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La sconfitta più dura di Roger Federer
27 ott 2021
Un estratto da "Roger Federer è esistito davvero", in uscita per 66thand2nd.
(articolo)
8 min
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Pubblichiamo un estratto del libro "Roger Federer è esistito davvero", di Emanuele Atturo, in uscita il 28 ottobre per 66thand2nd. Si può ordinare sul sito della casa editrice, qui.

Ed eccoli qui, di nuovo uno contro l’altro, a offrire agli spettatori l’unica cosa che volevano, il Fedal. Nel momento storico in cui il cinema si dedica ai franchise, Federer-Nadal giocano il loro ennesimo reboot. Come nei classici, le persone sanno cosa aspettarsi, ma questo non riduce la straordinarietà dello spettacolo. Quasi finivamo per dimenticarci che si tratta della prima finale di Nadal sul cemento, la superficie che portava il dolore del suo corpo oltre il limite di sopportazione. Ci era arrivato senza nascondere una certa fatica. In semifinale gli ci erano voluti cinque set per spuntarla su Fernando Verdasco. Un altro spagnolo mancino dal colorito olivastro e il fascino mediterraneo. Una specie di suo clone malriuscito. Rafa sfrutta l’occasione per mettere pressione al suo avversario: «Roger ha giocato solo tre set e ha avuto un giorno di riposo in più quindi certo, è lui il favorito, ma farò del mio meglio» (gli Australian Open in quel momento erano l’unico Slam in cui le due semifinali maschili si giocavano in due giorni diversi). Non c’era certo bisogno di aggiungere pressione: Federer aveva vinto 8 finali su 8 sul cemento, ma sa di aver davanti un uomo nato per rompere questo tipo di record.

Perde il primo set 7-5, ma vince il secondo 6-3 ed è tutto in equilibrio fino al 4 pari nel terzo set. In quel momento, sul servizio di Nadal, Federer riesce a portarsi 0-40. Giunti a quel momento ha convertito solo 4 palle break su 11, mentre il suo avversario, come sempre, è stato spietato: 4 su 5. Essere 0-40 però gli o re un margine che potrebbe essere sufficiente persino per la sua patologica tendenza a buttare tutto all’aria. Nadal annulla la prima con un rovescio aggressivo; Federer abbassa la testa e si soffia sulla mano. Non è un suo tic, ma il clima è incandescente. Nadal annulla la seconda palla break dopo due dritti aggressivi; Federer guarda le corde della racchetta, non c’era niente che avrebbe potuto fare diversamente finora. Sulla terza palla break Nadal prova un servizio al corpo, ma esce corto sul dritto di Federer: una battuta così brutta non se l’aspettava, e forse per quello butta la risposta a rete. Ci risiamo. Federer però viene a capo della sua frustrazione, e nel game di risposta successivo ottiene altre due palle break consecutive portandosi 15- 40. E dopo che Nadal gliele annulla tutte e due, ne ottiene un’altra ai vantaggi, e si fa annullare pure quella. Sembra una barzelletta. In ogni partita contro di lui Nadal riesce a innalzare miracolosamente il proprio livello di gioco nei punti importanti, mentre Roger è falloso e deconcentrato. Alla fine di quel terzo set il livello di gioco è a uno di quei picchi irreali ormai classici del Fedal. Rafa spinge sul rovescio di Roger, Roger spinge sul dritto di Rafa. Ogni punto viene scandito da un vincente, ma Roger ha cambiato leggermente strategia: accetta meno il pugilato da fondo, cerca di variare soprattutto dal lato del rovescio, con soluzioni di volta in volta più creative. Federer ora deve servire per portarsi al tie break ed è avanti 30-15 quando si presenta a rete su un attacco solido. Gli arriva un passante giocabile ma, assecondando un gusto estetico a cui ogni tanto cede, Roger gioca una strana stop-volley smorzata che cade troppo lunga. Quasi non ci crede, mentre Nadal corre a prenderla e tira un passante stretto e forte, ma a quel punto Roger ha uno di quei riflessi felini che infilano le sue discese a rete contro Rafa in una cornice da scherma. La palla ricade all’incrocio delle righe, ma è dentro o fuori? Federer alza la testa per guardarla, Nadal prega. Il giudice di linea la chiama buona, Rafa chiama il challenge, che gli dà ragione. È fuori di un capello. Siamo 30 pari. Nel punto successivo Federer concede palla break dopo un errore di dritto, che è anche un set point. Dopo aver avuto cinque occasioni per togliere il servizio a Nadal, sarebbe atroce perderlo alla prima palla break. Riesce però ad annullarla e a portarsi al tie break dopo alcuni miracoli, fra cui uno «strettino» di rovescio morto al secondo rimbalzo prima che Rafa potesse arrivarci.

