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La seconda volta di Kyrie Irving
06 dic 2017
Il passaggio ai Boston Celtics ci ha mostrato un uomo e un giocatore nuovo?
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11 min
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Maddie Meyer/Getty Images
(copertina) Maddie Meyer/Getty Images
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Non è mai facile descrivere un uomo per quello che è realmente, e per questo motivo è molto più semplice partire da cosa non è più, riducendo così il campo del possibile. Ma dire chi sia Kyrie Irving oggi resta comunque più complicato rispetto ad altri casi, anche perché stiamo parlando di un uomo che è cambiato enormemente nell’ultimo anno, più di quanto fosse lecito aspettarsi da un ragazzo che ha ancora solamente 25 anni.

Innanzitutto partiamo dalle cose facili: Kyrie Irving non è più un giocatore dei Cleveland Cavaliers. Quest’estate ha richiesto di essere scambiato, facendo capire che voleva andarsene per essere il leader indiscusso di una nuova squadra. Uno dei motivi principali per cui non voleva restare era perchè non aveva più intenzione di giocare con LeBron James, cosa che dal 2011 ad oggi significa andare alle Finali NBA, il corrispettivo cestistico di vincere un “Turista per sempre”.

Al di là dello stupore suscitato in pieno luglio, la richiesta di essere scambiato non solo ci dice molto su cosa significhi giocare con James per lungo tempo, ma soprattutto mostra quello che è il carattere di Irving: in una lega dove i migliori giocatori si uniscono formando “super team” per avere più possibilità in più di arrivare alla Finals, lui è andato in un’altra direzione, cercando di allontanarsi dalla superstar più influente degli ultimi 10 anni. Che vinca o perda lo vuole fare alle sue regole, senza compromessi, a rischio di fallire — anche se avere già un titolo in bacheca a 25 anni comunque aiuta a prendere certe scelte. Su questo è evidente l’influenza che il suo giocatore preferito e mentore ha avuto su di lui. Così come Kobe Bryant aveva avuto il bisogno di dimostrare di poter vincere anche senza Shaquille O’Neal, così Irving ha sentito la necessità di dimostrare di essere in grado di fare lo stesso senza James — ma questa volta, invece di spingere per la cessione del compagno come fatto da Kobe, è stato lui stesso a chiedere di andarsene. Irving viene così scambiato con i Boston Celtics in cambio di Isaiah Thomas, Jae Crowder, Ante Zizic e la scelta 2018 dei Brooklyn Nets, andando a formare i suoi Big Three insieme ad Al Horford e Gordon Hayward.

Nella prima conferenza stampa da giocatore dei Celtics, però, Kyrie non ha mostrato alcun rancore, né per James — con cui comunque non si è consultato prima della sua decisione — né per nessun altro all’interno dei Cavs, ma ha invece incentrato il discorso su se stesso e su come questa fosse la scelta migliore per la sua carriera. Esprimere a pieno il suo talento era più importante che vincere nell’immediato, e Boston sembrava garantirgli il miglior contesto possibile per farlo. Ed è vero: pur non essendo una delle squadre a cui Kyrie aveva chiesto di essere scambiato (una mini-lista che comprendeva San Antonio, Minnesota, Miami e New York), i Celtics offrono uno dei migliori allenatori della lega in Brad Stevens e una squadra reduce da un’eccellente stagione, con un ambiente giovane e due All-Star come Horford e Hayward. Soprattutto, Boston gli dava la possibilità di ricoprire il ruolo di leader che non avrebbe mai potuto avere con LeBron James nello stesso spogliatoio.

In verità molti erano scettici sulla trade. Al di là del trattamento riservato ad Isaiah Thomas, per i Celtics lo scambio si è rivelato piuttosto sanguinoso, visto anche quanto poco erano costati Paul George e Jimmy Butler solo poche settimane prima. L’impressione generale era che Boston avesse investito troppo per un giocatore che, lontano da LeBron James, non valesse poi così tanto. Ma il vero problema era un altro: nessuno credeva che Irving potesse essere davvero un leader emotivo prima ancora che tecnico perché in passato non aveva mai dimostrato di esserlo.

Il problema non è mai stato segnare questi tipi di tiri: è stato tutto il resto del suo gioco e del suo contributo in campo.

