Elena Delle Donne è il volto planetario della pallacanestro femminile. Eppure, più delle mirabolanti doti tecniche, è il senso di perenne possibilità a rendere la sua traiettoria così affascinante. Un’atleta che ha già riscritto la storia del gioco dopo aver rischiato di non farne nemmeno parte, e che potrebbe non aver ancora fatto vedere le cose migliori. In 27 anni ha vinto un titolo di MVP, un oro Olimpico, frantumato vari record a livello collegiale e professionale, e abbandonato ufficialmente il basket almeno una volta. Ma è il complesso intreccio di vicende personali, imprese sul parquet e naturalezza fuori dal campo a renderla un personaggio amato e allo stesso tempo magnetico, il cui fascino si estende ben al di là dei semplici appassionati di pallacanestro.
"La cosa che le riesce peggio è stare in panchina"
Delle Donne, nome italiano ma vissuto interamente statunitense, è una macchina offensiva mostruosa. Per i punti segnati, per la varietà di opzioni che ha a disposizione, e per il bassissimo numeri di errori che commette. Una combinazione di tecnica, atletismo, centimetri, agilità, istinto per il canestro che non si era mai vista nella WNBA, e che è rara nella storia del gioco
Qui, alcune giocate dal suo anno da rookie.
«Può giocare in tutti i ruoli e in ognuno è dominante. Ha delle capacità e competenze tecniche a 360 gradi. Questo, associato al suo fisico snello e atletico, la rende unica nel suo genere» ci spiega Raffaella Masciadri, 12 Scudetti italiani, 2 stagioni con le Los Angeles Sparks, oltre vent’anni ai massimi livelli. Una leggenda vivente della pallacanestro italiana, che di giocatrici ne ha viste e affrontate tante. «Non credo esista un fondamentale che lei non sappia eseguire. La mia compagna di squadra americana, Jolene Anderson, dice che ciò che le riesce peggio è stare in panchina». Il suo stile unico rende difficile paragonarla con altre interpreti del gioco: «Si può pensare a Lisa Leslie, che però era esclusivamente un pivot e non poteva certo giocare playmaker. Può essere simile a Diana Taurasi o Candace Parker, ma è più mobile fisicamente. Credo che in assoluto assomigli molto a Tina Thompson» aggiunge Raffaella.
Nel frattempo i record fioccano, anche nella WNBA. È la seconda miglior realizzatrice di sempre per punti a partita, con 20.5 punti di media; è la giocatrice con il più alto rapporto punti per 100 possessi (anche noto come offensive rating) della storia della lega, a quota 123; è la migliore tiratrice di liberi di sempre, con il 93.6%; ed è la seconda migliore di sempre per Player Efficiency Rating — un indice che, con un complesso calcolo, "pesa" e aggrega tutte le voci statistiche positive parametrandole ai minuti giocati. Il suo dato in carriera è 28.20, secondo solo a quello di Cynthia Cooper, la dominatrice incontrastata dei primi anni della Lega. È lo stesso indice di cui Russell Westbrook è sovrano incontrastato in questa stagione NBA, con cifre simili a quelle di Elena. E in cui LeBron James ha primeggiato per sei anni consecutivi, dal 2007 al 2013. Siamo a questi livelli di dominio sul gioco.
«Il suo modo unico e globale di giocare è già un modello nel basket femminile mondiale. Taurasi, Parker, Ogwumike e altre stelle di adesso sono sulla cresta dell'onda con lei. Tutte insieme stanno facendo avvicinare il basket femminile a quello maschile» aggiunge Masciadri. Senza dimenticare l’aspetto più importante: a 27 anni, il bello deve ancora venire. «Ha ancora tanti anni nella lega per crescere e diventare la migliore di sempre. Credo però che un'esperienza europea le possa far bene. Dominerebbe, ma magari troverebbe qualcuno in grado di infastidirla un po', facendo crescere di livello il suo gioco e la sua mentalità in maniera esponenziale».
