“I nostri giocatori sono forza e agilità,
perché tutta la nostra vita è stare in equilibrio tra deserto e foresta”
Lamine Diack, senegalese, presidente IAAF dal 1999 al 2015
Martin Jorgensen punta il suo avversario con la tranquillità di chi sa di poter rischiare la giocata: la Danimarca è in vantaggio 1-0 e ormai, dopo la vittoria nella prima partita del girone contro l'Uruguay, vede gli ottavi di finale. Di fronte a lui, pur non essendo un difensore, Henri Camara entra dritto in tackle e sradica con pulizia esemplare il pallone all'attaccante dell'Udinese. Inizia così un contropiede di violenza e armonia inconsulta: accende la miccia quel matto di El Hadji Diouf, che la appoggia di tacco nello spazio dove irrompe in piena corsa Salif Diao, che non perde tempo e allarga di prima a sinistra per Khalilou Fadiga, raddoppiando la velocità per andare ad attaccare l'area. Evidentemente Fadiga sa benissimo cosa fare, tant'è che controlla semplicemente che la palla scorra, senza neanche toccarla, aspettando il tempo giusto per restituire il pallone a Diao. Quel tempo arriva: Diao controlla una volta di destro, s'infila tra Henriksen e Heintze e batte Sorensen in uscita di esterno destro, come punto esclamativo di una frase stupenda.
Delle tre africane arrivate a un passo dal superare le colonne d'Ercole dei quarti Mondiali, il Camerun 1990 era la più romantica e misteriosa, del tutto inaspettata e fortemente sospinta dal caso. Il Ghana 2010 era la più forte e sfortunata, con i suoi tanti giocatori già in Premier League e in Serie A. Il Senegal 2002, però, era decisamente la più emozionante.
Scriviamo “emozionante” e non “bella”, o “spettacolare”, perché per definizione un Mondiale non è una competizione per squadre belle o per spettacoli che vadano oltre una singola, indimenticabile partita. Forse ci sarebbe il proverbiale Brasile del 1970: ma chi ha mai visto per intero una partita del Brasile 1970, a eccezione della finale? Persino la Spagna 2010, che trasferiva in chiave Nazionale i dettami tattici del Barcellona di Guardiola, approdò al titolo mondiale con quattro 1-0 consecutivi. Poi ci sarebbe l'Argentina 1986 che, però, al netto del miglior calciatore del mondo, espresse a lungo un calcio quasi straziante.
Independence Diouf
Il giorno che cambia la storia del Senegal è un 14 luglio: curioso destino per una colonia francese fino al 1960, prima di ottenere l'indipendenza senza alcuno spargimento di sangue ed essere governata per vent'anni dal presidente-poeta Léopold Sédar Senghor, uno dei pochi capi di stato della storia africana ad essersi dimesso volontariamente dalla propria carica. Proprio nello stadio della capitale che porta il nome di Senghor, il 14 luglio 2001 El Hadji Diouf segna al Marocco il gol decisivo per la prima qualificazione ai Mondiali del Senegal, in un girone complicatissimo in cui hanno sbaragliato l'intero Nord Africa: oltre al Marocco, anche Egitto e Algeria. La settimana dopo, un 5-0 in Namibia certifica l'impresa.
A Genova per partecipare al G8, il presidente senegalese Abdoulaye Wade si congratula con la squadra, mentre a Dakar esplode una festa delirante. Osserva il difensore del Bari Diaw Doudou, uno dei soli tre senegalesi a giocare in Italia: «Qualche anno fa, per essersi qualificati ai quarti della Coppa d'Africa, scoppiò una festa nazionale di un mese in cui tutti i giocatori avevano gratis qualsiasi cosa. Figuratevi ora...».
È probabile che l'exploit dei "Leoni di Teranga" (che nel wolof, la prima delle sei lingue nazionali senegalesi, significa “ospitalità”) abbia colto di sorpresa la stessa Federazione senegalese. Dal novembre 2000 il CT è un francese dall'aspetto eccentrico e dal curriculum oltremodo scarno. Si chiama Bruno Metsu, ha 46 anni, lunghi capelli biondi, fisico e savoir faire da istruttore di surf ed è reduce da una disastrosa esperienza alla guida della Nazionale della Guinea, dove ha avuto modo di toccare con mano i problemi endemici del calcio africano: pochi soldi, strutture pessime, frequenti ingerenze della politica locale.
