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Senza bisogno di eroi
11 feb 2015
Come gli Atlanta Hawks sono diventati la miglior squadra della NBA e come il loro esempio sta cambiando la Lega.
(articolo)
14 min
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Quando, qualche mese fa, ho cercato di spiegare quanto successo ad Atlanta prima dell’inizio della stagione, ero convinto dentro di me che le cose per gli Hawks fossero destinate a peggiorare, e neanche di poco.

D’altronde la base di partenza era “una media squadra della mediocre Eastern Conference che gioca in un mercato di medie dimensioni con risultati medi”. Una squadra incapace di attrarre free agent, di portare tifosi al palazzetto, senza giocatori di spicco o giovani di grandi prospettive. Se a questo si aggiunge tutto quello che è successo ai piani alti dell’organizzazione, con l’allontanamento del GM Danny Ferry e la vendita della franchigia ormai prossima, c’erano tutti i presupposti per una stagione disastrosa. Nei primi 20 giorni di regular season sembrava che le cose stessero andando, come sempre, in maniera mediocre: 5 vittorie e 5 sconfitte nelle prime 10 partite, 23° in NBA per Defensive Rating, terzultimi a rimbalzo, con le uniche vittorie contro squadre destinate ai bassifondi della Lega. Addirittura una sconfitta in casa contro i Los Angeles Lakers, in una partita in cui sugli spalti c’erano, tra un desolante spazio vuoto e l’altro, più magliette di Kobe Bryant che non quelle della squadra di casa. Allora com’è possibile che quella stessa squadra abbia vinto 37 delle successive 41 partite, di cui 19 consecutive, completando il primo “mese perfetto” della storia NBA con 17W a gennaio?

Un successo non casuale

Per chi non segue la NBA con costanza, vedere gli Atlanta Hawks in cima alla Eastern Conference con così tanto vantaggio su altre squadre più rinomate (Cavs e Bulls in primis) può sembrare una sorpresa. Eppure questo successo non è episodico: gli Atlanta Hawks erano un’ottima squadra già l’anno scorso, capaci di issarsi fino al terzo posto a Est dietro Indiana e Miami con un record di 18-14 e con uno stile di gioco molto simile a quello dei San Antonio Spurs, almeno nelle intenzioni dell’allenatore - ex assistente storico di Popovich - Mike Budenholzer. Nel giorno di Santo Stefano però, i muscoli pettorali di Al Horford diedero forfait per la seconda volta nel giro di tre anni, chiudendo anticipatamente la sua stagione, e senza la loro stella gli Hawks crollarono fino all’ottavo posto ai playoff, raggiunto solo grazie a 7 vittorie nelle ultime 10 partite di regular season.

Avrebbero dovuto fare da vittima sacrificale agli Indiana Pacers in un primo turno tra testa di serie n. 1 contro n. 8 solitamente dal pronostico scontato, ma è lì che gli Hawks hanno iniziato a costruire il successo di quest’anno: pur senza Horford, Atlanta vinse gara-1 a Indianapolis, gara-3 in casa e di nuovo gara-5 in Indiana, con la possibilità di chiudere la serie alla Philips Arena. Solo un parziale di 16-4 negli ultimi 3 minuti propiziato da David West salvò i Pacers dall’eliminazione al primo turno, chiudendo poi i conti in gara-7 in casa. Gli Hawks uscirono tutt’altro che sconfitti da quella serie di playoff: finalmente la gente di Atlanta si era interessata alla squadra (“The Hawks game just became the coolest thing to do in Atlanta” si legge in questo pezzo di Grantland), il logo storico della franchigia era stato riportato in auge con un’ottima campagna marketing (ATL's Pac is back), la squadra era andata oltre i propri limiti dimostrando uno spirito mai visto nelle sonnacchiose edizioni targate Joe Johnson e Josh Smith.

Creare un vantaggio

Cosa è successo allora per far cambiare così tanto lo scenario da un anno all’altro? Di sicuro ha aiutato il ritorno di Al Horford, anche se ci è voluto diverso tempo prima di vederlo di nuovo ai livelli abituali (il record iniziale di 5-5 si spiega anche così). Ma è soprattutto l’anno in più di esperienza collettiva sotto Budenholzer a fare la differenza: gli Hawks eseguono il sistema dell’ex assistente degli Spurs alla perfezione e hanno portato i concetti chiave di spacing e timing a nuove vette di precisione.

