Nel 1995 Esra Elbirlik ha appena vent’anni: diplomata al Kadıköy Anadolu Lisesi, il più vecchio, prestigioso e internazionalmente riconosciuto college dell’Anatolia, è iscritta al secondo anno di Chimica Farmaceutica all’Università di Istanbul quando uno dei personaggi più in vista, amati, rappresentativi della voglia di emergere della Turchia, il calciatore Hakan Şükür, si innamora di lei.
Nelle poche foto che circolano su internet è sorridente, sembra felice: niente lascia presagire che uno tsunami di gossip, politica e poteri forti entrerà, di lì a poco, nella sua vita per mandarla in frantumi.
Nel giugno del 1995 Hakan Şükür è reduce da tre stagioni stratosferiche al Galatasaray, in cui ha segnato una media di un gol ogni due partite. Viene acquistato dal Torino; per il calcio turco è un’inedita e ghiotta occasione di mettersi in mostra, di piazzare in una vetrina del corso più elegante della città il suo gioiello più brillante.
In uno dei primi timidi tentativi di spaventare l’Europa, Hakan aveva segnato con la maglia del Galatasaray una rete all’Olimpico, contro la Roma. Poi finì 3-1 per i giallorossi, con doppietta (sic) di Aldair.
L’ambientazione in Italia è difficilissima, e Hakan non perde occasione per rimarcare, nelle interviste, quanto sia infelice. Si dà un paio di mesi: se entro gennaio non sarà riuscito a sentirsi parte integrante del gruppo chiederà alla società di farlo rientrare in patria. Nel frattempo, dalla Turchia, si fa inviare del cibo. E pensa che forse, con una compagna al suo fianco, la nostalgia potrebbe attenuarsi.
Con Esra si sono conosciuti a Yalova, una località balneare sul Mar di Marmara: trasformare un flirt estivo in un matrimonio attraverso il quale passa il successo dell’ambasciatore dello sport turco in Europa è un esercizio stilistico al quale la famiglia di Esra non lo sa mica se ha voglia di prestarsi. Per persuaderli si scomoda anche l’allora primo ministro Tansu Çiller.
Scene da un matrimonio: l’uomo con l’abito chiaro è Gülen, l’officiante con la tunica rubino è Erdoğan.
Le nozze tra i due sono sfarzose: a officiarle, in un hotel di lusso della capitale, viene chiamato l’allora sindaco di Istanbul (poi primo ministro e oggi presidente della repubblica) Recep Tayyip Erdoğan. Hakan sceglie come proprio testimone Fethullah Gülen, imam e politologo controverso, personaggio sfaccettato celebre per le sue posizioni antisecolariste e filo-ottomane ma anche per essere, per certi versi, un riformista islamico, promotore del dialogo interreligioso.
L’idillio del matrimonio dura poco più di quattro mesi: di fatto come la permanenza di Hakan al Torino, dato che a gennaio rientrerà al Galatasaray, e Esra tornerà a vivere dai suoi genitori.
Şükür l’accuserà di avergli rubato soldi e gioielleria. «Non mi ha mai amato», aggiungerà, «ma questa è una cosa con la quale era scesa a patti: era un matrimonio di convenienza». Non si capisce bene, dalle sue dichiarazioni, di convenienza per chi.
Quando il 17 Agosto del 1999 un sisma del nono grado della scala Mercalli devasterà l’area nordoccidentale dell’Anatolia, intorno a İzmit, Esra perderà la vita insieme ai suoi genitori, a soli 24 anni.
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Capire chi - ma forse più cosa - sia diventato Hakan Şükür, l’ex calciatore e ora parlamentare che rischia il carcere (ci arriviamo, certo), è un percorso estremamente tortuoso e complicato: bisogna per forza iniziare con il farsi un’idea del peso specifico che aveva, da giocatore, tra la metà degli anni ’90 e una decina di anni fa, cioè il periodo di massima auge nella storia calcistica della sua nazione. E in ogni caso ancora non riusciremmo ad afferrare, con compiutezza, il peso specifico del suo personaggio oggi che ha appeso le scarpe al chiodo, come si dice, e nondimeno continua a ricoprire un ruolo di primo piano nel panorama sociale turco.
