In una lega che mette in palio uno e un solo titolo, le squadre eliminate in finale di conference corrono il rischio di essere considerate “le prime delle perdenti”. Un risultato che per molti può essere considerato comunque un successo, visto che finire tra le prime quattro della stagione non può in nessun modo essere considerato un disastro, ma che per altri lascia comunque un retrogusto amaro in bocca — con i dubbi su come poter fare l’ultimo passo e andare a giocarsi tutto fino all’ultima partita della stagione. Boston e San Antonio si trovano nella difficile situazione di rappresentare le principali speranze della lega per contrastare il duopolio Golden State-Cleveland, ma allo stesso tempo il gap tra le due migliori squadre della lega e il resto della NBA non è mai apparso così ampio. Andiamo ad analizzare come Celtics e Spurs possono provare a colmarlo nel corso di questa cruciale estate.
Boston Celtics
I Boston Celtics si trovano in una situazione pressoché unica nella storia della lega. Mentre la maggior parte delle squadre, per tutta una lunga serie di motivi, si trovano a percorrere uno solo dei tre percorsi “classici” per migliorare una squadra — attraverso il Draft, la free agency o gli scambi —, il GM Danny Ainge si trova nell’incredibile posizione di poter scegliere liberamente uno qualsiasi dei tre percorsi che si trovano davanti ai suoi bianco-verdi. Ogni situazione però ha i suoi pregi e i suoi difetti, e questo rende le tre opzioni tanto affascinanti quanto difficili da prevedere a pieno.
Partiamo dai fatti: quando avevamo iniziato a parlare delle scelte difficili dei Boston Celtics, ci eravamo lasciati dicendo che comunque i playoff 2017 avrebbero avuto un peso decisivo per definire la base di partenza dei Celtics che verranno. Ora che la loro stagione si è conclusa con la sconfitta per 4-1 contro i Cleveland Cavaliers, Boston ha qualche certezza da cui ripartire e altre cose su cui deve necessariamente migliorare per lasciarsi indietro tutte le altre pretendenti e colmare il gap che la separa dai Cavs. Sotto la voce delle “certezze” ricadono la grandezza di Brad Stevens (ma su questo direi che c’erano pochi dubbi), il cuore & la grinta di questo gruppo (anche qui, zero dubbi) e il fatto che Isaiah Thomas può essere efficace nei playoff anche in condizioni estreme dal punto di vista mentale (per i motivi che tutti sappiamo) e fisico (pur alzando bandiera bianca in gara-2 contro i Cavs). Si possono anche aggiungere con un piccolo asterisco i playoff di Al Horford (quando i Celtics hanno giocato bene, il motivo è stato quasi sempre per una grande prestazione dell’ex Hawks) e la precisione al tiro della squadra (nettamente migliorata sino a un anno fa). In generale, i Celtics escono da questa stagione con la consapevolezza di essere la seconda miglior squadra a Est (e non era così scontato a inizio anno) e di avere un gruppo di giocatori che gioca “da Boston Celtics”, pur mancando palesemente del talento delle grandi squadre che hanno fatto la storia dei biancoverdi.
L’asterisco di cui parlavamo prima riguarda soprattutto la varianza che si è vista in questi playoff, perché Al Horford è comunque un giocatore con dei limiti ben riconoscibili a rimbalzo (cosa che viene sempre sfruttata dagli avversari) e la batteria di tiratori formata da Avery Bradley, Jae Crowder e Kelly Olynyk non ha nessun “knockdown shooter” (e i vari Marcus Smart o Jaylen Brown forse non saranno mai tiratori del tutto affidabili). Inoltre, le due serie vinte in questi playoff lasciano comunque dei dubbi sul fatto che i Chicago Bulls erano andati sul 2-0 vincendo entrambe le prime partite a Boston e che gli Washington Wizards erano riusciti a tirarla fino a gara-7 nonostante giocassero letteralmente in cinque contro la rotazione decisamente più lunga e varia a disposizione di Stevens.
