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All'origine dello scandalo "Passaportopoli"
07 ott 2020
Nel 2000 fu una partita dell'Udinese in Coppa UEFA a fare luce sullo scandalo dei passaporti falsi in Serie A.
(articolo)
15 min
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L’estate del 2000 per l’Udinese è fitta di impegni. I friulani si sono classificati ottavi in campionato e hanno guadagnato il diritto a partecipare alla Coppa Intertoto, una competizione che oggi ha un sapore tremendamente vintage, ma che allora era vista come una manna dal cielo dalle squadre rimaste fuori dalle competizioni europee.

Vincere l’Intertoto era infatti l’ultima ancora di salvezza, l’esame di riparazione che ti costringeva a un tour de force già da giugno e luglio, appena finita la Serie A, ma che garantiva a chi la vinceva un posto in Coppa UEFA. Potevano capitare trasferte assurde in luoghi da Impero austro-ungarico, però alla fine a giocarsi la qualificazione c’erano le solite squadre della media borghesia europea: categoria a cui i friulani all’epoca appartenevano eccome, da almeno tre anni, dopo l’exploit con Zaccheroni e il 3-4-3 con il tridente Poggi-Bierhoff-Amoroso.

Oltre all’Udinese, la Serie A nel 2000 porta in Intertoto anche il Perugia, eliminato però al secondo turno dallo Standard Liegi. I friulani invece entrano in tabellone al terzo turno e in rapida successione fanno fuori l’Aalborg, l’Austria Vienna e il Sigma Olomuc. Questi ultimi al supplementare in uno spettacolare 4-2 («Potrebbe bastare lo 0-0 o l’1-1, ma fare calcoli potrebbe rivelarsi fatale», ammonisce il telecronista Rai Stefano Bizzotto prima del fischio d’inizio).

I friulani si aggrappano all’argentino Roberto “Pampa” Sosa, sei gol in quell’Intertoto, e al loro “giocatore-franchigia”, Stefano Fiore, reduce da un Europeo di lusso in cui era stato protagonista con l’Italia, con un gol segnato al Belgio e un ruolo fondamentale nello scacchiere disegnato dal commissario tecnico Dino Zoff. In attacco l’Udinese può schierare anche l’italo-venezuelano Massimo Margiotta, il neo-acquisto dal Castel di Sangro Vincenzo Iaquinta, l’esperto Roberto Muzzi, la guizzante ala destra Mauro Esposito oppure il brasiliano Warley Silva dos Santos.

L’allenatore è Luigi De Canio, che ha trasformato il 3-4-3 di Zaccheroni in un più prudente 3-4-1-2, in cui Fiore, il belga Johan Walem in mezzo al campo e il jolly danese Martin Jorgensen, sono i leader tecnici. I due esterni a tutta fascia, salutati Helveg e Bachini, sono a sinistra l’argentino Cristian Diaz e a destra un altro brasiliano, Alberto Valentim do Carmo Neto. Per tutti, Alberto.

Argentini, belgi, danesi, brasiliani, ghanesi (il difensore Gargo), spagnoli (Luis Helguera), olandesi (van der Vegt), cileni (Gutierrez e Pizarro), argentini (Pineda), e paraguaiani (Da Silva): la rosa dell’Udinese sembra una sfilata di “Giochi senza frontiere” in versione internazionale. D’altronde la Legge Bosman lo consente, si possono tesserare tutti i calciatori stranieri che si vogliono, ma al massimo cinque extracomunitari, e di questi cinque solo tre possono essere schierati in campo.

Ciò che conta, però, non è il luogo di nascita, bensì il passaporto: quello spagnolo va per la maggiore, ma pure quello portoghese per i brasiliani. In più l’Udinese ha il caso favoloso di Margiotta, nato a Maracaibo da genitori italiani, che giocherà nella nazionale maggiore venezuelana dopo tutta la trafila con le varie Under azzurre.