Ho riflettuto a lungo sull’angolatura che avrei dovuto scegliere prima di cominciare a parlarne. Sarei dovuto partire da una foto postata recentemente su Instagram che lo ritrae in un parcheggio anonimo degli States in compagnia di Kevin Durant (per chiedermi cosa ci fa negli States? Con Durant, poi) o da una foto della demolizione dell’Ali Sami Yen, cioè il posto dopo casa sua più simile a casa sua? Quanto Pamuk avrei dovuto citare? Quanti tramonti di Istanbul evocare?
Se ho scelto di cominciare dal suo concetto discutibile di famiglia, dalla moglie che ha sposato subito dopo aver abbracciato l’idea di trasferirsi lontano dal bozzolo rassicurante di Istanbul più come rimedio alla saudade che per vero amore, è perché mi è sembrata, in nuce, una storia paradigmatica di quella, più ampia, della sua vita.
È impossibile farsi un’opinione chiara su Hakan Şükür se ci permettiamo di scavalcare i recinti del rettangolo di gioco, e a volte lo è anche rimanendo sul prato verde: è il campione che ha segnato più di 300 reti in una carriera perlopiù dipanatasi in Turchia che gli è valsa il soprannome di Kral, «re», o il poco prolifico attaccante capace di andare a segno soltanto 12 volte con una maglia che non fosse quella giallorossa del Gala o quella della Nazionale?
Il più bello dei dodici da «straniero» resta comunque quello segnato in un derby di Milano di inizio gennaio 2001: come si fa a non innamorarsi di Seedorf vedendogli calibrare questo lancio? E comunque la conclusione di Hakan è probabilmente la migliore lontano da Istanbul.
È il capitano della Nazionale odiato da metà dello spogliatoio o un leader carismatico?
E poi, trascendendo l’aspetto sportivo, è un uomo di virtù o una primadonna esigente, che rincorre le logiche del capriccio? Un politico competente o un uomo di facciata?
Nelle partite - anche metaforiche - che gioca Hakan Şükür, i buoni e i cattivi hanno pettorine dal colore troppo simile per riuscire davvero a operare un distinguo netto.
Sarò onesto, con me stesso e con i lettori, per quanto banale: di Hakan Şükür mi è riaffiorato il ricordo solo nel momento in cui, a Febbraio, in ogni angolo di internet è rimbalzata la notizia che rischiava quattro anni di reclusione per una serie di tweet che il governo di Erdoğan ha ritenuto in qualche maniera infamanti.
La notizia mi avrebbe dovuto indignare? Deludere? Preoccupare? Perché un pensiero fino ad allora fluttuante è diventato, nella mia testa, importante?
Ercan Guyen, columnist del Milliyet, ne ha forse fornito la descrizione più completa e per certi versi inquietante: ha scritto «se questa nazione un giorno si troverà ad avere a che fare con problemi enormi, se i fratelli diventeranno nemici dei fratelli, se il regime capitolerà e la Turchia precipiterà, potete essere sicuri di una cosa: tutto ciò avrà molto a che fare con la figura di Hakan Şükür».
Hakan Şükür è un personaggio controverso, ma questa non è una metamorfosi recente. Lo è sempre stato, anche quando il suo ruolo era meramente quello di fare gol e trascinare il Galatasaray. Forse perché il suo ruolo non è mai stato soltanto quello del calciatore.
Una vittoria non in Europa, ma contro l'Europa.