Il roster dei Celtics è buonissimo, ma è formato da giocatori che sarebbero incredibilmente più validi con un ruolo di supporto e non di primo livello. Come detto da Brian Windhorst nell’ultimo podcast con Zach Lowe, Avery Bradley sarebbe incredibile se fosse il quarto/quinto miglior giocatore di una squadra da titolo, e lo stesso di può dire dei vari Smart / Crowder / Brown / Rozier / Olynyk ecc… Solo che per come si trovano strutturati gerarchicamente, dietro alla coppia Thomas/Horford tutti questi giocatori si trovano uno o due gradini sopra quello che dovrebbero occupare in una “normale” squadra da titolo. La cattiva notizia per i Celtics è che procurarsi le stelle sul mercato NBA è la cosa più difficile che ci sia; quella buona è che hanno i tre percorsi di cui sopra per aggiungerne una o due e dare veramente l’assalto al trono di King James.
The end of the season.
Andando con ordine: la via del Draft è quella che sblocca le altre, nel senso che dalla decisione che verrà fatta con la prima scelta assoluta vinta nell’ultima Lottery dipenderà a cascata il resto dell’estate dei Celtics. La tesi più conservativa vede i Celtics tenere la scelta e andare su Markelle Fultz, nettamente il miglior talento del Draft che può assicurare alla franchigia 9 anni (i 4 da rookie e i 5 del primo contratto serio) ad altissimi livelli, di fatto scegliendo di “aspettare” che la mareggiata di LeBron James passi per essere pronti non appena tornerà a splendere il sole sulla Eastern Conference. Dall’altra però la possibilità di scegliere un giocatore del genere al Draft fa inevitabilmente gola a molti, e Danny Ainge deve fare i conti col fatto che Isaiah Thomas e Al Horford sono già alla soglia dei 30 anni, perciò avrebbero tutto l’interesse a giocare per il titolo ora senza aspettare lo sviluppo di un giovane di 20 anni (che oltretutto ha carenze difensive su cui dover lavorare).
Per questo si passa al percorso degli scambi, tra cui le chiacchieratissime trade che vedono un pacchetto comprendente la prima scelta assoluta scambiata per una star conclamata come possono essere Paul George o Jimmy Butler. Posto che bisogna sapere prima di tutto se Indiana e Chicago intendono privarsi di due giocatori del genere (e non è detto che siano così inclini a scambiarli), bisogna considerare anche le situazioni contrattuali dei due: ha senso per i Celtics cambiare per un solo anno di “affitto” di George, che può uscire dal suo contratto nell’estate 2018 e ha già fatto ampiamente intendere di gradire la destinazione Los Angeles Lakers? E ha senso farlo per due anni di Jimmy Butler, per il quale bisognerà cedere anche qualche asset in più (Smart? Brown? Crowder?) visto che i Bulls — a quanto si è capito — non intendono far partire una ricostruzione totale ma preferiscono essere in grado di andare ai playoff anche nel caso in cui cedano Butler? Queste sono le due opzioni di cui più si parla, ma bisogna anche considerare che i Celtics hanno un tesoretto di scelte di incredibile valore (quella del 2018 dei Brooklyn Nets, ma anche quelle dei Clippers nel 2019 protetta Lottery e dei Grizzlies 2019 protetta 1-8) da poter scambiare per arrivare ad altri giocatori di complemento che possano migliorare la qualità della rotazione — ad esempio colmando il buco nel ruolo di 4 titolare dove nel corso dei playoff si sono stati provati Amir Johnson, Gerald Green e Olynyk con alterne fortune, oppure migliorando la situazione a rimbalzo difensivo, vero tallone d’Achille della squadra.
E qui si passa alla terza via, quella della free agency. Grazie ai contratti ben al di sotto del loro valore di mercato firmati da Thomas, Bradley e Crowder, i Celtics si trovano nella posizione di poter creare abbastanza spazio salariale rinunciando a pezzi di complemento (come ad esempio Olynyk) per firmare un giocatore da max contract. Il nome che balza immediatamente alla mente è quello di Gordon Hayward, che come tutti sanno ha un rapporto speciale di Stevens sin dai tempi di Butler University e si inserirebbe alla perfezione nel sistema del suo ex allenatore. Firmare Hayward sarebbe un matrimonio perfetto per entrambi: i Celtics migliorerebbero immediatamente la qualità della squadra senza dover intaccare più di tanto il nucleo che li ha portati fino alle finali di conference, mentre Hayward uscirebbe dalla conference dei Golden State Warriors (di cui ha provato la superiorità sulla propria pelle) per spostarsi in una squadra che ha già conquistato il primo posto a Est e si trova nelle migliori condizioni di tutta la conference per poter rappresentare il “dopo-LeBron James” (sempre che l’alieno col 23 possa calare, cosa che non accenna a fare).
