Non c’è altro modo per affrontare la stagione italiana e romanista di Edin Dzeko se non come la sua personale discesa agli inferi. Un viaggio di sola andata per quel girone in cui gli attaccanti centrali che hanno fatto qualcosa - non importa cosa - per infastidire il dio del calcio sono costretti a mettere in discussione eternamente le basi del proprio mestiere.
Tutto era normale, poi ho cominciato a sbagliare gol semplici, a porta vuota. Poi, senza che me ne rendessi conto, non avevo più idea di dovesse fosse la porta, di come colpire la palla, di come utilizzare il mio corpo…
Mentre più o meno chiunque può sbagliare un gol a porta vuota (Cristiano Ronaldo e Neymar, Zlatan Il Grande, Robin Van Persie, ai suoi tempi persino anche Ryan Giggs), Edin Dzeko ha collezionato in una sola stagione un numero di errori, più o meno clamorosi, che un altro attaccante può fare in una carriera intera. Un attaccante con alle spalle una carriera molto meno brillante della sua.
Per ragioni simili tempo fa mi aveva colpito il caso di Fernando Torres. Ma si trattava di un attaccante che aveva dovuto riadattare il proprio gioco dopo un infortunio grave (al ginocchio) rivedendo al ribasso le proprie possibilità, che sembrava già diverso ai tifosi rispetto a quello che era stato, e che, in aggiunta a questo, aveva fallito un'occasione incredibile (più qualche altro errore meno grave). E sembrava una questione in cui c'entrava molto la nostra percezione amplificata da internet, dai meme. Torres ha capito subito la sfida mentale che aveva di fronte (diceva: “Se sapessi qual è il problema lo risolverei in un minuto”, e anche: “Mi alleno tutti i giorni, non mi arrenderò, mai e poi mai”) e oggi, a suo modo, sembra essere andato oltre. Non sarà il Torres di inizio carriera, ma non è neanche più quello di tre anni fa.
A differenza di Torres, non c'è una ragione apparente per cui Dzeko debba essere diverso da come era una stagione fa, o due. Neanche il declino fisico giustifica da solo una crisi di questo tipo: Dzeko ha appena compiuto trent'anni e questo, semmai, non fa che aumentare la pressione su di lui, perché rende più difficile un vero riscatto, o una normalizzazione.
Tutto era normale, poi, all'improvviso, non c'era più niente di normale...
Degli errori di Dzeko non si parla, si guardano e basta. Nella cultura calcistica l'aspetto psicologico è meno evoluto rispetto a quello tattico o atletico. Non è detto che un calciatore sia seguito da uno psicologo (neanche in casi in cui andrebbe assegnato d'ufficio tipo Cassano) e le risposte sempre uguali nelle interviste non ci permettono di vedere il mondo di difficoltà e pressione (a fronte della consolazione economica) in cui vive un calciatore professionista oggi.
Forse è anche conseguenza del maschilismo se abbiamo un'idea di talento come volontà di potenza, come una riserva a cui attingere a seconda del bisogno per imporre i propri poteri sul contesto. Anche se abbiamo visto abbastanza sportivi fallire per via delle pressioni da sapere che a volte il contesto è più forte della forza mentale di un individuo, di fronte a un calciatore in difficoltà non possiamo che rifugiarci nella richiesta di maggiore impegno. Altrimenti di fronte al fallimento – e questo vale anche in ambito extra sportivo – restiamo senza parole.
Poco prima della partita con il Genoa, la Roma ha pubblicato sulla sua pagina Facebook il video di un gol di Džeko in allenamento e il commento con più like è: “Si vede che abbiamo una brutta difesa, ci segna anche Dzeko”. Sotto qualcuno gli fa notare che a difendere in quell'azione era Strootman, e allora si mette in questione lo stato di Strootman perché ha fatto segnare Dzeko: “Se metteva il piede Dczeko (la c in piè del commentatore) segnava col cavolo ecco perché non è ancora pronto”. Il secondo commento con più like è: “Do it in the game”.
Siamo senza parole di fronte a una crisi come quella di Dzeko e per questo identifichiamo Dzeko stesso con la sua crisi. La crisi, anzi, diventa rivelatoria: Dzeko in realtà è sempre stato un bidone e secondo alcuni addirittura in Promozione e Prima Categoria come Dzeko “ce ne stanno a fiumi” come lui. Prendiamo le distanze: se ci siamo caduti prima, non ci cadiamo più, ora.