L’esperienza di Torino, per quanto insignificante nella durata e nei risultati, è stata in realtà un enorme spartiacque nella carriera di Hakan: ha segnato la presa di coscienza della sua dimensione effettiva, del suo ruolo nel mondo, e forse ne ha acuito i sentimenti di appartenenza, rivalsa. Mi sono fatto l’idea che il (primo) fallimento italiano abbia amplificato in qualche modo la sua voglia di dover a tutti i costi dimostrare una grandeur che all’interno dei confini turchi nessuno osava contestare.
Nelle tre stagioni successive alla parentesi italiana sembrò impegnarsi in un gioco al massacro contro i suoi stessi limiti. Segnava tantissimo, anche rispetto ai canoni tutto sommato abbordabili del campionato turco: 46 reti, poi 36, poi 27. Spesso il conto delle prestazioni e dei gol si eguagliavano. Sapeva come essere imprevedibile, come il gesto con cui estrae dal nulla questo pallonetto in un match con la Nazionale, contro la Svizzera, nelle qualificazioni a Euro 96:
ma anche irriverente, come questo calcio di rigore calciato con l’arguzia e la spocchia di chi sa di essere considerato il più forte calciatore turco vivente.
Ciò non significa che la sua figura fosse totalmente incontestabile. Il rapporto organico tra l’individuo e la sua squadra, e tra la sua squadra e un intero movimento calcistico nazionale, non è mai stato, per Hakan, idilliaco. Non del tutto.
A metà degli anni ’90 il Galatasaray viveva un momento di grazia. Dopo aver raggiunto una storica quanto fortuita semifinale di Coppa Campioni nel 1989, sconfitto dalla Steaua che avrebbe poi opposto una scarsa resistenza in finale al Milan, era una presenza fissa delle coppe europee.
I tifosi cantavano «Europa, Europa! Ascolta la nostra marcia!». «Nessuno può passarla liscia con i Turchi!», echeggiava l’altra metà dello stadio.
Ve lo ricordate l'Ali Sami Yen, no? L'atmosfera in cui giocavano gli avversari del Galatasaray era l'esatto contrario di accogliente.
Fatih Terim, nel ’96, era stato ingaggiato come tecnico, e aveva preteso con sé Gheorghe Hagi, il Maradona dei Carpazi. Il Gala giocava un calcio totale, con un centrocampo molto fluido formato da Arif Erdem, Okan Buruk, un giovanissimo Emre Belözoğlu alle spalle di Hagi, tutti al servizio di Hakan Şükür, perfettamente a suo agio nel ruolo di centravanti totemico. Anche per questo, tuttavia, criticato, sminuito, considerato un semplice esecutore finale di manovre il cui lustro, e pregio, era tutto imputabile alla classe del centrocampo che alle sue spalle si disimpegnava.
L'equazione tanti=facili è quasi inevitabile, quando si parla di gol, Hakan Şükür e Galatasaray.
Hakan che segnava senza però riuscire a guadagnarsi la considerazione che credeva di meritare era l’esatta metafora della Turchia che, nonostante avesse intavolato una ormai trentennale trattativa con l’Unione Europea, non riusciva ad entrare a farne parte.
Anche se forse la similitudine più adamantina delle difficoltà d’accettazione della Turchia in Europa, e della relativa rivalsa, è stato il percorso netto con il quale il Galatasaray riuscì ad arrivare, invitto, ad alzare la Coppa Uefa nella stagione ’99-’00.
I processi di costruzione di un’identità culturale ricevono un’enorme propulsione da situazioni sociali collettivizzanti come il calcio: il Galatasaray campione europeo era l’immagine perfetta di come un processo di integrazione, in assenza di un percorso accomodante, potesse essere forzato. Il Galatasaray aveva somatizzato il trauma della periferia e ribaltato i postumi della vittimizzazione trasformandoli in una vittoria non in Europa, ma contro l’Europa. Ed era un’idea che, per tutta una serie di motivi, spaventava.