Hayward da solo, però, non è in grado di colmare il gap che esiste con i Cavs, che hanno perso solo una partita perché James ha giocato una delle peggiori gare della sua carriera ai playoff, e comunque è servito un buzzer beater di Bradley per vincere. Perciò bisogna tornare ai primi due percorsi, da cui necessariamente Ainge deve essere in grado di produrre la Prima Opzione in grado di far scalare tutti di un posto e costruire la gerarchia di una squadra da titolo. Perché un quartetto formato da “il primo” (che può essere George, Butler o in prospettiva Fultz, dipende dalle valutazioni della dirigenza dei Celtics), Hayward, Thomas e Horford avrebbe le qualità e lo star power per poter creare una nuova contender, sempre ammesso che attorno a loro venga trovata la giusta dose di difesa e tiro (e qui tornano in gioco i vari Bradley, Smart, Crowder e Brown di cui prima).
Ainge però deve fare in fretta: l’estate in cui deve agire è questa e non la prossima, quando gli accordi in scadenza di Smart, Bradley e soprattutto Thomas — breve nota a margine, che poi tanto a margine non è: sicuri di voler dare il massimo salariale a una point guard di 1.70 vicina ai 30 anni? — ingurgiteranno qualsivoglia spazio salariale rendendo di fatto impossibile avere a disposizione i tre percorsi di quest’anno, a cui bisogna aggiungere che i Brooklyn Nets magari non saranno orrendi come in questa stagione (diminuendo il valore di quell’asset), che George non sarà più a disposizione perché avrà firmato un nuovo contratto e che Butler sarà a una sola stagione dalla scadenza. Sono scelte difficilissime, ma da cui dipende una buona parte dei prossimi cinque anni quantomeno della Eastern Conference — se non della lega intera per evitare un duopolio Golden State-Cleveland di cui non si vede la fine.
San Antonio Spurs
La cavalcata ai playoff dei Celtics ha, nel bene e nel male, lasciato a Ainge un’idea chiara di cosa può o non può fare la sua squadra. Lo stesso invece non si può dire della dirigenza dei San Antonio Spurs, che trovano davanti a una difficile valutazione: quanto vale davvero la squadra di quest’anno, che pur faticando un pochino ha superato brillantemente una difesa coriacea come quella dei Memphis Grizzlies e ha disinnescato un attacco atomico come quello degli Houston Rockets? E come valutarla alla luce del fatto che, anche senza Tony Parker, era sul +23 nel terzo quarto sul campo dei Golden State Warriors in gara-1, prima dell’ormai famigerato infortunio di Kawhi Leonard che ha di fatto chiuso la serie? In sostanza: questi Spurs sono abbastanza vicini al competere con gli Warriors per poter tornare alle Finals da meritarsi uno sforzo in più oppure il gap è ancora ampio — al di là di un primo tempo giocato alla perfezione ma che rimane, appunto, solo un tempo?
Il momento decisivo di una serie che, con ogni probabilità, sarebbe comunque finita con una vittoria di Golden State
La cosa drammatica in Texas è che le possibilità di migliorare questa squadra non dipende da loro, ma da cosa deciderà di fare Pau Gasol. La sua scelta se esercitare la player option a suo favore da 16.1 milioni del prossimo anno è la chiave di volta di tutta l’estate nero-argento: se deciderà di esercitarla (cosa che pare intenzionato a fare), lo spazio salariale degli Spurs sarà talmente esiguo da non permettere di aggiungere quel talento in grado di colmare il gap, provocando a cascata i tentativi di rinnovi con Patty Mills (che comunque sarà difficile da trattenere), Jonathon Simmons, David Lee e Dewayne Dedmon come scenario migliore possibile. Ovverosia rimanere quelli che si è, aspettare l’ulteriore upgrade del software che palesemente controlla Kawhi Leonard (ad esempio aggiungendo una capacità di coinvolgere e creare tiri per i compagni che in questa stagione si è vista solo a tratti), puntare sulla crescita dei vari Dejounte Murray, Kyle Anderson e Davis Bertans e, sopra ogni altra cosa, continuare il processo di spursizzazione di LaMarcus Aldridge che forse in Texas si aspettavano più rapido.