Come avevamo già detto in occasione del titolo dei San Antonio Spurs, le spaziature e il tempismo sono i due concetti più importanti per un attacco in NBA per la creazione di un vantaggio. Ettore Messina - che di questa squadra sarebbe potuto diventare allenatore nell’estate del 2013, prima che la scelta di Danny Ferry ricadesse su Budenholzer - lo spiega così in “Basket, uomini e altri pianeti”, scritto con Flavio Tranquillo per ADD Editori:

«Il corretto timing e il corretto spacing concorrono a rendere possibile lo sfruttamento del vantaggio, cioè la situazione all’interno dell’azione in cui l’attacco ha preso il sopravvento sulla difesa battendo o tagliando fuori dalla zona delle operazioni almeno un avversario. Con la tecnica, l’atletismo, lo sfruttamento di un blocco (sulla palla o meno) creare un vantaggio è sempre più possibile nel basket moderno. Ancora più importante è però mantenerlo e ampliarlo utilizzando il più volte citato extra pass, quel passaggio che aumenta i problemi della difesa e migliora la qualità del tiro dando maggiore libertà e ritmo a chi lo esegue».

In questo momento in NBA nessuno esegue questi fondamentali offensivi meglio degli Atlanta Hawks. La cosa particolare è che, solitamente, la capacità di “creare un vantaggio” è la caratteristica principe che distingue le “stelle” dai giocatori “normali”, e a leggere il roster degli Atlanta Hawks non si direbbe che ci sia un singolo giocatore capace di creare un chiaro vantaggio per i suoi compagni perché - secondo una dozzinale definizione molto in voga nel basket NBA - “Non hanno nessuno che sa crearsi il suo tiro dal palleggio”. O, meglio ancora: “A chi danno la palla a fine partita?”. Come se avere un giocatore da Hero Ball sia l’unica condizione per poter competere per il titolo.

L’unico difetto di questa squadra è che i commentatori locali spesso sono inascoltabili.

Il potere dei 5

Gli Hawks non hanno un giocatore capace di mettersi sulle spalle l’intera squadra, ma hanno la possibilità di schierare cinque giocatori per 48 minuti, tutti capaci di palleggiare, tirare e passare ad alto livello, rendendo difficilissimo il compito per la difesa che non può “staccarsi” da nessuno per andare in aiuto, neanche da DeMarre Carroll, che starebbe benissimo nella secondaria dei Seattle Seahawks, ma in realtà tira da tre col 40%.

Da questo punto di vista, il vero “creatore di vantaggi” della squadra è un giocatore che tocca il pallone in attacco solo 31.4 volte a partita (162° in NBA), che tira solo 8 volte a partita, che ha palla in mano per meno di 60 secondi a gara pur giocando 33 minuti di media e che a marzo compirà 34 anni. La stagione che sta facendo Kyle Korver è, semplicemente, la migliore prestazione al tiro che la Lega abbia mai visto: nessuno è mai riuscito a chiudere un’annata tirando con il 51.9% dal campo, il 53.3% da tre e il 92% ai liberi. La sua percentuale “reale” (ovverosia quella che tiene conto del diverso peso dei tiri da 1, 2 o 3 punti) è del 74%, che sale oltre il 77% nelle partite in casa. È come giocare contro un bug del sistema: quando lui tira, tutti - compagni, avversari, spettatori sugli spalti e da casa - sanno già che segnerà, con un effetto di euforia collettiva del tutto simile (se non superiore) a quello di Steph Curry sulla Oracle Arena.

Quando ti trovi davanti un glitch del genere, devi per forza cambiare i tuoi principi difensivi: in una difesa a uomo, normalmente i difensori si “staccano” di qualche passo dal proprio avversario se questo si trova lontano dal pallone, in modo da poter aiutare i compagni e “restringere” il campo per gli avversari. Kyle Korver è il Centro di Gravità Permanente che cercava Battiato: terrorizza a tal punto gli avversari da costringerli a “gravitare” verso di lui come attratti da una forza magnetica, a volte lasciando completamente liberi gli altri giocatori perché troppo preoccupati da una sua eventuale uscita dai blocchi. Subire una tripla da lui non solo ha un impatto sul punteggio, ma ha un effetto elettrizzante su pubblico e compagni, rendendo gli Hawks ancora più difficili da affrontare.

Curry, Barnes, Thompson e Green stanno tutti seguendo con il corpo o con gli occhi l’uscita dai blocchi di Korver, che nemmeno toccherà la palla, lasciando completamente libero Teague (poi recuperato da Green perché è un mostro). Capito il vantaggio di avere il miglior tiratore della Lega?

Kyle Korver è un caso unico nella Lega perché non crea un vantaggio solo nel momento in cui tira, ma è l’eventualità che tiri a determinare il vantaggio per i suoi compagni: con lui in campo gli Hawks segnano 112.2 punti su 100 possessi (miglior dato di squadra) mentre quando si siede il dato crolla a 98 (peggior dato di squadra): è la stessa differenza che intercorre tra il miglior attacco della NBA e il penultimo della Lega. La sua presenza permette agli Hawks a tutti gli effetti di giocare 4 contro 4 in attacco, dando spazio a gente come Jeff Teague, Paul Millsap e Al Horford (i tre All-Star della squadra) per battere dal palleggio il proprio uomo e creare per loro stessi e per gli altri, rendendosi così sostanzialmente immarcabili.