L’emozionante cavalcata del Galatasaray passò anche e soprattutto per le reti di Hakan, che in quella Coppa Uefa segnò 6 gol in 9 partite. Tre sono perfette per riassumere in una specie di bignami la concezione del ruolo del centravanti per Hakan Şükür: il colpo di testa didascalico contro il Bologna, il bel controllo con successiva girata contro il Borussia Dortmund e il colpo di testa in tuffo contro il Leeds nella semifinale di andata. Anche se il mio preferito resta quello contro il Leeds, ma al ritorno, in cui effettua un controllo che somiglia in maniera pazzesca a un gesto tecnico di Cristiano Ronaldo (e che gran lancio, Hagi!).
A incutere timore erano le ripercussioni politiche connaturate ai successi calcistici. La Turchia che conquistava l’Europa non era la Grande Patria di Ataturk che in uno slancio laico e democratico abbracciava l’Occidente: era l’apertura di una faglia pericolosa, dietro la quale si spalancava alla vista l’abisso di inconciliabilità tra lo stesso Occidente e una componente islamica che si incuneava nei pertugi di un continente che cercava di tenerla alle porte.
L’ambiente calcistico turco, in limine al Ventunesimo Secolo, era il palcoscenico preferito per l’ingerenza religiosa. Il Gaziantepspor all’inizio del Duemila aveva licenziato Ömer Çatkıç, il portiere di riserva di Rüştü Reçber in nazionale, e Mert Korkmaz, fratello di Bülent capitano del Galatasaray, con l’accusa di professare eccessivamente la propria fede in ambiti tradizionalmente laici, almeno nell’idea della Turchia moderna, come lo stadio o i campi d’allenamento. Il Florya Metin Oktay Tesisleri, il centro sportivo quartier generale del Galatasaray, secondo il giornalista di Sabah Huncal Uluc, era diventato quasi una specie di centro islamico: i giocatori prendevano posizioni solide, ad esempio durante il Ramadan, quando si imponevano sullo staff tecnico pur di digiunare.
Il leader carismatico di quella che a tutti gli effetti era una tarikat, una setta islamica, era proprio Hakan Şükür.
La Turchia (quasi) sul tetto del mondo.
Quelle che nel 2000, offuscate dalla vittoria della Coppa Uefa, sembravano semplici illazioni tese a ridimensionare l’aura di Hakan Şükür presero una forma più definita, paradossalmente, durante l’highest-peak del calcio turco, nel 2002. Ed esplosero esattamente durante la fase a eliminazione diretta dei Mondiali nippocoreani, in cui la Turchia si stava facendo strada, partita dopo partita, fino ad arrivare a giocarsi la semifinale contro il Brasile.
Dopo la vittoria contro il Giappone che sancì il passaggio dei turchi agli ottavi di finale (nella fase a gironi non avevano dopotutto brillato, conquistando la qualificazione solo nell’ultima gara contro la Cina) l’Hurryiet aveva celebrato il successo con una doppia edizione: un qualcosa che non accadeva dal 1980, in occasione del colpo di stato militare.
Hakan Şükür non stava rispettando appieno le aspettative: non aveva segnato ancora neppure un gol, appariva come svuotato e sempre stizzito.
In un articolo apparso sul Milliyet, Tuncay Ozkan sferrò un attacco che fece vacillare ogni certezza nel centravanti della Nazionale: accusò la squadra, in buona sostanza, di soffrire le recrudescenze di una piaga che affliggeva tutto lo sport turco, e cioè l’eccessiva mescolanza tra professionismo e fede. Ozkan si lanciò in un j’accuse secondo il quale nello spogliatoio si tendeva a dare precedenza alla militanza religiosa rispetto alle qualità tecnica. «In assenza di un team manager con carisma a sufficienza per controllarli», scrisse, «è il gruppo di Şükür a decidere chi gioca e chi no». Ozkan si spinse così in là da ipotizzare che la squadra non passasse la palla ai giocatori che non pregassero. Venne accusato di eresia.