Prodromi

Irving era stato scelto al Draft del 2011 con la prima scelta assoluta dai Cavs che di fatto gli avevano affidato una squadra disastrata dopo la partenza di James — capace di perdere anche per 26 volte consecutive, un record ogni epoca pareggiato per una singola stagione. Il prodotto di Duke non aveva però deluso vincendo il titolo di Rookie dell’Anno e dimostrando una certa predilezione per i finali di gara tirati (ad esempio, scherzo del destino, realizzando uno dei primi canestri della vittoria in carriera proprio sul campo dei Boston Celtics), ma il record a fine stagione non era particolarmente migliorato. Le due stagioni successive avevano confermato la bontà del suo talento — pur con qualche problema fisico di troppo — e l’inclusione universale tra i migliori giovani della lega: era stato infatti invitato all’All-Star Game del 2013 e 2014, peraltro vincendo il premio di MVP nella sua seconda apparizione.

Ma la situazione, nella sostanza, non era cambiata: Kyrie come leader stupiva ma non convinceva, dato che in tre anni aveva vinto appena 78 partite e la squadra si ritrovava perennemente nei bassifondi della lega, complici anche delle pessime scelte al Draft come quelle di Dion Waiters (con il quale ha avuto più di uno scontro) e Anthony Bennett (il cui nome invece è già destinato all’infamia). Ciò nonostante, i Cavs avevano deciso di puntare su di lui come uomo-copertina del post-LeBron e così nel 2014 Irving aveva firmato un contratto quinquennale che lo aveva reso il nuovo volto della franchigia.

Tutto questo è durato un attimo. Pochi giorni dopo infatti James ha lasciato Miami con due anelli al dito ed è tornato a casa per portare a termine ciò che aveva promesso: vincere un titolo per la sua città. Inutile dire che questo ha cambiato non poco le carte in tavola per Kyrie: finalmente in una squadra vincente, anche grazie all’arrivo di Kevin Love, ma subito detronizzato del ruolo che pensava di essersi guadagnato lavorando come un pazzo sin da bambino, quando scriveva alla maestra che da grande sarebbe diventato un giocatore NBA e continuando a convincersene allo sfinimento, scrivendosi pagine e pagine sulle note dell’iPhone per auto-motivarsi.

Come sappiamo, LeBron ha poi guidato i Cavs a tre finali NBA consecutive e allo storico titolo del 2016, deciso da un tiro di Irving per spezzare la parità ma costruito in larga parte sulle spalle di James. Ma anche in quegli anni quando Kyrie ha dovuto prendere in mano la squadra da solo — con LeBron seduto in panchina o tenuto a riposo — non si è mai rivelato all’altezza del compito, vincendo solo 4 delle 17 partite disputate senza il Re. È a questo punto che i dubbi sulla sua capacità di leadership si sono fatti più pressanti, perché se prima il problema era stato attribuito all’inesperienza e al pessimo ambiente in cui stava giocando, con James al fianco non era più possibile farlo. I dati parlano chiaro anche in termini di Net Rating e rispecchiano ovviamente quello che è sotto gli occhi di tutti: Cleveland giocava meglio senza Irving che senza LeBron, ma soprattutto Kyrie senza James non aveva dimostrato di saper vincere. O almeno questo era quello che si credeva. Per questo motivo lo scambio con Boston — evitandosi peraltro una stagione di continue domande sulla possibile permanenza di James a Cleveland, visto il contratto in scadenza a luglio 2018 — era l’occasione perfetta per il suo addio e il suo riscatto.

Homo Novus

Ma l’Irving che è arrivato in Massachussets non è quello che ci si aspettava, anzi. Non solo si è presentato fisicamente diverso — senza barba, dimagrito dopo aver abbracciato la dieta vegana e con un nuovo numero di maglia, l’11 dei tempi del liceo — ma non ha mostrato nessun segno di sfrontatezza per il suo nuovo ruolo: lui stesso non si è definito il leader di questi Celtics ma solo “uno dei tanti”, uscendo completamente dal personaggio di “Uncle Drew” che si era costruito nei primi anni di carriera. Più in generale ha cercato di non attirare l’attenzione su di sé, al punto da creare una specie di alone di mistero intorno al proprio mondo, soprattutto nella suo modo di relazionarsi con i media.

Non faccio riferimento solo alla celebre questione della “Terra piatta” — che ha comunque smentito recentemente, spiegando come in realtà il suo fosse un esperimento sociale per dimostrare come i media si accaniscano con chiunque la pensi diversamente. Piuttosto mi riferisco al fatto che abbia iniziato a parlare per enigmi, rispondendo ermeticamente a qualsiasi domanda. L’intervista che ha rilasciato a First Take è forse il manifesto del nuovo Irving: nel posto peggiore dove farsi intervistare, Kyrie ha schivato qualsiasi colpo gli sia arrivato rispondendo a Stephen A. Smith nel modo più vago e criptico possibile, arrivando addirittura a dire di «non possedere un ego» ma di avere «una presenza ed un’aura molto basate sulla realtà». Quando è stato incalzato con domande più pressanti, ad esempio se si sentisse pronto a gestire il clamore e le distrazioni dovute alla sua scelta di essere scambiato, Kyrie ha risposto dicendo che in quella domanda «non c’era nulla di basato sulla realtà», e che comunque i Celtics erano esistiti anche prima che arrivasse lui a Boston. Per tutta la durata del colloquio Irving si è preso gioco dei suoi due intervistatori come dei suoi avversari in campo nei finali di partita mentre cercano di limitarne l’avanzata in palleggio verso il ferro.