Eppure l'Africa lo colpisce imprevedibilmente al cuore: per l'incarico successivo oltrepassa il confine a nord e accetta l'offerta del Senegal, a sua volta alle prese con una situazione interna tesissima tra giocatori e Federazione. Il CT uscente è Peter Schnittger, un tedescone di lungo corso che si è costruito una carriera pluridecennale tra Costa d'Avorio, Camerun, Madagascar e Benin già da prima che scoppiasse la moda del calcio africano: ha allenato i "Leoni" dal 1995 tentando di imporre una disciplina ferrea, a cominciare dal divieto assoluto a treccine, perline, capelli lunghi e musica in spogliatoio, e praticando un calcio molto difensivo per quelle latitudini. Già che i risultati non sono migliorati, i calciatori più forti – quasi tutti in Francia – hanno perso entusiasmo e hanno iniziato a disertare regolarmente le convocazioni di Schnittger, che ormai presso tv e stampa si è fatto la fama dell'aguzzino.
Nel 2000 un Senegal composto quasi interamente da giocatori “autoctoni” ha raggiunto miracolosamente i quarti di finale della Coppa d'Africa, ma la Federazione ci ha messo del suo non mantenendo la parola data sui lauti premi in caso di superamento del girone. Tra le doti migliori di Metsu ci sono sicuramente la furbizia e la diplomazia: una volta preso il timone, è lui che va a parlare personalmente con Diouf, Fadiga, Cissé e compagnia, convincendoli a tornare in Nazionale. È il primo passo verso la clamorosa qualificazione al Mondiale e verso la finale di Coppa d'Africa 2002, persa solo ai rigori contro il Camerun di Eto'o. In meno di un anno il Senegal è diventato una potenza continentale, potendo contare su El Hadji Diouf, Pallone d'Oro africano del 2001, primo e tuttora unico senegalese a potersi fregiare del premio.
Metsu è ormai uno di loro: ha imparato il wolof, ha sposato una ragazza senegalese, Rokhaya N'Diaye, si è convertito all'Islam (e si fa chiamare Abdul Karim) ed è l'ispiratore di un ricco contratto con Le Coq Sportif, ditta francese che diventerà sponsor tecnico (la stessa dell'Italia 1982 e dell'Argentina 1986). Ciononostante, la Federazione locale rimane pesantemente ancorata a livelli di dilettantismo inaccettabili: le amichevoli pre-Mondiali vedono i "Leoni" affrontare squadre del calibro di Bolivia, Arabia Saudita ed Ecuador, senza potersi misurare con nessuna Nazionale europea. A poche settimane dal via, il mai conciliante Diouf attacca frontalmente la Federazione: «Ci ha preparato un pre-Mondiale che è una farsa, non è stata capace di trovarci avversari seri. La verità è che noi siamo una Nazionale di professionisti, ma troppi nostri dirigenti sono dilettanti allo sbaraglio».
Non è chiaro cosa combini il Senegal nei giorni immediatamente precedenti a Francia-Senegal, match inaugurale del Mondiale 2002, l'ultimo della storia ad essere aperto dalla squadra detentrice del titolo. Pur inseriti in un girone piuttosto complesso che comprende anche la Danimarca, rivelazione di Francia 1998, e l'Uruguay che torna a un Mondiale dopo 12 anni, i "Leoni di Teranga" non sembrano dannarsi l'anima. Se di notte non dormono non è per insonnia, ma perché – più semplicemente – se la spassano, sotto lo sguardo bonario di Metsu nei comodi panni del supplente di educazione fisica che accompagna la classe di liceo in gita all'estero. «In queste ultime settimane», scrive Giampietro Agus sulla Gazzetta dello Sport, «hanno giocato spesso partitelle tra scapoli e maritati sulle spiagge di sabbia bianca di Sali, hanno fatto lunghe pennichelle nel pomeriggio e poi le ore piccole nelle discoteche della costa Atlantica e in particolare al Thiossane, il night di Youssou N'Dour che è da tempo il loro padrino. Mentre i futuri avversari disputavano partite su partite e facevano controlli e test di ogni genere, il pallone d'oro africano Diouf e i suoi compagni hanno ricaricato le batterie al sole di giorno e a luci rosse di notte».