L'unico gol che Hakan segnerà in quei mondiali, tuttavia, rimarrà nella storia: è ancora il gol più rapido della manifestazione (segnato dopo 10 secondi e 89 centesimi).
Secondo Hakan il suo sottto-dimensionamento durante i mondiali affondava in motivazioni perlopiù tecniche: tuttavia, di certo non dipendenti da sé.
«È vero, non sono stato in grado di creare occasioni da gol, ma avete visto la squadra? Ognuno, a centrocampo, pensa solo per sé. Giocano per attirare le attenzioni su di loro. Come posso aspettarmi di ricevere passaggi se questi sono i presupposti?».
Hakan finì per alienarsi le simpatie del resto del gruppo non solo dopo queste dichiarazioni, ma anche quando pretese che nel giorno di riposo dopo la vittoria contro il Giappone lo accompagnassero a pregare in moschea.
Senol Güneş, che comprese la situazione meglio di chiunque altro, lo tolse dal campo nel mezzo della gara contro il Senegal: «Se fosse rimasto ancora a lungo in campo non solo si sarebbe demoralizzato, ma avrebbe finito per demoralizzare anche il resto della squadra».
Il suo sostituto, İlhan Mansız, avrebbe segnato al 94’ il gol vittoria che avrebbe proiettato la Turchia tra le prime quattro nazionali al mondo.
Un baluardo contro la teofobia
Erdoğan, quando era solo un ragazzo, sembra se la cavasse bene con il pallone tra i piedi: il padre però lo dissuase dal diventare un calciatore professionista, o dal provarci almeno, perché pensava che il calcio fosse un’occupazione troppo impura per un buon musulmano praticante.
Hakan, durante la sua carriera, ha dimostrato l’esatto contrario: fede e professionalità non sono inconciliabili. Anche se va detto che la sua militanza religiosa ha finito per causargli più grane che attirargli lodi.
Si dice che in Turchia oggi ci siano tre grossi motori che smuovono la società, che la sospingono nel suo processo evolutivo e al contempo ne tarpano le ali: la legacy laica di Ataturk, l’Islam e il calcio. Nessuna delle tre è una componente eminentemente positiva, quando entra in contatto con le altre due. Specie da quando la volontà di secolarizzazione si è trasformata in una vera e propria versione deformata di sé stessa, che quasi sfocia nella teofobia. Hakan Şükür è uno dei pochi personaggi a concentrare in sé tutti questi aspetti, in un cocktail spesso indigesto.
Una foto pubblicata da Hakan Şükür (@hakansukur9) in data: 10 Mar 2016 alle ore 08:38 PST
Cosa hanno in comune questi cinque calciatori passati alla storia, in una maniera o in un’altra, del Galatasaray?
Sono/erano fortissimi
Sono/erano molto devoti
Nel 2008, vale a dire nell’ultimo anno di attività, Hakan è riuscito a risultare antipatico anche agli stessi sostenitori del Galatasaray, o almeno ai più teofobici tra loro.
In limine a una gara - molto sentita, storicamente - contro il Fenerbahce Şükür ha dichiarato che i tifosi avrebbero dovuto abbassare i toni della rivalità. La sfida capitava nella settimana in cui si festeggiava la nascita del Profeta Maometto.
«Siamo nella settimana della Santa Nascita, e dovremmo esserne rispettosi. Dovremmo provare a crescere i nostri figli, i nostri giovani, nello spirito della tolleranza del nostro Profeta… I tifosi dovrebbero venire allo stadio con rose, non coltelli».
Le lamentele maggiori per l’atteggiamento di Hakan non provenivano, paradossalmente, da quella frangia di tifosi che voleva salvaguardare la facinorosità degli scontri, ma dai puristi sostenitori dell’afflato secolare da sempre connaturato alla filosofia del Galatasaray. Va ricordato che il Galatasaray è stato fondato dalla borghesia laica di Istanbul, da un’élite moderata che circolava attorno al Galatasary Lisesi, il college del quartiere di Galata, in cui la filosofia imperante è di tipo llluminista, filo-occidentale e francesizzante, massimamente interreligiosa, tollerante: nell’ottica dei galatasariani più fedeli alle origini, il punto di vista di Hakan Şükür era non solo anti-modernista, ma soprattutto contrario ai principi del club.
