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Senza dimenticare da dove vieni
18 lug 2016
La scalata di Medhi Benatia ai vertici del calcio.
(articolo)
11 min
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A ventitré anni, quando arriva all'Udinese, Medhi Amine Benatia El Moutaqui non ha mai giocato in una massima serie e si è già rotto un ginocchio. Con la Nazionale marocchina ha fatto 5 gare ufficiali e non ne ha vinta nessuna.

Oggi, cinque estati dopo, raggiunge la squadra più forte d'Italia come rinforzo prezioso, dopo due stagioni nel grande Bayern di Guardiola.

«Il percorso conta poco, l'importante è arrivare in alto» ha detto Benatia una volta: «Mi hanno chiuso tutte le porte, sono passato dalla finestra». La verticalità del percorso sembra un suo chiodo fisso. Alla fine del primo, straordinario anno all'Udinese, non riusciva a prendersi gli elogi: «Non è che l'inizio, devo guardare più in alto».

Cresce formalmente nell'Olympique Marseille, che però non punta mai su di lui. Lo esclude dalla prima squadra, quasi con accanimento. Benatia è il capitano della formazione giovanile, compagno di stanza di Samir Nasri, eppure non è neanche tra i ragazzini che l'OM manda per protesta sul campo del PSG, nella celebre gara del campionato 2005/06.

Il club lo presta due volte. Prima al Tours, Ligue 2, in una stagione che si chiude con la retrocessione. Poi al Lorient, nella massima serie, ma dove Benatia gioca una sola gara: un sonoro 0-3 in Coppa nazionale contro un Paris Saint-Germain ancora naïve, dove la stella è Pauleta e i qatarioti non sono arrivati. Comunque, per la dirigenza di quel Lorient, come racconta un articolo dell'epoca, Benatia “non è una priorità” perché ci sono già difensori come Marchal, Genton e Michaël Ciani,

Infine l'OM lo lascia andare al Clermont Foot 63, ancora nella serie cadetta. Il tecnico marsigliese di allora, José Anigo, riconoscerà troppo tardi l'errore: «Forse ci siamo sbagliati, di sicuro non abbiamo creduto in lui”. Lui che ricorderà Anigo in questi termini: “Mi aveva dato il disgusto per il calcio».

Durante le due stagioni a Clermont-Ferrand, si rompe i legamenti del ginocchio. Poi, a detta di un assistente dell'allenatore, «lavora come un pazzo per trovare la forma migliore». Benatia è frustrato. Spesso guarda alla tv le partite di Ligue 1, poi telefona al suo agente e gli dice: «Hai visto che ha fatto? Posso giocare al posto suo!». È frustrato, ma reagisce con lucidità. L'autocontrollo è una parte importante del suo carattere.

In realtà, prima dell'OM, aveva fatto una stagione nelle giovanili del Guingamp, e soprattutto era passato per l'Institut national de football (INF) di Clairefontaine. Forse la migliore tra le accademie d'élite supervisionate dalla Federcalcio francese, dove si è diplomata gente come Anelka, Gallas e Henry. E anche Matuidi e Ben Arfa, coetanei di Benatia. Lui no. Lui è stato cacciato. Oggi racconta che ci fu una rissa con gente più grande, si difese con delle forbici e finì in commissariato. Il direttore gli gettò addosso una maledizione: «Chi viene buttato fuori da qui, non diventa un professionista. Non è mai successo».

Invece la maledizione non si avvera, l'impossibile accade e la Storia non si ripete. «Dal momento in cui si è seri, tutto è possibile», sostiene lui. Che la serietà pare averla come compagna, tanto nel rigore da professionista quanto nella gravità senza allegria.

È difficile trovare immagini di Benatia che si diverte. Quando sorride, si direbbe lo faccia per educazione. Non sembra indirizzare la gioia verso una positività neanche quando esulta dopo un gol: dai tempi della Roma fa il gesto della mitragliatrice, ancora senza veri sorrisi. E perfino quando gioca alla consolle, lo fa con la concentrazione dei momenti solenni.

Il disagio della famiglia all'Oktoberfest. La faccia dei figli. Medhi non può sottrarsi alla festa e al travestimento, ma specifica che si limiterà alla birra analcolica. E nella foto ufficiale della squadra, come anche Ribéry e Shaqiri, posa senza il boccale in mano.

Di padre marocchino e madre d'origine algerina, Medhi è nato in Francia nel 1987. Il 17 aprile, come Nick Hornby esattamente trent'anni prima. In Francia il padre Ahmed ci era arrivato giovanissimo, la madre ci era addirittura nata.