È inutile negare che a San Antonio, specialmente all’interno della tifoseria, non siano esattamente entusiasti del contributo dato fin qui da “LMA” (anche se Popovich vi direbbe solo “Sure”) che non viene visto e percepito come “uno di loro”. Un po’ per il fatto che effettivamente Aldridge non è stato immerso nelle acque di Spursello tenuto per un tallone fin dalla tenera età (cosa che invece è successa a tutti i grandi della storia nero-argento, da Robinson a Leonard passando per Duncan, Parker e Ginobili), un po’ perché non ha dentro quel fuoco, quella competitività silenziosa ma feroce, quel killer instinct che gli Spurs esigono dai loro giocatori, in particolar modo delle stelle. Per carità: Aldridge ha anche mostrato a tratti quella voglia di vincere (ad esempio spazzando via a piacimento i Rockets in gara-6) e in generale con lui San Antonio ha vinto una quantità enorme di partite (128 in due anni solo nella regular season), costruendo difese granitiche. Ma la sua riluttanza a scalare nel ruolo di centro, la mentalità da “prima donna” sviluppata negli anni da 20+10 fissi a Portland e una certa mollezza nel momento in cui bisognava trascinare la squadra (ad esempio dopo l’infortunio di Leonard in gara-1) hanno fatto storcere il naso all’ombra dell’Alamo. Poi non si può fargliene una colpa se non è riuscito a battere neanche una volta una squadra incredibile come questi Warriors — anche perché non ci è riuscito nessuno finora, e non è detto che nemmeno Cleveland ci riesca —, ma sicuramente nelle stanze segrete di casa Spurs si sarà parlato di una sua possibile cessione. Il problema è che non è semplice capire chi possa cedere asset di rilievo per prendersi un giocatore del genere, un “4” che non scala volentieri da “5”, tira long 2 su long 2 (peraltro tenendo percentuali orrende in questi playoff) e può uscire dal contratto tra un anno. Per questo lo scenario più probabile è che gli Spurs continuino questo matrimonio di convenienza in cui però i sorrisi stanno diventando sempre di meno.
Rimangono solo due nodi da sciogliere, i più complicati da un punto di vista emotivo prima ancora che tecnico-tattico: cosa fare con Tony Parker e Manu Ginobili? Il primo si è infortunato gravemente al quadricipite contro Houston e la squadra è riuscita in qualche modo a sopperire alla sua assenza, così come è riuscita a vincere comunque 61 partite nonostante una regular season tutt’altro che scintillante da parte della leggenda francese, che ha appena compiuto 35 anni. Nei playoff Parker è andato decisamente meglio, ergendosi a tratti come seconda opzione offensiva mentre Aldridge faceva i conti con se stesso, ma il chilometraggio sul fisico del numero 9 è altissimo e i suoi giorni da point guard titolare potrebbero essere finiti, sempre che si metta una mano sul cuore e lo proponga lui (perché, per la disciplina militare che vige a San Antonio, nessuno si permetterebbe mai di imporgli un ruolo dalla panchina: ci sono delle gerarchie da rispettare). Se Parker lasciasse libero il posto, gli Spurs utilizzerebbero tutte le loro risorse per migliorare la posizione di point guard, ma qui si torna al punto di partenza: un vero e proprio upgrade può arrivare solo se Gasol venisse circuito e convinto in qualche modo a non esercitare l’opzione, liberando buona parte dello spazio salariale insieme ad altre mosse “minori” per dare l’assalto a Chris Paul (Zach Lowe nel suo podcast ha reso noto che esiste un interesse reciproco tra Spurs e CP3) oppure il ritorno di George Hill, che sarebbe un complemento perfetto per il giocatore per cui è stato sacrificato sei anni fa, vale a dire Leonard.
Per quanto riguarda Ginobili, invece, è tutto in mano a lui: gli Spurs gli hanno apparecchiato la tavola per un ritiro in grande stile, con un ultimo anno di contratto da 14 milioni di saluti, dei playoff in cui comunque è riuscito a regalare dei momenti memorabili (come la stoppata su Harden che ha deciso gara-5) e un addio da pelle d’oca all’AT&T Center dopo essere partito titolare. Un addio perfetto nei modi al di là del 4-0 con cui ha perso la sua ultima serie: di solito quando gli addii riescono così bene non si torna indietro per un altro anno con il rischio di rovinare tutto, ma se decidesse di fare un altro anno gli Spurs non si farebbero ovviamente problemi a trovargli un posto in rotazione. Manu Ginobili è i San Antonio Spurs — e certe cose, semplicemente, non hanno prezzo.
Per quanto tempo nell’AT&T riecheggeranno le grida “Manu! Manu! Manu!”?