Se si escludono i casi più eccezionali, anche un calciatore di medio-alto livello sembra costretto ad oscillare per tutta la sua carriera da una parte all'altro dello spettro critico, senza mai poter essere certo della propria identità agli occhi degli altri. Come ha ricordato Emiliano Battazzi in tempi non sospetti, a inizio carriera il soprannome di Dzeko era “il lampione”, poi è diventato “il diamante”. E adesso sembra tornato quello di quando aveva diciassette anni. Possibile? Eppure Dzeko è sempre lo stesso.
Persino i continui sproni pubblici di Spalletti sembrano confermare l'idea che in un certo senso dipenda da Dzeko, che non sia solamente qualcosa che gli è accaduto. Da quando qualche settimana fa diceva: "Lui ha qualità, è un grande calciatore e una grande persona. È un po' troppo sensibile a molti discorsi che si fanno in città: 'deve andar via', 'deve giocare un altro'. Lui certo deve fare qualcosa di più”. Alla ripetizione del concetto in uno degli ultimi allenamenti prima della partita con il Genoa: “Dimostrami chi sei”.
Dis-illusione
La rivelazione riflette anche la peculiare delusione dei tifosi della Roma, che avevano interpretato l'arrivo di Dzeko come una possibile chiave per vincere lo Scudetto. E Dzeko si è presentato segnando dopo appena 3 minuti della sua prima partita, l'amichevole con il Siviglia, un gol niente affatto banale.
In quella stessa partita Dzeko realizza un assist per Nainggolan e segna un altro gol. A porta vuota, su assist di Salah (la prima cosa che noto riguardandolo oggi è che Dzeko non esulta, e penso che forse valeva la pena di godersi quel gol, considerando quanto raramente segnare sarebbe stato di nuovo facile per lui).
Da tifoso, ricordo di aver parlato di quel primo gol a lungo. Dzeko si muove con tempismo in profondità, controlla il passaggio leggermente corto di Maicon facendolo scorrere sul destro, e si coordina senza soluzione di continuità per quel collo pienissimo che entra sotto la traversa prima che portiere spettatori abbiano capito cosa ha in mente.
L'impatto di un gol così meraviglioso, così da centravanti, alza ulteriormente le aspettative e quando Dzeko sbaglia un gol non troppo diverso da quelli che avrebbe sbagliato in seguito i telecronisti di Roma Tv sono comprensivi: “Non vive per il gol, però c'è sempre”.
A posteriori, riguardando il primo errore di Dzeko in maglia giallorossa non è preoccupante il modo in cui colpisce il pallone mandandolo fuori, ma che per coordinarsi è inciampato, che è quasi caduto.
Come detto, in quel momento sarebbe stato impossibile prevedere che una situazione del genere si sarebbe ripetuta una, due, tre volte in stagione (il totale cambia a seconda della severità di chi conta), ma quel primissimo gol seguito da quel primissimo errore rappresentano l'alfa e l'omega di questa stagione di Dzeko.
La luna di miele è continuata almeno fino alla seconda partita vera, quella con la Juventus, in cui Dzeko si è inventato un gol praticamente dal nulla, dominando Chiellini su un campanile alzato in area senza troppe pretese da Iago Falque, e colpisce di testa nell'unico modo con cui avrebbe potuto battere Buffon. Ancora una volta con quell'istinto tipico degli attaccanti veri che pensano e realizzano le loro giocate con un attimo di anticipo sul resto dei giocatori.
Un gol del genere compensa parecchi errori: passano in secondo piano quei tiracci di Dzeko che, estratti dal flusso dei sentimenti dei tifosi e messi in fila, restituiscono un senso di impotenza altrettanto forte degli errori più vistosi. Quella goffaggine che fin dall'inizio si è impadronita di Dzeko facendolo quanto meno sembrare stranamente a disagio con una palla tra i piedi.
Ma nelle prime partite ci sono anche due casi di gol praticamente fatti, di cui però non si sapeva ancora (dato che gli errori più grossi dovevano ancora venire) e incolpare Dzeko.
Il primo è quello contro l'Inter, su un tiro ribattuto da Handonovic che Dzeko calcia al lato da dentro l'arietta piccola. In quel caso non si capisce se D'Ambrosio devia o meno il suo tiro: l'arbitro dà angolo, e i replay non chiariscono se D'Ambrosio contrasti in effetti la palla o si limiti ad ostacolare Dzeko, a spaventarlo e a mettergli fretta tutt'al più. In ogni caso non possiamo fidarci della la nostra percezione, alterata sia dalla prospettiva, sia dal fatto che Dzeko non prende neanche l'esterno della rete, ed è impossibile da immaginare senza deviazione. Impossibile ma nel personaggio, oggi.