È cresciuto nella banlieue parigina di Evry, dove suo padre giocava nella squadra locale e dove lui avrebbe poi mosso i primi calci, da attaccante. Il luogo di nascita però è la limitrofa Courcouronnes, neanche quaranta chilometri a sud di Parigi. Il rapper Ol Kainry, che viene da qui, canta: “Parce que je n'suis qu'un nègre dans la société / Parce que d'où j'viens les jeunes ne partent pas tous en été” (“Perché non sono che un negro per questa società / Perché da dove vengo io non tutti i ragazzi non partono d’estate”). Un posto che non arrivava ai duecento abitanti fino all'urbanizzazione degli anni Settanta, quando rientrò nel piano di decentramento demografico delle Villes nouvelles. Oggi conta 15mila abitanti.

Pochi mesi dopo Benatia, ci è nato Yohann Thuram, portiere con qualche presenza nel Monaco e nell'Under 21 francese. E da qui viene anche Maxime Brunerie, il neonazista che nel 2002 fallì un attentato a Jacques Chirac, durante la parata sugli Champs-Elysées nell'anniversario della presa della Bastiglia.

Dal 1994 la città di Courcouronnes ha una propria moschea. Benatia è un musulmano praticante, prega cinque volte al giorno. Di recente e con orgoglio, sua madre ha raccontato come abbia sostenuto economicamente alcune moschee in Marocco.

Piccolo Medhi.

Da bambino, ammira il portiere del Bayern Monaco e della nazionale tedesca al punto da presentarsi alla gente dicendo: “Je m'appelle Oliver Kahn”.

Molti anni dopo, Benatia gioca proprio con la maglia dei bavaresi e proprio Kahn lo critica duramente per le sue prestazioni. "Der Titan" si è ritirato dal 2008, ma a chi è cresciuto col suo mito potrebbe fare soggezione. Non a Benatia, che commenta: “Ha bisogno di far parlare di sé, restare sotto i riflettori...”.

In una bella intervista a Onze Mondial, quando il giornalista si stupisce che abbia votato Lewandowski, Vidal e Pogba al Pallone d'Oro, Benatia attacca: «Se si vuole parlare di calcio, con me si può. Nessun problema, conosco il mio sport. Se si deve votare come al solito, allora ok, datemi Messi, Ronaldo e Neymar. Io voto per chi mi pare. Se non siete contenti, levatemi il diritto di voto».

D'altronde lui è così. Prendere o lasciare. E non se lo nasconde: «Dico sempre quello che penso, è il mio difetto più grande».

A un certo punto della sua vita, sembrava dovesse sfiorare il cielo solo per piombare di nuovo a terra. Succedeva nel momento forse più delicato nella carriera di un calciatore, intorno ai vent'anni, quando si possono tradire le promesse di talento come pure compiere il passo in avanti.

Sembrava fosse destinato alla velleità. L'accesso all'INF di Clairefontaine e l'allontanamento. L'occasione mancata con il Lorient, quando finalmente poteva esprimersi in Ligue 1. Un provino a diciott'anni col Chelsea di Mourinho, addirittura la proposta di un triennale, e il rifiuto dello stesso Benatia: «L’estero mi faceva un po' paura. Forse mi sarei perso». Era stato raccomandato anche da Drogba, con cui si erano incrociati nell'anno a Guingamp.

In prestito al Tours nel 2006/07.

Al Clermont le sue prestazioni sono di un'altra categoria. Ma sembra non bastare, come spiegherà lui stesso col senno di poi: «Se giochi in Ligue 2 e non segni venti gol come Giroud, nessuno si accorge di te». Nessuno tranne l'Udinese, che se lo porta a casa nel 2009 senza pagare niente per il suo cartellino.

Nelle tre stagioni che verranno, Benatia recupererà tutta l'attenzione che non aveva ricevuto. Titolare indiscusso, continuo nel rendimento. Dopo il primo anno, i friulani rifiutano la cessione al PSG di Leonardo. Sarebbe stato un ritorno trionfale a casa, ma lui non si scompone e anzi continua a migliorare nelle due stagioni seguenti.

I piedi educati, la capacità di lettura e d'anticipo, una certa eleganza del suo calcio, dialogano sorprendentemente bene con i 190 centimetri d'altezza. Nelle giovanili del Guingamp, le sue caratteristiche spinsero l'allenatore a schierarlo a centrocampo.