Nel tie break, sul 3 pari, Federer commette un brutto errore e comincia a sentire la tensione. I muscoli si irrigidiscono e il giocatore più fluido e morbido del circuito diventa un blocco di pietra quando commette il doppio fallo che lo porta sotto di un set. Il primo doppio fallo della partita, e ha scelto il peggior momento per commetterlo. Non è una partita thriller come la finale di Wimbledon, ma i colpi di scena sono comunque all’altezza delle aspettative. Nel quinto gioco del quarto set Federer deve fronteggiare due palle break, e come aveva già fatto a Wimbledon sembra aver bisogno di finire a un passo dal baratro per darsi la spinta. Le annulla entrambe, una con un sontuoso rovescio lungolinea, un’altra correggendo con un challenge un overrule del giudice Pascal Maria su un colpo lungo di Nadal (l’overrule è una correzione che l’arbitro di sedia fa su una chiamata del giudice di linea). Federer lo guarda a muso duro: «Se fai overrule devi essere sicuro di quello che fai». A livello nervoso è più presente. In quel game si gioca uno dei punti più incredibili della loro rivalità. Federer attacca tre volte sul lato del dritto di Rafa, e quello per tre volte, coi piedi diversi metri oltre la riga di fondo, fuori equilibrio, prova il controvincente lungolinea. Un tipo di colpo suo e solo suo, un glitch del matrix. I colpi di Nadal alzano il volume e crescono di intensità in proporzione all’aggressività dell’avversario, come in una gara di assoli di chitarre in un concerto heavy metal. Al terzo dritto in allungo, il più di difficile ed estremo, gli riesce. Ma Federer poi annulla anche quella palla break. Si arriva a otto parità in totale, in quel game in cui Federer per una volta ribalta i ruoli: è lui a resistere al break di Nadal, a giocare meglio quando deve salvarsi. E questo gli dà grande fiducia. Chiude il set 6-3 e concede al pubblico estasiato un altro quinto set. Il secondo consecutivo dopo quello della finale di Wimbledon. Il livello della lotta però, in quel set, non rispetta i loro standard, soprattutto per colpa di Roger. All’improvviso ha l’aria stanca e appannata. La pallina sembra più piccola, la sua faccia più tirata, i suoi colpi troppo in anticipo o troppo in ritardo, fuori di pochi centimetri o di qualche metro. È sotto 5-2 ed è al servizio quando comincia a concedere i primi match point. È nervoso, lotta per inerzia, ne annulla un paio e cede al terzo dopo qualche altra litigata con Pascal Maria che pare giusto prolungare l’agonia.

Federer era forse il miglior giocatore di tennis, ma di certo non era il miglior lottatore, quello più disposto a soffrire, a dare fondo alle proprie risorse. Vince chi è più pronto ad attraversare il dolore e la fatica materiale di una partita di tennis per farne lo spettacolo della propria resistenza; chi nel microcosmo esistenziale di una partita rimane saldo nelle proprie convinzioni. È la morale ultima di Nadal su un campo da tennis, di erba, di terra o di cemento. «Un uomo per tutte le superfici» lo acclamano. È uscito definitivamente dallo stereotipo dello spagnolo terraiolo monodimensionale. È la sua più grande vittoria. Federer è affranto e forse nella sua testa cominciano a rincorrersi le voci dei suoi detrattori, comincia a proiettare su quella sconfitta significati troppo grandi. C’è di nuovo Rod Laver alla premiazione, l’uomo di fronte a cui Federer si era già sciolto in lacrime. Ma le lacrime di quella sera sono completamente diverse. Mentre ha il piatto dello sconfitto in mano ed è davanti al microfono qualcuno grida «I love you Roger!». Lui sospira forte e ci prova a trattenersi e a sciogliersi nel solito, neutro linguaggio diplomatico, ma le parole non vengono. E a un certo punto gli vengono quelle sbagliate, quelle che forse avrebbe preferito tenere per sé: «God, it’s killing me». La virgola è mia, naturalmente, perché è così che l’ho intesa, ma nei giorni successivi, e poi nella sua storia, sono state lette senza: un’invocazione diretta di Dio. Forse viene naturale ricoprire i discorsi di Federer di una particolare solennità. Immaginarlo in un dialogo di amore e odio con Dio, che in quel momento pare avergli dato un dono speciale solo con la promessa della sua pena. Farlo ascendere al punto più alto solo perché poi la caduta sarà più dolorosa. Roger stringe per un attimo il pugno sulla fronte e singhiozza, piange davvero, piange forte di fronte a un microfono. Pochi uomini di sport sono stati capaci di mettere a nudo la propria debolezza in maniera così personale. Attraversa il dolore e lo offre in dono al suo pubblico come parte del teatro morale dello sport. I tifosi lo stringono in un caloroso abbraccio di applausi e in mezzo a loro Mirka si porta la mano alla bocca. Rafa Nadal ha l’aria atterrita. All’improvviso non eravamo più di fronte al suo trionfo, ma soprattutto davanti alla sconfitta di Roger, ai suoi significati, alla sua profondità. Roger deve fermarsi per un attimo, asciugarsi le lacrime, farsi da parte e lasciare spazio al vincitore. «Campione del Roland Garros, di Wimbledon, medaglia d’oro olimpica e adesso campione d’Australia, il numero uno al mondo, Rafa Nadal». Mentre sale le scale del palco Federer gli dà una pacca di dolcezza, forse di scuse per aver trascinato lo stadio in quello stato emotivo. Rafa alza il trofeo con straordinario contegno e per prima cosa va ad abbracciare Roger. È un’immagine di sport debordante: Nadal consola il suo rivale eterno, e non sembra solo riconoscerne la grandezza sportiva, si prende cura di lui e della sua sofferenza. Rimane lì per un po’, lo stringe come si fa con una parte di sé che vive in un altro corpo, il suo riflesso impossibile. La vittoria e la sconfitta ridotte a due semplici impostori.

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