Questa è la vulgata, non sappiamo quanto verosimile ma certamente affascinante, che anticipa l'inizio della grande avventura della Nazionale senegalese ai Campionati Mondiali 2002. Il motto è uno solo, molto semplice: “thia kaname!”, cioè "avanti". Anche troppo: la settimana prima del Mondiale, il fantasista mancino Fadiga viene accusato di aver rubato una collana d'oro dal valore di 300 mila won (circa 240 dollari) da una gioielleria di Daegu, dove la squadra è in ritiro. Nonostante le smentite di rito, in effetti è stato proprio Fadiga: qualcuno vorrebbe rimandarlo a casa, ma Metsu accetta la versione del giocatore: è stato solo uno scherzo. Thia kaname, dicevamo.
31 maggio, Seul, Senegal-Francia, prima partita Gruppo A
Il Senegal arriva al Mondiale da quarantaduesima squadra del ranking FIFA: tra le 32 qualificate è messa peggio soltanto la Cina di Bora Milutinovic. Ventuno giocatori su ventitré giocano in Francia, tra prima e seconda divisione. La colonia più folta è a Lens, dove giocano Sarr, Diouf, Coly e Bouba Diop: tutti loro hanno conteso il titolo al fortissimo Olympique Lione fino alla fine, perdendo lo scontro diretto all'ultima giornata. Molti di loro, però, sono comprimari: Sylva, per esempio, è il terzo portiere del Monaco, e l'allenatore che nelle gerarchie l'ha messo dietro a Porato e all'italiano Flavio Roma è l'uomo che aveva alzato la Coppa quattro anni prima, Didier Deschamps.
Insomma, si capisce perché i francesi non sprizzino gioia da tutti i pori all'idea di iniziare il Mondiale proprio contro di loro. Degli undici bleus titolari l'unico a giocare in Ligue 1 è il declinante Leboeuf, mentre ce n'è un altro che è praticamente senegalese: Patrick Vieira, nato a Dakar, trasferitosi in Francia quando aveva otto anni e mai più ritornato (lo farà solo l'anno dopo, nel 2003, per posare la prima pietra della sua scuola calcio, la Diambars Academy). La Francia ha in attacco il capocannoniere della Serie A (David Trezeguet, Juventus), il capocannoniere della Premier League (Thierry Henry, Arsenal), il capocannoniere della Ligue 1 (Djibril Cissé, Auxerre), assistiti dal giocatore che due settimane prima ha risolto la finale di Champions League con uno dei gol più belli della storia del calcio. Ma il calcio è lo sport del demonio, e nell'ultima amichevole pre-Mondiale contro la Corea del Sud Zinedine Zidane riporta uno stiramento alla coscia sinistra che lo costringe a saltare le prime due partite.
Il 31 maggio 2002 tutte le scuole del Senegal sono chiuse. In una grande piazza di Dakar è stato installato un enorme maxi-schermo che verrà proclamato monumento nazionale. Ma paradossalmente, nonostante la fiorente mitologia cresciuta attorno a questa partita, non sarà certo la meglio giocata tra le cinque del Senegal a questo Mondiale. È la replica quasi pedissequa di Camerun-Argentina, la partita inaugurale di Italia '90: i campioni in carica restano sorpresi dal vigore atletico e dalla spavalderia degli sconosciuti avversari, ma sembrano comunque in controllo fino a che non scoprono, ahiloro, che quel giorno la sorte guarda dall'altra parte. Un tiro a botta sicura di Trezeguet si stampa sul palo; pochi minuti dopo Diouf scappa via a sinistra e mette al centro dove il gigantesco Bouba Diop vince il concorso di rimpalli con Barthez e mette in rete praticamente da seduto. Nella notevole esultanza di gruppo, in cui l'autore del gol si toglie la maglia e la appoggia con aria solenne sul prato dando via alle danze, si noti soprattutto l'estrema serietà con cui Bouba Diop coordina le operazioni, come se si trattasse di un rito premeditato e forse imposto da un misterioso Marabout.