Korver però non è un “tiratore piazzato” che si apposta in un angolo ad aspettare lo scarico dei compagni (“sarei troppo facile da marcare se rimanessi lì”, dice lui), tutt’altro: il suo continuo movimento in uscita dai blocchi è ciò che dà effettivamente inizio all’attacco degli Hawks, che in base alle reazioni della difesa costruiscono il miglior tiro possibile per uno qualsiasi dei cinque in campo, senza la ricerca ossessiva delle “prime opzioni offensive” che spesso ingolfano la circolazione di palla di squadre ben più talentuose (qualcuno ha detto OKC?). Per giocare in questo modo ci vuole una condizione fisica ottimale (per saperne di più degli assurdi allenamenti estivi di Korver, cliccare qui) e una sincronizzazione totale tra i membri della squadra, cosa che può nascere solo dalla familiarità che si crea giocando per lungo tempo insieme. Negli ultimi due anni e mezzo questo gruppo è rimasto sostanzialmente sempre lo stesso, con l’arrivo di Paul Millsap nel 2013 a rappresentare la ciliegina sulla torta di un percorso iniziato con l’addio di Joe Johnson un anno prima. E per la prima volta nella storia della Lega, il quintetto base di una squadra è stato votato come “miglior giocatore” del mese, a testimoniare come quello degli Hawks sia un caso più unico che raro all’interno della NBA.

Non esiste un rosso abbastanza scuro per rappresentarlo degnamente. Shot Charts by Michele Berra & Nicolò Ciuppani.

Una difesa da titolo

Abbiamo speso quasi 10.000-battute-spazi-inclusi, lo so, ma bisogna dare la giusta importanza (come ha fatto il nostro Fabrizio Gilardi qui) al vero salto di qualità di questa squadra: il lavoro nella metà campo difensiva. Dal 19 novembre a oggi gli Hawks hanno concesso 98.7 punti su 100 possessi agli avversari, seconda miglior difesa della Lega dietro ai Golden State Warriors per soli 3 decimi di punto. Anche qui, a leggere i nomi a roster non sembrerebbe che Atlanta abbia chissà quali “grandi difensori”, ma come per ogni cosa bisogna osservare ciò che fanno per capire dove sta il loro segreto.

La versatilità con cui mandano in crisi gli avversari in attacco viene sfruttata anche in difesa, dove ogni membro della squadra è capace di eseguire lo schema al meglio, di contenere il proprio uomo quanto basta per permettere a un compagno di aiutarlo senza dover cambiare in situazione di emergenza e di leggere gli avversari come un libro aperto, riconoscendo al volo gli schemi che vengono giocati perché hanno esperienza (tutti i membri della squadra tranne Dennis Schröder hanno più di 25 anni, ma solo Antic e Korver superano i 30), recuperando palloni perché hanno mani veloci (5° in NBA a 8.8 a partita, Millsap e Horford sono fondamentali in questo) e decidendo in fase di preparazione della partita quali tiri concedere ai singoli avversari per sfruttarne le debolezze.

Gli Hawks decidono preventivamente, come la scuola-Spurs insegna, di commettere pochissimi falli (solo i Bulls ne fanno di meno) e di disinteressarsi dei rimbalzi offensivi pur di non lasciare transizione agli avversari (sono ultimi per OREB% nella Lega, ma 6° per minor numero di punti concessi in contropiede) e, pur di proteggere l’area dove con Horford e Millsap sono un po’ sottodimensionati, concedono di tirare da tre più di chiunque altro in NBA (tanto sono da top-5 anche in quella situazione). Soprattutto, gli Hawks sono la miglior squadra della Lega a forzare gli avversari a prendersi un tiro negli ultimi 4 secondi dell’azione: quasi il 20% dei tiri degli avversari viene preso tra il 20esimo e il 24esimo secondo, costringendoli ad affrettare la conclusione per evitare di perdere il pallone. In una parola, gli Hawks in difesa sono disciplinati. E tutto questo è riconducibile al lavoro di Mike Budenholzer.

Le vittorie degli Hawks non sono dettate dalla Conference: contro la Western in questa stagione sono 14-4. Qui la vittoria nel “Super Bowl” contro i Golden State Warriors di settimana scorsa.