Chi l’avrebbe mai detto che Şükür potesse in qualche modo non rappresentare più il Galatasaray?
Persecuzione?
Nel 2011 Hakan Şükür è stato eletto per la prima volta nel Parlamento turco, nelle fila dell’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo capeggiato da Erdoğan, un movimento conservatore dalle posizioni considerate panislamiste e neottomane.
Anche se ne è uscito appena due anni dopo, il 16 dicembre del 2013, quando ha rassegnato le dimissioni - secondo alcuni con una puntualità ai limiti del sospettabile - proprio in tempo per non farsi travolgere dallo scandalo per corruzione che avrebbe colpito in pieno, pur senza riuscire del tutto a smembrarlo o indebolirlo, proprio il partito di maggioranza AKP.
Da quel momento siede in parlamento da indipendente, e ha abbracciato gli ideali di Fethullah Gülen, il principale oppositore di Erdoğan, esule in Pennsylvania dal 2000.
La strategia di autodifesa del regime turco, nei primi mesi del 2016, ha operato un fortissimo giro di vite nei confronti dei dissidenti, o presunti tali (più che altro nei confronti di chi sia in qualche modo vicino o riconducibile a Hizmet, il movimento Gülenista). Nel mirino delle forze di governo sono finiti Bulen Kenes, editor in chief di Zaman, il principale quotidiano turco in lingua inglese (secondo molti l’interprete del pensiero di Gülen), che è stato arrestato direttamente nella sede del giornale; anche Merve Buyuksarac, designer ex partecipante turca a Miss Universo, è stata accusata di posizioni ribelli dopo alcuni attacchi molto velati a Erdoğan presenti in alcuni suoi post su Instagram. E poi, ovviamente, c’è Hakan Şükür.
Nel 2006 Hakan rilasciò un’intervista in cui riferendosi alle controversie legate alla sua figura disse «ci sono delle cose che nessuno apprezzerà mai in Turchia, è la tipica mentalità turca: cercare di buttare giù qualcuno che sta cercando in tutti i modi di arrampicarsi». «Nessun altro è stato criticato così duramente come hanno fatto con me», aggiungeva; «mi hanno anche dato del traditore. Ma io continuo a pregare, sono paziente, e vedrete che ci sarà un lieto fine».
Deve aver accolto con lo stesso stato d’animo, deluso ma combattivo, l’attacco forse più doloroso, e anche più sadico se vogliamo, che Erdoğan e i suoi gli hanno scagliato contro nell’aprile del 2014. Dopo il trionfo nelle amministrative locali, la vendetta dell’AKP è passata attraverso una dinamica che si potrebbe definire delegittimazione del mito: nel giro di una settimana il nome del centravanti è stato rimosso dalle denominazioni ufficiali di due stadi minori a Istanbul.
Il Sancaktepe Belediyesi Hakan Şükür Stadyumu è stato ribattezzato, con un semplice processo di rimozione, Sancaktepe Stadyumu. E neppure una settimana più tardi, dal giorno alla notte, l’Esenyurt Hakan Şükür Şehir Stadı è diventato, coerentemente, Esenyurt Belediyesi Stadyumu.
Hakan ha affidato la sua reazione, come spesso gli è capitato nella sua carriera politica, a Twitter: prima ha scritto «Meglio che il tuo nome sia conosciuto nel mondo piuttosto che scritto su un muro».
E poi, facendosi più mistico: «Uno non dovrebbe mai dimenticarlo: la targa più solida e definitiva è quella che ti mettono sulla tomba. Sotto quella pietra ognuno di noi giace non solo con il suo nome, ma con il resoconto della sua fede nella servitù»