Per le atlete WNBA, anche le più titolate, giocare in Europa è un’abitudine, più che un vezzo. Ovvero: è l’unico modo per guadagnarsi da vivere con il basket nei mesi tra ottobre e maggio, quando la WNBA, che non paga peraltro stipendi faraonici, è ferma. Per stare vicina alla famiglia — vedi sotto — Delle Donne ha sempre trascorso quei mesi in Delaware, a parte una breve esperienza in Cina. Ma se dovesse cambiare idea in futuro, potrebbe capitare sui nostri parquet, da giocatrice di casa o da avversaria. Un evento da non perdersi per nessun motivo.
Lizzie
E dire che la sua carriera, compiuta la maggiore età, sembrava già finita. Nata e cresciuta a Wilmington, Delaware — stesso nome della città dove crebbe Michael Jordan, ma stato differente — Alaina Delli Donn, come viene pronunciato il suo nome, divenne presto il talento più desiderato degli Stati Uniti. Alta, coordinata, con una facilità incredibile nel trovare il canestro, trascinò Ursuline Academy a tre titoli liceali, tritando record su record. La scelta naturale fu di andare a University of Connecticut, regno di Geno Auriemma — il sovrano incontrastato del basket NCAA femminile, che ha creato negli anni un impero paragonabile a quello di Duke, Carolina, Kentucky e Kansas messe assieme. Un posto dove le vittorie arrivano con scarti medi di 30 punti, le giocatrici vengono comunemente scelte nei primi posti del Draft WNBA, e l’unica cosa che fa notizia è perdere. Anche solo una partita all’anno.
Il trampolino di lancio, però, fece venire a galla gli incubi peggiori: Elena durò due giorni, prima di tornarsene a casa in una notte di giugno. Dichiarò che non ne poteva più della pallacanestro. «Odio questo gioco da quando ha 13 anni» arrivò a dire. Il problema non era UConn: era il malumore accumulato in anni in cui, grazie al suo incredibile talento, non bastava né divertirsi, né vincere — bisognava sempre dominare. E così, 48 ore dopo il suo arrivo a Storrs, Delle Donne abbandonò i boschi del New England, e con essi la prospettiva di continuare a giocare basket. «Ancora adesso c’è qualcosa che non torna. Capisco non volere la pressione, il contorno. Ma non è possibile che una persona a cui non piacesse il basket potesse essere arrivata sino a lì» disse con perplessità Auriemma, che poi si sarebbe trovato ad allenare Elena nella Nazionale USA, senza per questo farsi una ragione di quel gesto. Una mossa che, a parte l’autostop, suggerì molti punti in comune con quanto fatto da Larry Bird trent’anni prima, a Indiana University. Entrambi predestinati, entrambi confusi. E, soprattutto, entrambi non ancora pronti a vivere lontano da casa. Per fortuna del gioco e dei suoi appassionati, tutti e due sarebbero tornati sui propri passi.
Quella di Elena non era banale nostalgia. A Wilmington, oltre ad amici ed affetti, c’era Lizzie, la sorella affetta da una paralisi cerebrale congenita, che le impedisce di vedere e sentire. Per questo, tutto il suo rapporto con Elena si è sviluppato attraverso il tatto e l’olfatto, arrivando a creare un legame fortissimo.
Per chi volesse saperne di più, date un’occhiata a questa clip e al suo contributo su The Players’ Tribune
«Lizzie mi aiuta costantemente, anche quando sono lontano. Penso alle difficoltà che ha dovuto superare. Metto tutto in prospettiva. Un infortunio sportivo è nulla al confronto» avrebbe detto durante i suoi anni a Chicago. E proprio la prospettiva di non potere più essere a contatto con Lizzie era uno dei fattori che scatenarono la sua crisi di rigetto. Le ore passate a stretto contatto, comunicando con lei come nessun’altra persona in famiglia riusciva a fare erano una parte cruciale della sua quotidianità. Rinunciarvi non era possibile. Tornata a casa, si iscrisse a University of Delaware, a pochi chilometri da casa. Si unì alla squadra di pallavolo come walk-on, ovvero senza borsa di studio, arrivando al torneo NCAA con le lady Blue Hens. Non esattamente la Madness che avrebbe pensato di giocare, ma stare attorno alla sua famiglia aveva ristabilito il suo equilibrio. E così, l’estate successiva decise di tornare al basket.