Il marabout è più o meno lo stregone ufficiale e in Senegal risponde al nome di Linguel Ngoy Mbaye, e all'intervallo già qualcuno sussurra che sia stato lui a deviare sul palo il tiro di Trezeguet. Praticamente cieco, il vecchio marabout ha viaggiato con la squadra portandosi dietro foglie di eucalipto, serpenti e corna di bue, come riporta France Football del 28 maggio 2002. Non scandalizzatevi: in Senegal raccontano che una volta anche un genio come Pablo Picasso confidò a un suo amico che «Il nois faut rester des sauvages», dobbiamo rimanere selvaggi, e quell'amico, suo ospite nella magione parigina di Saint-Germain-des-Prés, era Léopold Senghor.
Se di rito si tratta, bisogna ammettere che funziona: la Francia assiste come pietrificata allo scorrere dei minuti, limitandosi a cambi impalpabili che non modificano alcunché, mentre Metsu ha il coraggio e la strafottenza di chiudere con gli stessi undici che hanno iniziato la partita, a testimonianza della condizione atletica straripante dei suoi. L'antica coppia centrale Leboeuf-Desailly ha arrancato sui poderosi strappi di Diouf e Fadiga, che ha anche colpito una traversa, imitato da Henry poco dopo. Fosco presagio di un Mondiale stregato per i "Bleus": in tre partite l'attacco migliore del mondo colpirà cinque legni ma segnerà zero gol.
Al fischio finale il delirio si propaga istantaneamente a Dakar e in tutti gli angoli della terra popolati da africani, e sono tanti. Moussa N'Diaye riferisce di scene di una certa sobrietà: «Sapete cosa sta succedendo a Dakar? Avete presente che il simbolo della Francia è il galletto, no? Bene, a Dakar non c'è più un gallo vivo: li stanno cucinando e mangiando per festeggiare la vittoria dei Leoni!». Nelle ore successive, l'intero piano dell'hotel Hilton di Seul riservato alla Nazionale senegalese viene preso d'assalto dai giornalisti e dai tanti tifosi, soprattutto francesi, che vogliono scattare foto, recuperare autografi o semplicemente congratularsi con i senegalesi.
Amdy Faye è uno dei pochi giocatori a non essere accompagnato dalla moglie, che ha appena dato alla luce un bambino ed è perciò rimasta in Francia; divide la camera dell'Hotel Hilton di Seul con Omar Daf, che però dopo Francia-Senegal si chiude in camera con la sua signora, obbligandolo a gironzolare senza meta per i corridoi dell'hotel. Viene intercettato da Larry Mussenden, il presidente della Federazione Calcio delle Bermuda, che lo intrattiene facendolo parlare al telefono con i suoi amici, che non vedono l'ora di conoscere uno degli eroi che hanno battuto la Francia.
Qualche giorno dopo, i giornali ricostruiranno il modo in cui il Senegal ha preparato la partita. Contro ogni tabella di marcia esistente e consigliata, due giorni prima la squadra non si è allenata, sostituendo l'eventuale doppia seduta con lunghe ore in sauna o sul lettino dei massaggi. La notte precedente, in molti giocatori sono rimasti svegli fino alle 2 del mattino impegnati in un appassionante torneo di braccio di ferro. Il tutto con la benedizione di Metsu: «Non sono un poliziotto. Il calcio è gioia: so come lavorano i giocatori in allenamento e so cosa potranno fare in campo».
Nei giorni che seguono la vittoria sulla Francia, la delegazione senegalese fa vita da star. Arrivati all'aeroporto di Daegu dove giocheranno la seconda partita contro la Danimarca, vengono accolti da un coro di bambini coreani che urlano una parola che difficilmente conoscevano fino a qualche giorno prima: «Se-ne-gal! Se-ne-gal!». Al seguito della squadra c'è Abdoulaye Thiam, un postino di Dakar che giura di aver seguito il Senegal in ogni trasferta e in ogni Coppa d'Africa, anche quando la squadra era molto scarsa, «e dunque mi merito questo Mondiale». Tutti i giocatori lo conoscono e lo chiamano Gaindé, che in wolof significa "leone”. È uno dei tre fortunati tifosi la cui trasferta in Asia è stata interamente coperta dalla federazione locale.