Dal gol con la Juventus passano otto partite, Rudi Garcia comincia a metterlo in panchina o a toglierlo dopo un'ora di gioco e il pubblico romanista, che lo aveva accolto all'aeroporto come sempre numeroso ma con una convinzione che non riserva a tutti i giocatori, comincia ad esternare i primi dubbi su Dzeko pur continuando a sostenerlo in questi primi momenti di difficoltà. Lui si libera momentaneamente contro il Leverkusen in Champions League e segna consecutivamente in due partite di campionato, in entrambi i casi su rigore, nel derby con la Lazio e contro il Bologna.
Ma, proprio contro la Lazio, manca quello che di solito si chiama “appuntamento con il gol”, e che in questo caso sembra davvero un appuntamento a cui non dovrebbe fare altro che presentarsi. C'è Dušan Basta a ostacolarlo, come c'era D'Ambrosio contro l'Inter, ma è comunque difficile da capire perché Dzeko, che arriva a colpire il pallone, lo colpisca così male. Praticamente lo schiaccia ma non ne cambia quasi la direzione. Persino difficile, volendo farlo a posta.
È risaputo che nelle sabbie mobili non ci si deve agitare, con il rischio di sprofondare ulteriormente. Quello che aumenta esponenzialmente la frustrazione di Dzeko, ma ancora di più dei suoi tifosi, sono i moltissimi tentativi, spesso forzatissimi, di ritrovare fiducia nei propri mezzi.
Prima di affrontare gli errori più grandi che hanno reso evidente che si tratti di una situazione non normale, siamo dovuti passare attraverso alcune categorie di tiro che sono solo di Dzeko e che da soli definiscono l'assurdità di questa stagione.
Ci sono quei tiri che non vanno molto lontani dal bersaglio ma che, considerata la posizione di Dzeko, ci si aspetterebbe finiscano comunque più vicino alla porta.
Quelle occasioni in cui non sembra che il portiere abbia compiuto sforzi significativi per parare, ma che sia stato Dzeko a prendere la mira con calma e a calciargli addosso.
La frustrazione di quei tiri in partite importanti, magari anche di difficile esecuzione, che non ci aspetta segni a tutti a costi, in cui però Dzeko non prende neanche l'esterno della rete...
Quelle occasioni arrivate in partite importanti, magari neanche troppo difficili ma che, tutto sommato, si potrebbero anche fallire, ma non come le fallisce Dzeko che non va neanche vicino a colpire lo specchio della porta.
Quei tiri che non entrerebbero neanche tra i pali di una porta da rugby
Quelli in cui è la coordinazione di Dzeko per il tiro a far nascere il dubbio che non sappia fino in fondo cosa sta facendo.
Quelli in cui è difficile capire perché Dzeko abbia scelto di tirare, chi glielo abbia fatto fare, quale tipo di ragionamento.
Quei tiri che non hanno nulla a che fare con il gioco del calcio.
Intermezzo statistico per provare a relativizzare
Dal punto di vista statistico la stagione di Dzeko è altrettanto chiaramente deludente. Anche se il calo a livello strutturale sembra essere cominciato almeno lo scorso anno, quando la percentuale di conversione (rapporto tra il totale dei tiri non bloccati di Dzeko e i gol) era già del 12,5% (4 gol con 32 tiri). Nella stagione 2013/14 la percentuale era del 19,28% (16 gol con 83 tiri) mentre quest'anno Dzeko realizza solo il 9,68% dei suoi tiri (in totale 62, e stiamo considerando solo i tiri non bloccati dai difensori).
Il declino fisico probabilmente c'entra nella situazione di Dzeko, nel modo descritto dal tennista Ivan Lendl, che a una certa età disse di essersi reso conto che il suo gioco stava rallentando impercettibilmente: perdeva un decimo di secondo alla volta, ora nel dritto, ora nella scivolata in avanti. Microscopici rallentamenti che, sommati insieme, resero il suo tennis non più competitivo ai massimi livelli. Insomma, il momento che sta vivendo Dzeko non dipende esclusivamente da ragioni psicologiche e non è un'assoluta novità per lui.
Il livello di un calciatore può calare più di quello di un tennista che deve correre su ogni palla di ogni punto, e in fondo Dzeko potrebbe adattare le proprie giocate ai suoi nuovi tempi di reazione. Ma la situazione diventa ancora più anomala, e meno comprensibile con il solo declino fisico se si guarda al rapporto tra i gol che ci si sarebbe aspettato segnasse in campionato in base alle occasioni avute (10.6) e quelli effettivamente realizzati (6: nel calcolo non sono considerati i rigori). Di questi 6 gol, però, quello con la Juventus non è un'occasione che Dzeko ha trasformato. Il che è normale, perché non tutti i gol sono frutto di grandi occasioni.