Inutile a dirsi, non ci furono problemi a convincere Delaware. Un ateneo con una tradizione cestistica del tutto normale, che mai, in circostanze normali, avrebbe avuto la chance di risultare appetibile a un talento del genere. E così, poco più di un anno dopo il suo ritiro, Elena tornò sul parquet, con risultati devastanti per le avversarie: furono quattro stagioni con statistiche incredibili: 26.7 punti, 9 rimbalzi, 2 stoppate di media, con il 91% ai liberi e il 48% dal campo. Da sola, trascinò la squadra a superare il primo turno del torneo NCAA nell’anno da junior, e addirittura alle Sweet 16 in quello da senior. Le tre vittorie di quei due anni, ancora oggi, sono le uniche nella storia dell’ateneo al torneo. Merito del talento sopraffino di Elena, ma pure del supporto di Lizzie.
Giocatrice franchigia
Nel Draft del 2013 Elena fu la seconda scelta assoluta, dietro il centro di Baylor Brittney Griner. La scelta, come si ricorderà chi seguiva anche solo distrattamente la NCAA femminile dei tempi, non faceva una grinza. E ancora oggi, a livello tecnico, è difficile valutare chi avesse ragione. Delle Donne era stata la protagonista assoluta di una squadra modesta, portandola semi miracolosamente a giocarsela contro avversarie più forti. Ma Griner si era imposta come il centro più devastante di tutta la storia del basket femminile collegiale, prima stoppatrice di sempre — ne rifilò 14 in una partita — e punto di riferimento di una squadra ambiziosa, capace di arrivare al titolo del 2012. L’ultimo a non essere stato vinto dalla Connecticut di Geno Auriemma, sempre lui. Al di là del discorso su chi meritasse la prima chiamata, per Elena finire a Chicago si sarebbe rivelato un affare. All’inizio non mancarono le preoccupazioni: lontana da casa, pagata per giocare, con tante aspettative. E in una città tanto affascinante quanto potenzialmente difficile, soprattutto per chi ha sempre vissuto in posti a misura d’uomo, a continuo contatto con parenti e amici. Il rischio di un nuovo burn out era altissimo, e tornare indietro avrebbe voluto dire smettere per sempre. E invece tutto andò per il verso giusto. «In un Draft decidono gli altri per te. Non sei tu a scegliere, come per il college. È tutto più semplice» disse dopo poche partite della sua stagione da rookie, quando era ormai chiaro che l’esperienza brutale di Connecticut non si sarebbe ripetuta.
Alla sua stagione di esordio, Elena si presentò dalla prima partita come un tipo di giocatrice mai visto prima nella storia della WNBA. La sua completezza offensiva, e soprattutto l’incredibile abilità di giocare indifferentemente dentro, fuori e nelle zone intermedie, la rese immediatamente un enigma indigesto per tutte le difese avversarie. Di atlete dominanti ce ne erano, e ce ne erano state. Ma nessuno aveva mostrato una facilità del genere a fare canestro, abbinata a quella mobilità, e a un’altezza da lungo, più che da esterno. Mutatis mutandis, erano grattacapi difensivi simili a quelli portati da Dirk Nowitzki, a cui Elena stessa si è più volte paragonata. E così, le Chicago Sky passarono da tappetino a mina vagante, forti della giocatrice con più punti nelle mani della lega — Elena, appunto — e quella più solida in difesa, Sylvia Fowles. Delle Donne fu Rookie dell’anno: arrivò il primo posto nella Eastern Conference e con esso la prima qualificazione ai playoff nella storia delle Sky. E non bastò certo l’immediata eliminazione per mano di Indiana al primo turno a lenire l’ottimismo di un ambiente che, dopo anni di mediocrità, sembrava destinato ad aprire un ciclo destinato a durare nel tempo. La stagione dopo andò ancora meglio: nonostante una lunga assenza per una manifestazione acuta della malattia di Lyme con cui Elena deve periodicamente fare i conti, le Sky arrivarono in finale. Elena giocò i playoff in condizioni menomate, tirando avanti a suon di anti-dolorifici. Phoenix, proprio la Phoenix di Brittney Griner, si impose però per 3-0. Seguirono altri due anni sulla cresta dell’onda: nel 2015 arrivò anche il titolo di MVP, praticamente all’unanimità, prima di un’altra solida stagione.