Basta una moglie, un papà, una mamma, un nonno o un bisnonno e il gioco è fatto. Si prepara una pratica e via, una rogna in meno. Nonostante qualche calciatore, anche di peso, come Juan Sebastian Veron della Lazio fresca vincitrice dello scudetto, sia finito nel mirino della procura di Roma: «Mai saputo nulla, se ne sono occupati sempre a Buenos Aires», si era giustificato il clan dell’argentino, a cui veniva contestata la regolarità dei documenti ottenuti per ottenere la nazionalità italiana, nello specifico “un trisavolo di nome Portella di Fagnano Castello, in provincia di Cosenza”.

Incidente diplomatico

Il sorteggio del primo turno della Coppa UEFA 2000-01 assegna all’Udinese il Polonia Varsavia, campione di Polonia in carica. La partita d’andata è in programma per il 13 settembre alle 18.30 allo stadio Kazimiersk Groszki di Plock, intitolato all’allenatore che aveva portato la Nazionale ai grandi fasti degli anni Settanta con i vari Lato, Deyna e Szarmach: oro olimpico a Berlino nel 1972, terzo posto al Mondiale del 1974 e argento ai Giochi di Montreal del 1976. La classica cartolina di un primo turno di Coppa UEFA, in cui sono ancora dentro tutte le squadre e quindi è più semplice imbattersi in trasferte scomode.

I friulani atterrano all’aeroporto Fredryk Chopin all’ora di pranzo quel mercoledì con un charter che si porta dietro un’ora di ritardo. Piccolo contrattempo, niente di grave. Dalla capitale polacca è previsto poi un viaggio in pullman verso Plock, che si trova a circa due ore di distanza.

Mentre De Canio chiacchiera con i giornalisti ci si accorge che non tutta la comitiva bianconera è presente all’appello per ripartire. Manca, infatti, il brasiliano Warley, che è rimasto bloccato al controllo dei passaporti, messo in un angolo in attesa di chiarimenti. «Toh, guarda, avevo un dubbio tra lui ed Esposito, adesso ho il ballottaggio già sistemato», sghignazza De Canio, ma in realtà non c’è nulla da ridere. Cos’è successo? Il colonnello Wlodzimierz Warchol, ufficiale della guardia di frontiera, non ha lasciato passare Warley, perché quel documento, il passaporto portoghese, è falso. Nello specifico, è stato emesso nel 1991 a una persona che non era l’attaccante da un funzionario portoghese che, fatte le prime ricerche, non esiste.

Di certo Warley non può passare per nessuna ragione al mondo, ma nemmeno tornare indietro a Udine: l’attaccante così è in stato di fermo. Un bel guaio: viene fermato anche il comandante dell’aereo, Antonio Frullio, per fare chiarezza con i documenti di volo. Con i due rimane il direttore generale dell’Udinese, Pierpaolo Marino: «Tutto un equivoco, si risolverà in fretta», cerca di rassicurare.

Intanto però il resto della comitiva parte, direzione Plock; i tempi sono stretti, c’è da preparare la rifinitura per l’indomani e sistemarsi nella stanza d’albergo. Tempo mezz’ora e il pullman viene richiamato all’aeroporto di Varsavia. Il motivo? Un altro giocatore è stato trovato non in regola, uno di quelli che erano già saliti sul mezzo, ed è l’altro brasiliano, Alberto. Dietrofront dell’autista e all’ufficio passaporti ci va anche il terzino. Si pensa che sia stato Warley o Marino a fare “la spia”, in maniera involontaria con i poliziotti di frontiera, del tipo: «Ma anche Alberto ha lo stesso passaporto di Warley, perché l’avete lasciato andare?».

È l’inizio di una giornata allucinante innanzitutto per i due calciatori, che potranno lasciare l’aeroporto solo in nottata dopo aver temuto il peggio, anche il carcere: l’accusa infatti è di aver tentato di entrare in Polonia con documenti falsi, un reato che prevede fino a cinque anni di prigione. E nel frattempo rimangono chiusi in uno sgabuzzino della dogana, intontiti da tanto clamore attorno a loro.

