare la manovra.

I giocatori della catena di sinistra (HysaJ, Luis Alberto e Zaccagni) tutti posizionati in verticale l’uno rispetto all’altro. Luis Alberto si sforza di proteggere palla per poi ritornare indietro.

Dopo aver sviluppato in fascia, comunque, rifinire diventava difficile, perché la Lazio accompagnava con pochi uomini le azioni offensive. Per gli avversari, quindi, diventava più comodo difendere la propria metà campo. È per questo che tante azioni, contro blocchi bassi, si sono risolte in inutili traversoni dalla trequarti. Mentre lo scorso anno cercare il cross dalla trequarti verso il secondo palo con gli inserimenti di Milinković poteva avere un senso, farlo quest’anno senza i centimetri del serbo non ha portato a nulla.

Così, uno sbocco utile, ancora una volta, poteva arrivare grazie ad iniziative individuali come le conduzioni di Zaccagni e Felipe.

I compromessi del ciclo di Sarri

Sarri, difatti, non ha mai trovato una rosa che gli permettesse di costruire ciò che si aspettava l’opinione pubblica. Ha dovuto trovare un altro modo per rendere competitiva la Lazio e portarla in Champions. Ma alla fine, non è forse un po’ scorretto inseguire questa idea platonica di Sarri? L’opinone pubblica, in un certo senso, ha finito per essere più sarrista di Sarri stesso, delusa perché Sarri non è più quello di Mi Fist.

Un’immagine idealizzata del tecnico toscano che non tiene conto delle difficoltà alle quali è dovuto andare incontro. Sarri è sceso a patti con una rosa che, nonostante i cambi di anno in anno, non è mai stata l’ideale per le sue richieste. Avrebbe potuto essere più radicale nella selezione dei giocatori? Difficile dirlo.

Di certo, mantenere al centro del progetto alcuni singoli ha ridotto il suo margine di manovra. Si pensi, ad esempio, ai terzini. Nel corso dei suoi tre anni, Sarri non ha mai avuto un laterale che offrisse un contributo significativo col pallone: da Mario Rui fino a Emerson, passando per Ghoulam, i terzini nel suo gioco sono stati cruciali, sia in impostazione, sia nell’associarsi ai compagni, ma nessuno di quelli allenati a Formello garantiva caratteristiche simili. Il più affidabile ha finito per essere Marusić, quello tecnicamente di livello più basso in rosa.

Anche puntare su un’ala come Felipe Anderson, di cui Sarri si è sempre dichiarato estimatore, e che ha avuto un rendimento di alto livello, alla lunga non lo ha aiutato: il brasiliano fatica a connettersi coi compagni e pratica un calcio fatto di strappi, anche in netta inferiorità contro gli avversari, che lo porta a perdere troppi palloni per gli standard richiesti dal tecnico toscano.

Impossibile, poi, non affrontare la questione Immobile. Sarri, difatti, non lo ha mai esautorato e, viste le sue cifre e il suo valore all’interno dell’ambiente Lazio, forse non avrebbe potuto fare altrimenti. Sarri, però, ha sempre potuto contare su centravanti raffinati nel gioco spalle alla porta e nel contributo alla manovra (Higuaín, Mertens, Giroud). Immobile, invece, è un animale da profondità ed è per questo che Sarri ha dovuto trascurare in parte il gioco interno per cercare attacchi più diretti e sviluppi quasi sempre dirottati in fascia. Non sono state poche le azioni in cui un cattivo controllo o una sponda sbagliata di Immobile spalle alla porta in zona centrale ha permesso agli avversari di ripartire: a fronte di caratteristiche simili, non era possibile, né giusto, pretendere di creare occasioni con i classici scambi palla avanti-palla indietro del calcio di Sarri.