Ma il vero miracolo, al di là delle vittorie, è stato quello di rendere le Sky una squadra con un seguito, e non solo un esperimento di marketing riuscito male. Un compito arduo, se si pensa al peso politico, storico e culturale che hanno i Bulls in città. E se si tiene a mente che Chicago rimane una delle rare città americane ad avere almeno una squadra professionistica in tutti e quattro gli sport maggiori, creando così una mercato vicino alla saturazione. Eppure, emergendo nella doppia veste di fuoriclasse sul campo e personaggio di immagine fuori, Elena è riuscita nell’impresa di far sembrare questa franchigia una parte della città. Con la media WNBA che si è mantenuta tra 7.000 e 8.000 spettatori, Chicago è passata dai 5.000 spettatori di media del 2012, sin lì record per la franchigia, ai 6.960 della stagione quella appena passata, restando sempre sopra ai 6.000 di media (e 100.000 totali) nelle sue quattro stagioni. Un risultato clamoroso, soprattutto se si considera che le Sky giocano alla Allstate Arena di Rosemont, a pochi passi dall’aeroporto. Un palasport vecchio, buio, lontanissimo dai comfort di un’arena NBA. E tragicamente scomodo come posizione, disperso lungo uno dei tratti di rete autostradale a più ampia densità di traffico degli Stati Uniti, con code e rallentamenti a qualsiasi ora del giorno. Domeniche comprese. E così, contro tutti questi ostacoli logistici, l’atmosfera simil-frizzante che si creò alle partite delle Sky era la testimonianza più vivida dell’impatto che Elena ha avuto sulla franchigia. Al pari delle sparute canotte giallo-azzurre che negli ultimi anni si sono iniziate a scorgere lungo le spiagge di Lake Michigan — macchie isolate in mezzo a magliette Bulls, Cubs e Bears, ma segni tangibili che le Sky un fazzoletto di terreno se lo sono finalmente conquistato. Grazie a lei.
Fragile e forte
A Chicago, Elena si è trovata bene da subito. Si presentò con un tweet in cui elogiava la deep dish pizza, primizia gastronomica della Windy City. Una torta salata profonda cinque dita e carica di formaggio fuso e salsa di pomodoro, cotta per 45 minuti in forni da acciaieria. Non il segno di italianità più distintivo, ma certo un apprezzamento gradito verso un piatto altamente contestato, simbolo principe della rivalità tra Chicago e New York. Da lì, tutto sarebbe andato in discesa: gli eventi con Nike, le interviste, le campagne promozionali. Ma pure una routine normalissima nei sobborghi benestanti della città, dove inizialmente andò a vivere con lei Meghan McLean. Prima compagna a Delaware, e poi assistente, manager, autista, consulente nei primi passi della carriera. Venivano a trovarla spesso i genitori e il fratello. Le teneva compagnia Wrigley, l’alano che prese appena arrivata in città, dandogli il nome del celebre stadio dei Chicago Cubs. «Se sono al parco e lo devo chiamare, difficile che gli altri proprietari si confondano» ama scherzare lei. Lo stesso Wrigley ha pure un profilo Instagram, dal quale i fans possono rubare qualche istante nella quotidianità di Elena. 36 mila followers, 180 post pubblicati. E, in bella vista, due contatti: quello al profilo Instagram di Elena; e quello di Eric Kane, la manager della nota agenzia Octagon che gestisce gli interessi e l’immagine di Elena dall’agosto 2015. Una scelta che rientra in un piano più ampio: diventare una star dello sport globale, in stile sorelle Williams. La cui influenza si estende ben al di là della propria lega professionistica.