L’affare, come si dice in questi casi, ben presto si ingrossa: entrano in gioco traduttori (quelli richiesti dalla polizia polacca per parlare con Warley e Alberto), avvocati (quelli richiesti, invece, da Marino per chiarire la situazione una volta arrivati i traduttori) e ambasciatori. Ci sono quelli italiani e brasiliani in Polonia, mentre dal Polonia Varsavia fanno sapere di brancolare nel buio, ma di essere disposti ad aspettare. Un altro aspetto assurdo della faccenda è che l’anno prima i friulani erano venuti a Varsavia a giocare, ma contro il Legia, e lì non era successo niente, nemmeno con Warley. Quindi è stato solo lo zelo del signor Warchol o stavolta c’era di mezzo una soffiata da parte di qualcuno bene informato?

Sono le 22 passate quando la situazione si sblocca grazie all’intervento di Luca Lepore, primo segretario all’ambasciata italiana con delega di funzione consolare: «Siamo a disposizione dell’Udinese per qualsiasi evenienza». Warley e Alberto possono raggiungere la squadra, che nel frattempo ha già ultimato la rifinitura, e sono pronti per giocare. Pierpaolo Marino è stravolto: «Il problema non è ancora risolto. Il vincolo del segreto mi impone di non rilasciare dichiarazioni. Quando sapremo qualcosa di più preciso saremo molto esaurienti, faremo un comunicato», sbuffa. Il figlio del patron Giampaolo Pozzo, Gino, si è precipitato sul posto per seguire la faccenda dal vivo.

Stando a una testimonianza raccolta invece dal “Corriere della Sera” i funzionari polacchi si sarebbero rabboniti ascoltando la spiegazione fin troppo sincera data dai calciatori: «Il nostro agente ci ha fornito i passaporti portoghesi falsi per aggirare la regola sportiva, così avremmo anche guadagnato di valore». Quindi, una volta accertata la veridicità di quelli brasiliani avrebbero detto “ok, passate pure allora”. Ma dal giorno successivo in poi, non appena messo piede sul charter per Udine, banditi dalla Polonia per cinque anni: decreto di espulsione.

Parentesi: il polacco Olisadebe

A dare un tocco di curiosità alla vicenda, peraltro, nel Polonia Varsavia giocano due che di polacco, almeno fisicamente, non hanno nulla di nulla. Solo il passaporto, che non è poco stando alla solerzia e allo zelo dei funzionari locali. Si chiamano entrambi Emmanuel, uno Ekwueme, il mediano, e l’altro Olisadebe, il bomber: e se il primo, pur col doppio passaporto, è rimasto a disposizione della Nazionale africana, il secondo è in quel periodo un calciatore sulla bocca di tutti, almeno in Polonia. Non solo perché è stato il protagonista della cavalcata vincente in campionato del suo club (seconda squadra della capitale dietro all’intoccabile Legia) con 12 gol: da pochissimo ha addirittura esordito con la maglia biancorossa della Nazionale.

Lui, Olisadebe, in mezzo a tutti quei colleghi con il cognome che finiscono in -ski o in -cki, con la sua pelle nera, in un Paese non proprio esempio di anti-razzismo, si è guadagnato la copertina del settimanale in inglese “The Warsaw voice”: titolo a nove colonne, “A dream come true”, “Un sogno che si è realizzato”. Un sogno, cioè, giocare per chi lo aveva accolto dopo essere scappato dalla Nigeria da ragazzo assieme alla famiglia.

Certo, per ottenere il passaporto c’era voluto anche un aiutino, che potremmo definire mai come in questo caso “molto italiano”. Arrivato al Polonia Varsavia dal Jasper United nel 1997 per una cifra vicina ai 300 milioni di lire, il caso aveva voluto che il suo allenatore di club, Jerzy Engel, quello con cui aveva vinto il titolo, fosse stato assunto come commissario tecnico della Nazionale. Guardando la sua rosa, Engel si era accorto che gli mancava proprio un centravanti: «E allora perché non naturalizziamo e convochiamo Manu Olisadebe?». Detto, fatto, dal primo luglio del 2000 in poi, passaporto con un iter super-accelerato e maglia da titolare della Polonia.