La BBC intervista Diouf in ritiro, e lui dimostra di non brillare per diplomazia: «Nessuno ci rispetta, ma per fortuna noi rispettiamo noi stessi. Perciò cosa faremo? Faremo cacare sotto tutti i nostri avversari, e faremo bordello dappertutto». La BBC decide di non mandare in onda l'intervista.
Makan Sy, segretario accompagnatore della Nazionale, ha perso una scommessa con il difensore Diatta e si è tagliato i lunghi baffi che portava da quasi quarant'anni. «Ehi, dov'è Makan? Avete visto Makan?», lo prende in giro Diatta, mentre lui commenta sconsolato: «Prima di procedere al taglio, ho dovuto chiamare casa e preparare psicologicamente le mie mogli – ne ho due».
6 giugno, Daegu, Senegal-Danimarca, seconda partita Gruppo A
Dopo il successo del suo film d'esordio, a quelli che lo ammonivano “Fai attenzione al secondo film, perché è quello che ti frega”, Massimo Troisi rispondeva: e allora farò direttamente il terzo. A digiuno di commedie napoletane anni Ottanta, Metsu ostenta invece una certa rilassatezza. Le sue conferenze stampa sono spassosissime, anche a causa delle domande surreali dei giornalisti coreani.
«Signor Metsu, ci spiega che relazione c'è tra la vostra vittoria sulla Francia e la lunghezza dei suoi capelli?»
«La lunghezza dei miei capelli non è neanche lontanamente comparabile a quella della vittoria dei miei ragazzi»
«Quali sono i suoi hobby fuori dal calcio?».
«Il calciobalilla».
Sfortunatamente per il Senegal, un Mondiale non è mai un pranzo di gala: i "Leoni" soffrono terribilmente per tutto il primo tempo contro la Danimarca, che chiude in vantaggio per una sola rete solo a causa di un clamoroso abbaglio dell'arbitro guatemalteco Batres, che annulla il raddoppio di Tomasson per inesistente fallo di mano. Per la prima volta nel Mondiale Metsu mette mano alla panchina e dimostra di essere, se non proprio uno stratega alla Rommel, quantomeno un uomo estremamente fortunato. Entrano i due Camara, Souleymane e Henri, e da un pallone recuperato dal secondo (come visto all'inizio) parte la strepitosa azione del gol di Diao, uno dei più belli del Mondiale. Souleymane calcia sull'esterno della rete la palla del 2-1, ma il pareggio fa felici entrambe le squadre, anche grazie al contestuale 0-0 tra Francia e Uruguay: per andare agli ottavi basterà un punto contro la "Celeste", che è sembrata niente di che.
11 giugno, Suwon, Senegal-Uruguay, terza partita Gruppo A
Mentre la Francia conclude il suo Mondiale al contrario schierando contro la Danimarca il simulacro di Zidane e prendendone altri due, il Senegal passeggia contro l'Uruguay. Va in vantaggio con un rigore dubbio di Fadiga, concesso dall'arbitro olandese Wegereef per quello che sembra un tuffo di Diouf. Bouba Diop dilaga con una doppietta che sembra strachiudere il discorso. Sono i venti minuti più belli del Mondiale senegalese, quelli in cui i giocatori decidono di mettere da parte la prudenza tattica delle partite precedenti per liberare tutti insieme l'armonia e la potenza del loro gioco offensivo.
A fine primo tempo un numero troppo spregiudicato di Diouf accende una rissa: e mai dare un pretesto agli uruguayani per buttarla sulla garra. Così nella ripresa il matto Senegal lascia il cervello negli spogliatoi e si consegna a un Uruguay schiumante di rabbia, in campo con cinque attaccanti, che si porta sul 3-1 con Morales, trova il 3-2 con una perla da fuori area di Diego Forlan e a due minuti dalla fine pareggia meritatamente con un altro rigore inesistente per tuffo di Morales, trasformato dall'interista Recoba. Sul cartellino di Wegereef si contano dodici ammonizioni, tra cui due per una zuffa tra Diouf e Paolo Montero di cui purtroppo non esistono testimonianze video.