A 27 anni, nel pieno della maturità agonistica, ha tutte le carte in regola per riuscirci. «Il suo modo unico e globale di giocare è già un modello e un riferimento nel basket femminile mondiale. Ed è un esempio per le giovani per la modestia, la passione e la determinazione con cui affronta le partite» spiega ancora Masciadri. Ma la sua presa magnetica sul pubblico va al di là delle doti tecniche e caratteriali che mostra sul campo: è anche frutto di un equilibrio perfetto tra apparizioni e vita privata, tra presenza pubblica e discrezione. E di una storia personale unica, in cui sono state le sue scelte, più che le circostanze esterne, a dettare il corso degli eventi. «L’attaccamento alla sua città natale non può ne far crescere la stima e l'amore dei suoi connazionali. Viene vista come una fedeltà incondizionata alla terra che le ha dato le origini e alla popolazione che l'ha sostenuta fin da quando era piccola» dice ancora “Mascia". E così, Elena è emersa come un personaggio fragile e forte, coraggiosamente pronta a mostrare limiti e crepe, a parlare delle proprie debolezze, e mostrando una spontaneità che l’ha sempre fatta percepire come una donna in carne ed ossa, più che come un semplice idolo. La stessa naturalezza è emersa quando, per la prima volta, Delle Donne ha parlato ufficialmente della propria vita coniugale. Accadde lo scorso settembre, in un’intervista a Vogue prima delle Olimpiadi di Rio. «Vennero a casa mia, la mia fidanzata Amanda è una parte fondamentale della mia vita. Non aveva senso nascondere la cosa, o far finta di niente» disse poi a ESPN. «Non si trattò di coming out. Chi mi conosce conosce bene anche Amanda, e conosce la nostra vita di coppia» aggiunse. Si sposeranno ad agosto. E intanto The Knot, celebre organizzazione che pianifica matrimoni, le ha scelte come coppia dell’anno. Un altro passo verso la celebrità mondiale, qualora ce ne fosse bisogno.
Nuova avventura
Voglio esplorare tutte le opzioni a disposizione. Ovvero "non credo proprio di restare". E così, puntualmente, è andata. Il 2 febbraio arriva l’annuncio ufficiale: Elena viene scambiata con le Washington Mystics, fanno il viaggio inverso di Stefanie Dolson, Kahleah Copper e la seconda scelta al prossimo Draft. Per Elena è un modo di tornare, nuovamente, vicino a casa, almeno per la distanze americane. 180 chilometri, due ore di macchina scarse, Lizzie a portata di mano un giorno sì e uno no. Quasi come al college. Ma le ragioni personali si sommano a quelle tecniche, dopo quattro anni in cui le Sky, pur arrivando una volta in finale, non erano mai sembrate veramente in grado di competere per il titolo.
Le avvisaglie c’erano state sin dalla fine del 2016, quando in un’intervista radiofonica Delle Donne disse, appunto, di voler considerare tutte le opzioni possibili. A partire da quella di spostarsi altrove. Avrebbe affrontato la sua ultima stagione a Chicago da restricted free agent. Era pronta anche a stare lontano dal campo per forzare la mano della propria squadra, come fatto dalla compagna Sylvia Fowles la stagione precedente. Una mossa in apparenza drastica, ma in WNBA è l’arma più forte a disposizione delle atlete per far valere la propria volontà, in un contratto collettivo in cui sono le franchigie ad avere il grosso del potere contrattuale (qui dei dettagli ulteriori, per chi fosse interessato). Dello sciopero però non c’è stato bisogno. Appena aperto il mercato, è arrivato l’annuncio. E così Washington, l’unica squadra a non aver mai raggiunto la finale WNBA da quando la lega è stata fondata nel 1998, si trova improvvisamente catapultata tra le pretendenti, forte della giocatrice perimetrale più pericolosa di tutta la nazione. È un nuovo capitolo di una storia che avrebbe potuto non esserci mai stata. E che ora sembra lontanissima dalla fine.