Pronti via e, due settimane prima della sfida all’Udinese, doppietta all’Ucraina nel primo incontro di qualificazione al Mondiale nippo-coreano, dove poi la Polonia andrà e verrà eliminata subito: anche in Asia, però, Olisadebe segnerà un gol, abbastanza inutile in sé ma fortemente simbolico, nel 3-1 rifilato agli Stati Uniti.

Proprio lui

Il giorno dopo, la notizia del fermo in aeroporto di Warley e Alberto trova pochissimo spazio, se non sui giornali sportivi. Con i due brasiliani tornati disponibili, però, De Canio opta per schierarli entrambi titolari nella formazione-tipo con cui l’Udinese scende in campo: Turci; Genaux, Sottil, Bertotto; Alberto, Walem, Giannichedda, Diaz; Fiore; Sosa, Warley. Dall’altra parte c’è Olisadebe al centro dell’attacco.

La partita è difficile, ma i friulani la portano a casa, e proprio con uno dei due protagonisti: punizione di Walem, sempre col solito sapiente piede sinistro, leggera deviazione di testa di un difensore polacco e zampata di Warley all’undicesimo del secondo tempo. Voto 7 in pagella: «Firma il successo liberandosi per una sera dall' incubo della patacca che qualcuno gli ha spacciato per passaporto. Se attraversa indenne i suoi incubi, può diventare l’Amoroso del futuro».

Ripensando al funzionario dell’aeroporto di Varsavia che lo aveva lasciato andare il giorno prima, una bella beffa per i polacchi. Avesse insistito di più, il brasiliano non sarebbe sceso in campo e il risultato, chissà, sarebbe stato diverso. I due calciatori dell’Udinese hanno anche ricevuto un telegramma dall’Italia, proprio da Juan Sebastian Veron, l’altro collega coinvolto in questa storiaccia dei passaporti: «Con tutti questi documenti, non si capisce più nulla, vi sono vicino».

Rimane lo spavento, comunque, e una gatta da pelare per l’Udinese. Cosa fare adesso col doppio passaporto di Warley e Alberto? «Sono sconcertato e contento, ho vissuto delle ore bruttissime, con una sensazione mai provata prima – si sfoga l’attaccante nel dopo-gara –. Mi sono sentito male e ho pianto. Mia madre e mio padre mi hanno dato un'educazione, ho vissuto nel rispetto delle regole, non ho mai lontanamente pensato di trovarmi nei panni del colpevole». E aggiunge: «Non ho più il passaporto comunitario, meglio così. Mamma mia, non voglio più ripetere un'esperienza del genere. Io adesso sono brasiliano e basta. Mi sento usato, preso in giro: è naturale. Non so se cambierò i manager. Voglio stare due o tre giorni tranquillo, a pensare. Poi vedremo».

Già, i manager. O meglio, il manager, perché è una persona sola che ha curato gli interessi di Warley, che forse per il ruolo più visibile che occupa in campo diventa l’uomo-copertina del pasticciaccio: il suo procuratore è Juan Figer, un vecchio marpione del calcio sudamericano, in mezzo a oltre mille trattative compresa quella tragicomica di Luis Silvio Danuello alla Pistoiese nel 1980. È stato lui ad architettare la creazione dei passaporti taroccati o l’Udinese? O entrambi, in accordo segreto, sperando di non farsi beccare?

Quando i friulani tornano in Italia i due giocatori “spariscono”. Warley con una certa fretta finisce ceduto in prestito al Gremio per un miliardo e no, non diventerà “il nuovo Amoroso”. Qualcuno parla apertamente di fuga, l’Udinese ribatte spiegando che l’interesse del club brasiliano era precedente allo scandalo, ma lo stesso attaccante lascia lì una frase abbastanza equivoca: «Ho fatto di tutto per restare, ma non è stato proprio possibile».

Anche Alberto (che comunque rimarrà in Friuli fino al 2005, quando verrà ceduto al Siena) appena rimesso piede in Italia vola in Brasile per mettere il visto al suo passaporto portoghese. Favorito anche dall’inizio ritardato del campionato per via dell’Olimpiade di Sydney può fare le cose con relativa calma e presentarsi ai nastri di partenza della Serie A.