All'ultimo tuffo si va vicini al clamoroso ribaltone: tiraccio di Dario Rodriguez respinto con le gambe da Sylva, la palla si impenna e da due metri, a porta praticamente vuota, il malcapitato Morales spedisce di testa a lato. Mentre al fischio finale uno stravolto Metsu esulta come se fosse appena scampato a un plotone d'esecuzione, in Uruguay la scena passa alla storia come el cabezazo di Victor Pua, il CT uruguayano detto “el Gordo” per la silhouette non inappuntabile. Pua segue l'azione con lo sguardo e mima il colpo di testa che sta per eseguire Morales, prima di disperarsi davanti a quell'errore madornale. Il giorno dopo si dimetterà.
16 giugno, Oita, Senegal-Svezia, ottavi di finale
Le prime tre partite sono servite a delineare il sistema di gioco del Senegal, estremamente semplice e per questo redditizio, ideale per una competizione breve in cui conta soprattutto la difesa: due linee da quattro molto strette e robuste di scarso genio e grande praticità, con la licenza di inventare assegnata al talentuoso Fadiga, le cui scorribande da sinistra si abbinano a quelle del mattocchio Diouf. Ma c'è anche un Henri Camara in condizione favolosa e, dopo averlo testato con l'Uruguay, Metsu lo rilancia titolare al posto dello squalificato Fadiga, esterno destro di un curioso 4-3-3 in cui la punta centrale è il trascurabile Thiaw; a centrocampo, il secondo squalificato Diao è sostituito da Fayé.
La Svezia è uscita sorprendente vincitrice del gruppo di ferro del Mondiale, lasciandosi alle spalle l'Inghilterra del Pallone d'Oro Michael Owen, allenata dal connazionale Eriksson, e soprattutto la fortissima Argentina del Loco Bielsa, per molti la prima favorita del torneo, battuta dagli inglesi e bloccata sull'1-1 dagli scandinavi. Dalla panchina ogni tanto fa capolino un giovanotto di Malmoe appassionato di arti marziali e dal naso importante, che si toglierà tante soddisfazioni meno quella di segnare almeno un gol ai Mondiali (a fine carriera saranno zero, due in meno di Iaquinta): perciò il peso dell'attacco è quasi interamente sulle spalle di Henrik Larsson, bomber di origini capoverdiane che a trent'anni si è tagliato i lunghi capelli rasta e adesso segna gol a grappoli al Celtic Glasgow. È proprio lui a portare in vantaggio la Svezia di testa, mentre la difesa senegalese dorme sonni profondi a cominciare da Sylva. A fine primo tempo Henri Camara pareggia con un preciso destro dal limite dell'area, e da allora in poi è tutto un trattenere il fiato di fronte a uno dei confronti di stile più divertenti del torneo: squadre molto lunghe, tante giocate individuali, un'azione per parte.
Ma evidentemente, come spesso si sospetta durante le partite dei Mondiali, Dio – o chi per esso – è senegalese, o perlomeno il Senegal ha un Marabout molto in gamba: ai supplementari la strepitosa “ruleta” di Svensson su Diatta si conclude con un destro che si stampa sul palo, proprio come il tiro di Trezeguet nel match inaugurale; nove minuti dopo, un'altra azione personale di Henri Camara culmina in un tiraccio di mezza punta che, dopo due o tre rimbalzi sghembi, va a morire irraggiungibile nell'angolino basso alla destra di Hedman. È l'unico golden goal della storia africana ai Mondiali, accolto dal Senegal con entusiasmo ormai irrefrenabile: su Repubblica Gabriele Romagnoli racconta di un'intervista alla BBC a Diao che vorrebbe dilungarsi sulle tattiche usate in campo dai suoi compagni, ma viene interrotto da qualcuno che gli passa alle spalle e gli fa il solletico, facendolo scoppiare a ridere. Diao si volta stizzito: è Metsu.
Quant'è straniante vedere in 1080p HD immagini del giugno 2002?