Quindi, togliendo il gol alla Juventus, considerando solo le “grandi occasioni” avute da Dzeko (10) e quelle realizzate (5), diventa evidente che Dzeko sta vivendo una stagione come fosse al tavolo della roulette: per ogni occasione che gli capita ha le stesse possibilità di trasformarla che di sbagliarla, deve chiudere gli occhi e sperare che esca il suo colore.
Uno stato psicologico che spiega anche l'assenza di quella gioia che solitamente si impadronisce degli attaccanti quando, dopo aver magari lavorato a lungo nell'ombra, gli si presenta un'occasione facile.
Era tutto normale, poi non c'era più niente di scontato... stavo giocando a calcio e all'improvviso avevo in mano una pistola a tamburo con la metà dei colpi caricati e dovevo fare la roulette russa...
Per Dzeko, di fatto, non esistono le palle da spingere solo in rete. Ogni sollievo, tipo quello successivo al gol nel derby di ritorno in cui, in effetti, spinge la palla nella porta vuota, sono solo un sollievo momentaneo. Almeno finché non uscirà dallo stato di crisi psicologica più generale.
La crisi di Dzeko lo ha fatto piombare in uno stato in cui i numeri non possono aiutarlo, in cui per prevedere il futuro in cerca di sicurezze è più utile provare a interpretare il volo degli uccelli.
Sopravvivere agli errori
Così siamo arrivati all'errore stagionale più indimenticabile, quello con il Palermo. Un errore così grande che da solo basterebbe a rovinare il sonno a qualsiasi centravanti, sproporzionato persino rispetto al distillato di errori mostrato sopra.
Il modo migliore per capire cosa è successo contro il Palermo è guardare le reazioni di quelli che sono in campo con Dzeko. Ovviamente non tutti proviamo empatia allo stesso modo, Struna e Munoz, ad esempio, fanno finta di niente, ma se guardate Hiljemark entrare in area noterete che quando Dzeko colpisce la palla sta alzando le braccia, probabilmente per sfogare la propria frustrazione nei confronti della difesa della sua squadra, ma quando si rende conto di quello che ha appena visto, senza spezzare il gesto che aveva cominciato, si porta le mani al volto.
Anche Salah si porta le mani al volto e guarda con incredulità (e forse compassione) Dzeko. Ma l'espressione che rende meglio l'interezza dei nostri sentimenti di fronte a una cosa di questo tipo è quella di Maicon, che passa dal buffo stupore con cui guarda Dzeko e la palla, alla preoccupazione con cui torna al suo posto.
Gli errori di Dzeko sono un trionfo di compagni con le braccia alzate al cielo o le mani ai fianchi in una posa scocciata, di teste che scuotono senza guardarlo e di sguardi fissi di incomprensione. Dzeko stesso dopo gli errori più gravi non riesce a trattenere una smorfia se non facendo sparire la faccia all'interno del gomito con cui si asciuga il sudore, o nascondendosi dietro una mano. Gli sforzi di Dzeko per non implodere psicologicamente dopo ogni errore sono evidenti, la parte sana di lui sta facendo di tutto per dire a quella che sbaglia a porta vuota che non è successo niente, che è tutto ok. Contro il Palermo va vicino al crollo e si sostiene al palo della porta, anzi lo abbraccia e lo bacia, forse addirittura dice qualcosa all'orecchio del palo.
Poco più avanti in quella stessa partita contro il Palermo Dzeko ha segnato una doppietta (il secondo anche molto bello) che è servita più che altro a ricordargli, e a ricordarci, che nonostante tutto in effetti la vita va avanti. Ed è andata avanti anche dopo altri errori, anche se i minuti a disposizione per Dzeko sono drasticamente diminuiti e il suo atteggiamento sembra sempre più di passiva accettazione.
In un pezzo di sedici anni fa uscito sul New Yorker con il titolo The Art Of Failure, Malcom Gladwell descriveva due tipi diversi di fallimento dovuti a stress. Quello più comune in cui si viene presi dal panico e ci si rifugia nel proprio istinto facendosi consigliare spesso male; e quello che in inglese si definisce con la sensazione di soffocamento, che consiste nel perdere la naturalezza accumulata magari con anni di esercizio. Gladwell fa l'esempio di Jana Novotna che nel 1993 ha perso una finale di Wimbledon contro Steffi Graf a cinque punti dalla vittoria, commettendo doppi falli ed errori non forzati da principiante.