Pezzi grossi

C’è comunque la giustizia sportiva che è pronta a intervenire, oltre a quella ordinaria. Saltano fuori altri due passaporti portoghesi finti dell’Udinese, quelli del paraguaiano Da Silva e di un altro giovane brasiliano, Jorginho, tutti spaventatissimi quando vengono chiamati a testimoniare. Lo scandalo si allarga a macchia d’olio tra pesci piccoli (tre Primavera della Sampdoria: Job, Ondoa e Zé) e grossi, molto grossi: su tutti, Alvaro Recoba dell’Inter, Gustavo Bartelt e Fabio Junior della Roma e Dida del Milan. Oltre a Veron, naturalmente, il capostipite.

È “Passaportopoli”, che ai club costerà robuste pene pecuniarie (3 miliardi di lire all’Udinese, unica a pagare per responsabilità diretta, e 2 a Inter e Lazio) e nessun punto di penalizzazione, mentre ai giocatori e ai dirigenti squalifiche, molte scontate a campionato fermo, o inibizioni. Qualcuno, come Recoba e Lele Oriali (responsabile dell’area tecnica dell’Inter), si vedrà condannare anche dalla giustizia ordinaria: 6 mesi patteggiati per concorso in falso e ricettazione e trasformati in una multa da 21mila euro. Anche il portiere milanista Dida, sempre iscritto come extracomunitario pur avendo un passaporto portoghese (falso) ne uscirà con 7 mesi di reclusione di condanna mai scontati per via della condizionale.

Perché non sono stati dati punti di penalizzazione in classifica, allora, come si sono chiesti in molti nel corso degli anni? La risposta è nella Decisione del 4 maggio 2001, quando la Corte Federale dichiarerà illegittimo l’art. 40, 7° comma, delle Norme Organizzative Interne della Federcalcio nella parte in cui prevedeva che soltanto tre dei calciatori tesserati e provenienti da paesi extracomunitari potessero essere utilizzati nelle gare ufficiali in ambito nazionale.

In sostanza, ve lo ricordate il “caso Nakata”? Quando di punto in bianco venne deciso che una squadra poteva schierare in campo tutti i cinque extracomunitari della propria rosa; una rivoluzione, peraltro, a due giorni dallo scontro diretto per lo scudetto tra Juventus e Roma (poi finito 2-2 con l’apporto decisivo del giapponese, che di solito veniva lasciato fuori in quanto extracomunitario “di troppo”). Ecco, grazie a quel mezzo pastrocchio, più che altro perché le regole venivano cambiate in corsa, ai club coinvolti in “Passaportopoli” non erano state date penalizzazioni in punti.

L’Udinese, comunque, dopo aver eliminato il Polonia Varsavia, uscirà dalla Coppa UEFA al secondo turno contro il Paok Salonicco. Eppure rimane ancora oggi nell’immaginario collettivo come la squadra da cui è partito uno degli scandali più tristi del calcio italiano, spesso citato dai tifosi delle squadre non coinvolte per rinfacciarsi altre attività poco lecite.

Passaporti falsi, trucchetti per aggirare le regole, situazioni losche o comunque non chiare in un mondo, quello del calcio, che ancora fatica a uscire dal tunnel di certi vizi. Come detto da Careca, ex attaccante del Napoli scudettato di Maradona, chiamato in causa in “Passaportopoli” nel 2001 per Jeda e Dedé finiti al Vicenza dal suo Campinas, c’era addirittura un prezziario: «Di quei passaporti, costati 22 milioni, si era occupata un'agenzia di San Paolo. Come avrei potuto insospettirmi?».

Qualche settimana fa è toccato a Luis Suarez, che “col suo stipendio da 10 milioni” doveva passare l’esame di italiano livello B1, in circostanze poco trasparenti, all’Università per stranieri di Perugia, con la Juventus tirata in ballo. Senza la solerzia di un funzionario polacco, vent’anni fa, chissà cosa sarebbe successo.

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