La sua presenza tra i migliori crossover del mese è ormai data per scontata

Il miglior Kyrie di sempre?

Non so perché si comporti così, né se questo suo nuovo modo di porsi dimostri una maggiore maturità: quel che rimane però è che i fatti parlano chiaro e in campo ha fatto davvero un salto di qualità. All’inizio della stagione Boston ha deciso di non eleggere un capitano proprio per dare più importanza al gruppo e, complice anche l’infortunio di Gordon Hayward, Kyrie si è ritrovato con un maggiori responsabilità sulle spalle, rivelandosi però all’altezza del compito: ha guidato i Celtics a sedici vittorie consecutive e al miglior record della lega vincendo delle partite anche quando la sua co-stella rimasta, Al Horford, ha dovuto riposare. E anche riconoscendo a tutti gli altri l’innegabile peso che hanno avuto in questa striscia, è impossibile non dargli i suoi meriti per un primo quarto di stagione ben al di sopra delle attese.

È ancora presto per parlarne, ma in queste 25 partite Irving ha probabilmente giocato il miglior basket della sua carriera. Per 100 possessi, Kyrie ha un rating offensivo di 116 e uno difensivo di 102 punti - i suoi migliori dati di sempre secondo Basketball-Reference, soprattutto quello in difesa visto che a Cleveland aveva in media di 109, ben sotto gli standard della lega. Molto del merito di queste cifre va al contesto di gioco creato da Stevens, che è riuscito ad inserirlo da subito nel suo sistema per poi disegnarlo maggiormente attorno a lui dopo l’infortunio di Hayward, e molto va anche ai suoi nuovi compagni che lo stanno mettendo nelle condizioni ideali per eccellere. In particolare l’intesa che si è creata con Horford è stata fondamentale su entrambi i lati del campo: Horford è il suo compagno ideale per i pick and roll e i pick and pop, ma soprattutto lo guida difensivamente attraverso i blocchi (sui quali ancora ogni tanto si perde) e i cambi muovendolo come con un joystick, coprendo poi i suoi eventuali errori con rotazioni perfette. Non è un caso se il Net Rating di Irving è di +10.4 insieme a Horford e invece crolla a -10.4 quando il domenicano non c’è.

Detto questo, il gioco di Irving sembra più completo sotto ogni punto di vista: in attacco ha dimostrato di saper creare per i compagni cercando spesso anche extra pass, e si è fatto carico del peso dell’attacco soprattutto negli ultimi minuti di gara, dove è tra i migliori dell’intera lega vincendo alcune partite quasi da solo, accendendosi come un candelotto di dinamite e facendo esplodere le difese avversarie in una sequenza di palleggi ubriacanti e angoli impossibili in sottomano.

Un esempio sui malcapitati Dallas Mavericks.

È stato però in difesa — l’aspetto del suo gioco che gli veniva maggiormente criticato — dove si è vista maggiormente la crescita mentale che Irving ha fatto, rivelandosi così non solo un difensore in grado di reggere l’uno contro uno, ma anche capace di migliorare sia sulle linee di passaggio per recuperare palloni (2.4 su 100 possessi, massimo in carriera) che nella presenza a rimbalzo (9.1% in difesa, il massimo negli ultimi tre anni). Boston ha la miglior difesa della lega perché ha in Al Horford, Jaylen Brown e Marcus Smart alcuni dei migliori difensori NBA, e per questo motivo non ha preteso che Irving si trasformasse nel difensore che non è mai stato, ma comunque l’ha messo in un ambiente che lo stimolasse a crescere. Esattamente ciò di cui aveva bisogno Kyrie per diventare quello che vuole diventare.

La stagione è ancora lunga e probabilmente i numeri di Boston torneranno alla normalità, specialmente nei secondi tempi. Soprattutto, gli equilibri di squadra cambieranno nella prossima stagione con il rientro di Hayward, per quanto l’ex Jazz sia estremamente bravo a nascondersi in piena vista. Ma per adesso Irving ha dimostrato di essere qualcosa in più di un semplice realizzatore e di non essere solamente un giocatore monodimensionale. Forse, finalmente, Kyrie Irving è davvero il giocatore e il leader che nessuno ha mai creduto potesse essere.

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