Un uomo capace al comando

Questo è solo il secondo anno in panchina per coach Bud, ma è come se ne fossero già passati sei: a pochi mesi dalla nomina è stato arrestato dalla polizia per guida in stato d’ebbrezza (chissà, magari stava cercando di dimenticare il tiro di Ray Allen vissuto un paio di mesi prima dalla panchina degli Spurs...), poi la stagione travagliata per via dell’infortunio di Horford, quindi la delusione dell’eliminazione in gara-7 di primo turno, e per finire le vicende societarie che lo hanno portato a diventare di fatto la “faccia” della parte sportiva della franchigia, insieme al CEO Steve Koonin. Date le circostanze in cui si è ritrovato a lavorare, è già incredibile che la squadra non sia implosa su se stessa, altro che il miglior record della Lega.

L’ambiente che è riuscito a creare all’interno dello spogliatoio è probabilmente il suo risultato più importante, la base su cui è stata costruita la serie di successi di questa stagione: all’interno degli Hawks tutti vivono in simbiosi per proteggersi da quello che succede attorno a loro, con i membri dello staff tecnico che escono fuori a cena (classico colpo alla Popovich, che a noi “europei” sembra scontato ma non lo è in NBA) e un’atmosfera di grande unità tra i giocatori, che vivono questo periodo senza gelosie e facili esaltazioni (i commentatori locali sottolineano che dopo ogni vittoria il livello di euforia dello spogliatoio non sale mai troppo, mantenendo un approccio business-like che ricorda quello degli Spurs).

Questa unità si vede benissimo dall’impatto che la panchina degli Hawks ha su ogni partita della squadra: se i membri del quintetto si sono presi le luci della ribalta con il premio di giocatore del mese, i vari Dennis Schröder, Thabo Sefolosha, Mike Scott, Kent Bazemore e Pero Antic sono una risorsa tattica importantissima che viene utilizzata da Budenholzer con grande intelligenza, mixando i quintetti in base alle esigenze del momento e facendoli giocare praticamente sempre con i titolari (Horford e Korver vengono tolti presto nel primo quarto proprio per farli giocare di più con le riserve). Questo fa in modo che solamente Bazemore abbia un impatto “negativo” in campo (-2.1 di NetRating nei 606 minuti con lui), ma anche lui quando è stato chiamato in causa ha saputo dare il suo contributo, come contro i suoi ex compagni degli Warriors dove ha segnato 11 punti importantissimi nel primo tempo. Considerando il modo in cui gioca questa squadra e tutto quello che è successo prima della stagione, non si esce da queste tre parole: Allenatore dell’anno.

La domanda che tutti si fanno, a cui cerca di rispondere @BBallBreakdown. (P.S. Occhio ai blocchi che porta Kyle Korver).

Conclusioni

Una volta stabilito che questa squadra chiuderà - a meno di infortuni gravi - la regular season al primo posto della Eastern Conference (e con discrete probabilità anche il miglior record della Lega), come per tutte le squadre la domanda successiva non può che essere: fino a dove possono arrivare ai playoff? Chi ancora non crede nelle possibilità di questa squadra fa notare che, anche nello storico mese di gennaio, a rimbalzo sono stati mediocri (16° per percentuale di rimbalzi difensivi col 75.2%) e che, soprattutto, “manca un go-to guy”, una “prima opzione offensiva” riconosciuta da tutti che sappia “crearsi il tiro da solo” e “caricarsi la squadra sulle spalle” quando conta. In una Lega in cui contano soprattutto le Superstar con la S maiuscola - dal 1999 a oggi almeno uno tra Shaq, Kobe, Duncan e LeBron è sempre andato alle Finals -, gli Hawks non ne hanno neanche una.

Ma è proprio su questo punto che gli Atlanta Hawks giocano una partita importante non solo per se stessi, ma per il futuro della Lega: con il loro successo hanno già dimostrato che un sistema basato sul collettivo e sulla pericolosità diffusa in tutti e cinque i membri del quintetto possa avere successo in regular season, così come avevano avuto successo i Denver Nuggets di George Karl giusto un paio di anni fa con 57 vittorie in un Ovest super competitivo. Quella squadra uscì al primo turno contro i Golden State Warriors anche per via dell’infortunio al ginocchio di Danilo Gallinari a inizio aprile, ma la giustificazione data da molti fu che “un sistema del genere funziona in regular season ma non ai playoff”.

Eppure i San Antonio Spurs hanno vinto l’anno scorso esattamente con i principi utilizzati da questi Atlanta Hawks oggi, ovvero giocando a basket “as it should be played”, senza individualismi e puntando sulla squadra più che sul talento individuale, che in ogni caso non manca.

Se gli Hawks riuscissero ad arrivare in Finale, ci saranno molti luoghi comuni da dover riconsiderare nel mondo della NBA.

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