Visti gli infortuni della scorsa stagione, quest’estate la Lazio aveva puntato sul Taty Castellanos come alternativa al suo capitano. Sarri è da sempre conservativo nell’inserimento dei nuovi giocatori. Rimarrà il dubbio sull’effettivo valore del centravanti argentino, su come avrebbe potuto aiutare l’allenatore a proporre qualcosa di diverso. Detto che, comunque, Castellanos si è dimostrato un attaccante più di giocate che di gioco.

Per quanto riguarda la gestione degli acquisti, un discorso simile potrebbe valere per Rovella e Kamada, due centrocampisti all’apparenza perfetti per Sarri: il primo per la sua capacità di prendere palla dalla difesa e condizionare il possesso attraverso i passaggi; il secondo per il suo dinamismo e la sua intelligenza da mezzala, uniti a un’ottima tecnica. Davvero non si poteva rischiare di più nelle rotazioni?

In generale, il rapporto di Sarri con il calciomercato non è mai stato facile. Lo dimostra il fatto di portare con sé sempre qualche pretoriano. Alla Lazio a seguirlo sono stati Hysaj e Vecino. In Champions League, la scelta di un giocatore come l’uruguagio a centrocampo ha limitato ulteriormente la qualità del possesso biancoceleste, tanto più quando ha agito da vertice basso. Schierato sempre titolare in Europa, la sua presenza, peraltro, non ha compensato le lacune senza palla: in un certo senso, puntando su di lui Sarri ha ammesso di non poter migliorare ulteriormente la fase difensiva della sua squadra a livello collettivo.

Cosa resterà

Viste le difficoltà di quest’anno, sembrava impossibile che la Lazio e Sarri proseguissero sulla stessa strada. Gli ultimi risultati e tutte queste criticità, però, non devono far dimenticare il percorso che aveva portato al secondo posto del 2022/23.

Un ciclo caratterizzato da alcune grandi serate, come le vittorie al Maradona contro il Napoli, o quelle in casa contro l’Inter, ma anche il ritorno del pubblico laziale nelle notti di Champions (l’ultima volta, nel 2020/21, si giocava a porte chiuse a causa del Covid).

Anche aver fatto ritornare la tifoseria a gremire gli spalti non è un risultato da poco. Da fuori, l’impressione è che l’entusiasmo della parte biancoceleste di Roma non fosse così alto da tanto tempo: merito del carico di speranze che portava con sé Sarri e dello straordinario campionato dello scorso anno.

Impossibile, poi, non parlare del suo score nei derby, vista anche la dicotomia, creatasi in maniera piuttosto naturale, con Mourinho: Sarri ha vinto 5 derby su 6, una striscia per la quale i laziali non possono che essergli grati.

Nel concreto, il tecnico toscano non solo lascia momenti da conservare con cura nella memoria dei tifosi, ma anche alcuni giocatori che solo lui avrebbe potuto valorizzare. Come quasi sempre avviene nelle sue squadre, i difensori centrali hanno raggiunto picchi che non sembrava poter toccare: era accaduto ad Empoli con Rugani e Tonelli, a Napoli con Albiol e Koulibaly, al Chelsea con Rüdiger (che si pensava potesse giocare solo a tre), ed è successo anche alla Lazio, dove dopo la disastrosa annata di Luiz Felipe e Acerbi, Romagnoli è tornato ad essere uno dei migliori centrali italiani, mentre Gila e Patric hanno scoperto di poter far parte della difesa di una competitor per l’Europa (particolare, invece, la posizione di Casale, eccellente nel 2022/23 e passato in secondo piano quest’anno dopo un infortunio agli adduttori).

È difficile ipotizzare cosa possa riservare il futuro a Sarri. L’impressione è che abbia bisogno di allontanarsi per qualche mese per rinnovare alcuni dei concetti a lui più cari. Quella che una volta era la figura più innovativa del nostro calcio, capace di convincere tante società a cambiare paradigma e a puntare su allenatori con un percorso simile al suo, si è riscoperta un passo indietro rispetto alla contemporaneità.

L’attesa di poter rivedere all’opera una sua squadra, comunque, rimarrà viva. Starà a lui capire come poter tornare in gioco.

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