22 giugno, Osaka, Senegal-Turchia, quarti di finale
Persino l'irriducibile Jean-Marie Le Pen, il vecchio leader xenofobo della destra francese che due mesi prima ha sfiorato il colpaccio sgominando la sinistra socialista e issandosi fino al ballottaggio per l'Eliseo (perso contro Jacques Chirac), osserva ammirato l'exploit dei "Leoni": «Complimenti, siete una piccola Francia». Nel quarto di finale più squinternato della storia recente della Coppa del Mondo, il Senegal incontra la Turchia di Senol Gunes, che agli ottavi ha eliminato con merito il Giappone, poche ore prima che entrasse in scena Byron Moreno. Come succede alle rivelazioni dei Mondiali, è una squadra con almeno tre o quattro giocatori in irripetibile stato di grazia: il pittoresco portiere Rustu, che gioca con gli zigomi dipinti di nero per evitare di essere accecato dalla luce dei riflettori; il tornante Hasan Sas, moto perpetuo già tristemente conosciuto dal Milan che ha contribuito a eliminare dalla Champions due volte di fila, con il Galatasaray; il piccolo trequartista Basturk, vicecampione d'Europa con il Bayer Leverkusen, che a fine anno sarà nono nella classifica del Pallone d'Oro.
In conferenza stampa Gunes ha acceso un po' gli animi facendo notare come i senegalesi vadano sempre a contrasto con i gomiti belli alti e queste parole, così insolitamente prive di quel fair play sempre riservato al Senegal dai suoi avversari, sembrano aver intimorito i "Leoni": il tempo della spensieratezza è finito, ora si va per la Coppa. Metsu ha recuperato gli squalificati e ha spostato Diouf al centro dell'attacco, lasciando le corsie laterali a Fadiga e Henri Camara. Ma la tensione e la pressione di poter entrare davvero nella leggenda piomba le gambe del Senegal, che al di là di una partenza sparata non riesce mai a dispiegarsi in velocità, grazie anche all'accortezza tattica dei turchi. Nell'unica occasione davvero clamorosa di tutta la partita, un tiro di Fadiga destinato alla rete viene respinto sulla linea dalle gambe di Camara, nel primo colpo di sfortuna di tutto il Mondiale. Daf allontana alla disperata sulla linea un colpo di testa di Basturk, dopo la puntuale uscita a farfalle di Sylva.
Il pareggio si trascina stancamente fino al 90' e oltre, senza che Metsu operi una sola sostituzione, decidendo di sfidare le stelle come aveva fatto contro la Francia. Ma questa volta il finale è amaro: un rapido contropiede turco innescato da un rilancio di Rustu manda Umit Davala a crossare, e crossare bene, per il movimento perfetto del centravanti di riserva Ilhan Mansiz, pomposamente soprannominato “il Vieri turco”, che aveva sostituito l'impresentabile Hakan Sukur.
Chiunque di noi, nei confronti del calcio africano, ha sviluppato negli anni un cinismo sufficiente per intuire il finale di questa meravigliosa avventura. Il Senegal riceve un'accoglienza trionfale al ritorno di Dakar, ma Metsu – che ha già annunciato il comprensibile addio alla Nazionale – viene circondato dalle prime ostilità. Con il passare dei giorni, per le strade della capitale compaiono scritte anonime che pongono domande inquietanti stile “Tre Manifesti a Ebbing”: “Perché hai sacrificato i Leoni?”, “Chi ha fatto la squadra?”, “Perché non hai fatto giocare le riserve?”.
Metsu viene accusato di aver lasciato che fossero i senatori a scegliere nel momento decisivo e forse l'opinione pubblica senegalese nasconde in questi interrogativi il malanimo per la solita storia dell'Uomo Bianco che sfrutta le risorse dell'Africa per interessi personali. E in effetti sembra proprio il finale anche di questa storia: Metsu accetta un'offerta esorbitante dall'Al-Ain, negli Emirati Arabi, e il gruppo si sfalda alla velocità della luce e senza alcun preavviso, come se quel golden gol subito fosse diventato regola di vita. Il Senegal mancherà addirittura la qualificazione a Germania 2006, Mondiale che vedrà quattro africane su cinque al loro esordio assoluto: il Ghana, la Costa d'Avorio, il Togo e l'Angola. Per i "Leoni", invece, la seconda chance arriverà soltanto nel 2018. Magari con la criniera ingrigita e gli artigli spuntati, ma quanti di loro ne ritroveremo?
Aliou Cissé, allora capitano, è attualmente ct della Nazionale. Porta ancora fluenti treccine e, come nelle migliori avventure, ha voluto circondarsi di amici per il ritorno sul luogo del delitto, sedici anni dopo.