Un esempio simile è quello di Elena Dementieva, la cui frequenza di doppi falli aumentava proporzionalmente all'importanza della partita, che ha perso una finale di Roland Garros (6-1; 6-2) nel 2004 commettendone addirittura 10.
Per Gladwell andare nel panico significa “pensare troppo poco” mentre soffocare significa “perdere l'istinto”, i gesti si fanno “meccanici” e “fuori tempo”. Significa anche, cioè, pensare troppo. È un tipo di fallimento paradossale, perché a un passo dal successo nasce dal pensiero: Posso ancora fallire.
Ed è esattamente questo secondo tipo di fallimento quello che sta sperimentando Edin Dzeko in questa stagione. Se si considerano tutte le variabili in gioco anche il più semplice dei tiri può diventare difficile e non c'è niente di peggio per uno sportivo che perdere la memoria del proprio corpo, quell'istinto che è in parte naturale e in parte allenato e che permette di prendere decisioni complesse in pochi secondi (se non frazioni di secondo). È tornato diciassettenne, insicuro nei gesti che da tempo aveva integrato nel proprio bagaglio di calciatore e di uomo, e non c'è dubbio che il primo errore abbia portato al secondo, il secondo al terzo, e così via. Che sbagliando, Dzeko abbia imparato a sbagliare fino a dubitare della sua stessa natura di centravanti. Quella di Dzeko, in fondo, è una crisi interessante perché è una crisi di identità.
Personalmente, in un periodo difficile, ho sperimentato una forma d'ansia che mi faceva dimenticare come si salivano le scale. Fermo davanti al primo gradino non ricordavo quale gamba dovessi mettere davanti all'altra. E durante i quattro piani che mi separano da casa poteva capitarmi più di una volta. Le volte in cui salivo meglio erano quelle in cui qualche altro pensiero teneva occupata la mia mente, ma per ogni giorno in cui arrivavo al quarto piano e mi stupivo di quanto in fondo fosse facile, ce n'era uno successivo in cui ci mettevo il triplo del tempo normale. Questo, con le differenze evidenti tra i due casi, per dire quanto sia facile perdersi in un bicchiere d'acqua.
Confesso di aver gridato “Dzeko!” nella partita con il Torino, quando Totti ha segnato il gol del pareggio una manciata di secondi dopo essere entrato in campo, e invece riguardandolo mi sono accorto che sul cross Dzeko è anche in anticipo, ma non arriva a colpire dopo la deviazione di Manolas. Ed è crudele confrontare la capacità di essere decisivo di Totti in questo finale di campionato con lo stato di prolungata impotenza che sta vivendo Dzeko.
Dopo la partita, un amico che era allo stadio mi ha detto che quando Džeko si è alzato dalla panchina con addosso la maglia del compagno di Nazionale Zukanovic, un suo vicino di posto ha commentato: “Allora è cieco davvero!”.
Ma le ragioni per cui una parte del pubblico romanista, a un certo punto, dopo averlo sostenuto a lungo all'unanimità (e vale la pena sottolineare, in contraddizione con il luogo comune che parla di un ambiente romano capriccioso e impaziente, che ancora oggi in molti lo sostengono) ha preso le distanze da Džeko sono naturali e comprensibili, seguono le leggi dell'empatia per cui guardare soffrire una persona può procurare un dolore vero e proprio nei testimoni (lo studio sul “somatic contagion” del Dr Giummarra ha dimostrato che assistere al dolore altrui “attiva le zone del cervello che sono coinvolte nell'esperienza del proprio dolore”). E se è possibile con il dolore non vedo perché non dovrebbe essere possibile con la frustrazione. Per cui, niente di male se avete gettato la spugna con Džeko.
Džeko, però, non può fare altro che continuare ad andare avanti sperando che passi questo brutto momento.
Oltre ad adattare il proprio gioco al naturale invecchiamento di muscoli e articolazioni, Dzeko deve allentare la pressione su se stesso e accettare la propria limitata capacità di cambiare il corso delle cose. E chissà che un assist come quello decisivo per il 3-2 contro il Genoa non possa aiutarlo a ricostruire la propria autostima partendo proprio dal presupposto che un modo per essere utile, anche senza segnare 27 gol in una stagione, può sempre trovarlo. A noi spettatori la sua storia recente insegna che il contesto a volte è più forte di un singolo individuo, e dato che il contesto siamo anche noi, potrebbe aiutarci ad evolvere verso comportamenti più consapevoli.
Sembrava tutto finito, poi all'improvviso tutto è tornato normale...