Prima che il progresso e la tattica lo relegassero tra le scienze quasi esatte, in quegli anni di legno e budello, di tartan e terra rossa, di calli vesciche e tafani, ancor prima dell’avvento del Gatorade, io vivevo per il tennis. In una vetrina del centro abitavano le scarpe di Ivan Lendl, un cecoslovacco piuttosto antipatico poi naturalizzatosi americano. Tanto era insopportabile il gesto ripetitivo di sfilarsi le ciglia dagli occhi – nulla a che vedere con le odierne ossessioni motorie di Nadal, e il suo rito delle bottigliette perfettamente in asse – quanto incredibile era la sua corsa verso sinistra, alla fine della quale braccio e spalla producevano un passante di rovescio che era un trattato di balistica.
Per chi ha almeno 50 anni, Ivan Lendl è quello che nel 1989 venne irriso a Parigi da Michael Chang, un piccoletto disidratato afflitto dai crampi che gli batteva da sotto, aspettava il servizio in mezzo al campo e lo riempiva di palle corte; un diciassettenne dai tratti orientali che fece fare ad Ivan il Terribile la figura del fesso, diventando il più giovane vincitore di un Grande Slam.
Quel negozio, dicevo, era l’unico che vendesse le scarpe di Ivan Lendl. In vetrina potevi sognarle anche dopo l’orario di chiusura, passandoci davanti al tramonto per salutarle, fare un cenno da dietro ai vetri con la mano, oppure, confidando nel labiale, promettere loro che un giorno le avresti portate via, via con te. Quel negozio era l’unico che aveva tutti i numeri, anche i mezzi numeri, così il tuo alluce non premeva, il tuo tallone non soffriva, la sudorazione non esagerava, il tuo io interiore se la passava bene e l’Universo e le stelle erano in armonia con tutti gli esseri viventi e con le piante (anche quelle dei piedi).
L’uomo dal capello brizzolato, in quel negozio, non era un normale rivenditore di articoli sportivi, ma il proprietario di una boutique della calzatura; sulla parete più lontana aveva eretto una montagna di scatole blu a strisce bianche, compatte, ordinate come mattoni, simmetriche come foreste di pini, belle come un deposito di dolciumi, eleganti come un deposito di dolciumi eleganti; dentro il negozio perfetto, lui, sincronizzato col progresso tecnologico e così dolcemente logorroico, ti spiegava com’era fatta la scarpa strato per strato, ti illustrava il sistema di ammortizzazione del plantare, il tipo di cucitura della tomaia, i rinforzi che permettevano al collo del piede di non scivolare all’interno, il materiale innovativo che teneva insieme i lacci.
E poi le corde, per le quali, se avesse potuto, ti avrebbe mostrato gli appunti di chi ci aveva lavorato. Se non fosse che uno, a un certo punto, era costretto a fingere di avere fretta per via della cena pronta a casa, lui, per spiegarti le corde, avrebbe scomodato la fisica nucleare se soltanto avesse intuito che sapevi di fisica nucleare almeno un po’. Sul bancone, brochure dell’azienda produttrice e immagini della corda in sezione, dalle quali dedurre come facesse, quell’innovativo fascio di fibre sintetiche, a reggere tensioni così alte. E se al tempo avesse avuto internet, l’uomo del negozio, avrebbe recuperato i nomi dei progettisti, gli indirizzi di casa e i nomi dei figli, l’ideale politico, le intolleranze alimentari e le carenze vitaminiche. In tempi in cui la supervista di Google Earth era disponibile a pochi (forse solo a Superman), se solo gliel’avessi chiesto, l’uomo del negozio avrebbe scovato Totò Riina prima del capitano Ultimo.
Quel signore sapeva tutto delle scarpe, tutto delle corde e tutto del tennis, perché nel tennis (dietro le quinte) ci aveva lavorato. Bendato, poteva smontarti e rimontarti una racchetta, incordarne una girato di spalle (come Keith Emerson con l’Hammond), distinguere al tatto una Tepa Sport da una Superga soltanto dai lacci, un’Adidas da un’Addas – ma quello era facile, l’Addas aveva quattro sfigatissime strisce; poteva capire dallo stato di deterioramento del manico se eri destrorso o mancino, uomo o donna, se giocavi in back o in spin; dall’usura di una palla avrebbe capito se eri un brocco oppure avevi delle speranze.
Quell’uomo avrebbe potuto dirmi tutto quello che voleva, ma per il solo fatto che stava per vendermi le scarpe di Ivan Lendl – quelle esposte in vetrina, il nostro nido d’amore, dove le avevo corteggiate, sedotte, amate alla follia, certo che un giorno sarebbero state mie – io, quel signore, sarei stato ad ascoltarlo anche tutto il giorno senza mangiare. Perché la sezione della corda, gli strati della suola, il telaio della racchetta, e tutti i relativi incomprensibili coefficienti numerici passavano davanti ai miei occhi come sottotitoli in italiano di un film in italiano.
Io ero lì per quelle scarpe perché ne ero innamorato, perché se mi avessero detto che le aveva disegnate Raffaello tra una pala e l’altra, ci avrei creduto; perché se mi avessero detto che le assemblavano alla Apple di Cupertino, dove secondo me decidono che forma ha la felicità e poi la mettono sul mercato, sarei andato a guardarmi l’assemblaggio, come un padre che assiste al parto.
Sono stato un perdente, nel tennis. Mi mancava quella dote di chiamare «no» quando la palla è dentro, di mettere a posto le corde mentre l’altro alza per battere, o quell’altra di far decollare palline al cielo quando il tuo avversario è nel pieno della trance agonistica, è una spanna sopra di te, e ti sta dando una lezione. C’è chi, con mezza parola detta, raddrizza la partita; c’è chi sul segno lasciato dalla palla ci passa sopra con la suola, e poi fa quell’espressione da gattino arruffato che hanno solo i traditori seriali. Io, in campo, ci scendevo soltanto per inseguire la bellezza del colpo, per ascoltare l’impatto con la pallina, quel suono che non so come si scrive, che non è «bang», non è «ciack» e nemmeno «paf»; so soltanto che assomiglia alla lingua che schiocca (l’ho cercato il termine, ma non l’ho trovato. Immaginatelo scritto come vi pare).
Sono stato un perdente, dicevo. Non giocavo per vincere, ma per provare e riprovare sino allo stremo il passante in corsa di rovescio di Ivan il Terribile. Ero lì per la bellezza delle righe appena pulite, per l’eco della palla sotto il «pallone», per la terra rossa che macchia le calze quando la partita non finisce più, nell’infinita sfida tra te e quello stupido di te stesso che ha appena sbagliato tutto e deve ricominciare da capo; ero lì per i cambi di campo, quando la sete ti divora e una bottiglia nascosta nell’ombra aspetta soltanto un misero, ultimo quindici; ero lì per la palla che sbatte sul nastro e ricade dall’altra parte, ma anche per quella che, merda, resta dalla tua. Ero lì perché ogni tanto, malgrado ancora non ne comprendessi la funzione sociale, una figura femminile si sedeva sulla panchina del circolo e invece di addormentarsi mi sorrideva. Ero lì perché in fondo, a me, di tutto il resto, mi fregava meno di niente: io avevo le scarpe di Ivan Lendl.