Tony Sylva è il preparatore dei portieri della Nazionale, appositamente chiamato da Cissé per ridare a Mané, Koulibaly e compagni un po' di quello spirito del 2002: «Con Cissé andrei anche in guerra».
Omar Daf allena da luglio 2017 la squadra riserve del Sochaux, di cui è stato a lungo una bandiera. Anche lui sarà parte dello staff, così come Lamine Diatta, coordinatore delle attività di tutte le selezioni nazionali senegalesi: si occupa anche dell'organizzazione dei viaggi e delle trasferte.
Souleymane Camara, incredibilmente, gioca ancora. Quest'anno ha disputato 24 partite e segnato 2 gol in Ligue 1, con il Montpellier, anche se l'ultima presenza in Nazionale è datata 2012. Così come Henri Camara, ormai quarantenne, che gioca nel Fostiras, terza divisione greca, anche se quest'anno l'ha passato interamente in infermeria.
Khalilou Fadiga, com'è noto, fu fermato quand'era proprio in rampa di lancio: nell'estate 2003, appena acquistato dall'Inter, gli fu individuata una malformazione cardiaca che gli impedì, secondo le norme giustamente molto severe del CONI, di mettere piede in campo. «Io sono uno che non piange facilmente, ma quel giorno piansi a dirotto di fronte a due estranei come Massimo Moratti e Marco Branca», ha dichiarato nel 2016 a So Foot. Oggi “le gaucher magique” collabora con BeIN Sports e fa parte della Commissione Tecnica della CAF, il massimo organismo calcistico africano.
El-Hadij Diouf fu acquistato dal Liverpool per 10 milioni di sterline, tra grandissime aspettative e speranze di un titolo che mancava dal 1990. Partì forte ma il rendimento precipitò col passare della stagione, fino a finire nella polvere dopo aver sputato a un tifoso del Celtic Glasgow in una gara di coppa UEFA. Nella stagione 2003-2004 divenne l'unico attaccante della storia del Liverpool a indossare la maglia numero 9 senza mai segnare in stagione, nonostante 33 presenze. Scaricato senza pietà, trascorse altre nove stagioni in Premier, tra Bolton, Blackburn e Sunderland, senza mai lontanamente sfiorare i picchi toccati nel giugno del 2002. E oggi, manco a dirlo, è uno dei pochi bastian contrari della gestione Cissé: «Vorrei essere interpellato anch'io, ma Cissé non ascolta i consigli che provengono dall'esterno».
Ferdinand Coly, a quanto pare, ha cambiato radicalmente vita: si occupa di agricoltura e ha qualche attività immobiliare dalle parti di Mbour, una cittadina molto graziosa con vista sull'Atlantico. Lo ricordiamo anche in Italia, senza infamia e senza lode, con le maglie di Parma e Perugia, quando sensibilizzò l'opinione pubblica italiana al problema dei cori razzisti: insultato dai tifosi dell'Hellas Verona, reagì rimarcando con le dita il 2-1 finale a favore del Perugia e scatenò così una mega-rissa.
Papa Bouba Diop, dopo una bella carriera in Premier League con le maglie di Fulham e Portsmouth, si è ritirato e vive con la sua famiglia ad Arras, vicino Lens. Gestisce con discrezione le sue proprietà immobiliari a Dakar e si occupa di migliorare la qualità della vita del suo quartiere d'origine, Rufisque, alla periferia di Dakar.
Bruno Metsu tornò al centro dell'attenzione in un'intervista all'Equipe rilasciata nell'agosto 2013: «Ho appreso delle mie condizioni in modo piuttosto brutale. I medici mi hanno detto: hai tre cancri, uno al fegato, uno al colon e uno ai polmoni. Hai tre mesi di vita. Ma ho iniziato a combattere e sono ancora qui. A febbraio sono rimasto per dieci giorni tra la vita e la morte, solo il 10% delle persone sopravvive in quelle condizioni. Ma io ho un istinto di sopravvivenza pazzesco». Se ne andò due mesi dopo, il 15 ottobre 2013, in un paesino del Nord della Francia vicino Dunkerque. Ricevette un funerale con rito islamico e fu sepolto a Dakar. Ancora una volta, dopo un lungo periodo di fortuna, il destino lo colse alla sprovvista quando meno se l'aspettava.