Il ruolo di dominante al centro della difesa ha lo stesso segno del suo carisma naturale. Non a caso Rudi Garcia, oltre a esaltarne l'intelligenza e le doti tecniche, lo descrisse come “un uomo di spogliatoio”, e dello spogliatoio Guidolin lo indicò leader nel 2011. Medhi aveva saputo farsi valere già alla prima stagione italiana e lo stesso faceva al primo anno in una piazza come Roma. Non stupirebbe se diventasse un ottimo allenatore. Di sicuro ha molto il senso del gruppo, come testimonia il suo fastidio per il premio come miglior giocatore arabo: «Questo è uno sport collettivo, un premio individuale del genere mi sembra un po' forzato».

Quando si tratta di scegliere la Nazionale di riferimento, non sembra avere dubbi: «Mi considero marocchino, j’ai pris le côté de mon père». Le 7 presenze con la rappresentativa francese Under 17 sono poco significative. Sceglie i Leoni dell'Atlante ed esordisce nel 2009 con la Nazionale maggiore. In Marocco peraltro ha qualche familiare, tra cui la nonna che lui va a trovare il più possibile.

Il rapporto col padre Ahmed si irrigidirà, tempo dopo, per ragioni strettamente personali, come ha spiegato sua madre. Ahmed Benatia arriverà ad accusarlo pubblicamente di non prendersi cura della famiglia ed essere cambiato dopo aver raggiunto il successo.

Dal 2013, Medhi è capitano del Marocco. Ha partecipato due volte alla Coppa d'Africa, ma in entrambi i casi i maghrebini sono stati eliminati nel girone. Ci riproveranno nell'edizione 2017, alla quale si sono qualificati lo scorso marzo, come anche cercheranno di raggiungere il Mondiale 2018, nonostante un girone di ferro che si aprirà a ottobre. Da leader della selezione, Benatia non ha mancato di lamentarsi dei compagni che giocano in club marocchini: non perché non abbiano qualità, ma perché “se ne fottono, non mordono il pallone in allenamento, sono contenti già solo di esserci”.

La Roma è la consacrazione. La Roma, dove il suo agente gli aveva sconsigliato di andare perché l'offerta era bassa e non si giocavano le coppe europee. La Roma, con cui si lascerà male, in una polemica violenta con la società, uno scambio di accuse senza eleganza.

Sarà la migliore stagione della sua carriera, con prestazioni superbe e 5 reti, una delle quali bellissima e del tutto diversa dalle sue solite. Nel 2013/14 è anzi il difensore che segna di più in Italia, lui che di gol ne aveva fatti anche all'Udinese, dove lo chiamavano “Benagol”, di solito arrivando sulle seconde palle dopo un calcio piazzato, quindi ancora grazie alla capacità di lettura. La Roma finisce seconda, lui viene ceduto.

E all'Olimpico torna da avversario solo pochi mesi dopo, la notte che il suo Bayern travolge per 1-7 i giallorossi. Viene tempestato di fischi. «Quando gioco, non guardo in faccia nessuno. Non ho amici» diceva a ridosso di quella gara, che segna un passaggio simbolico importante. Indietro non si torna.

Quelli in Germania li definisce “due anni un po' infelici” e dà molta responsabilità agli infortuni. Spiega che, fosse stato per lui, se ne sarebbe andato già nello scorso mercato invernale.

Nelle prime interviste, i media tedeschi ipotizzano il peso del confronto col leggendario Beckenbauer, ma lui sbuffa, dice che sono cose da giornalisti: «Nessun calciatore, quando arriva in un club, pensa a chi ci è stato prima di lui. Come anche il prezzo del suo trasferimento. Un calciatore non ci pensa».

I bavaresi sono la vetta del calcio professionistico. E Medhi può fermarsi, dopo tutta la fatica per arrivare. A febbraio scorso gli chiedono se si considera tra i migliori difensori al mondo, lui dice di no, e che “non è più un problema”.

Nei mesi a Monaco, si è permesso un cameo nel video di SiannAllemagne della rapper Sianna, esattamente quando (al minuto 0:54) dice: “Fais-moi la passe, poto démarque-toi / J’ai l’flow, la classe, Medhi Benatia”.

A ventisette anni, riceve la prima e unica espulsione della sua carriera. Contro il Manchester City, nel girone della Champions 2014/15, per un fallo da ultimo uomo. Il dato è particolarmente interessante se associato alle statistiche delle ammonizioni, perché Benatia ha subito ben 71 cartellini gialli in 271 partite da professionista nei club. Sa fermarsi sempre al momento giusto, insomma, l'autocontrollo che riesce a esercitare è spaventoso.

Da quella Champions League, che Benatia gioca da titolare, il Bayern uscirà in semifinale. Vincerà però la Bundesliga. La formula si ripeterà l'anno seguente: Bundesliga, eliminazione in semifinale di Champions, con l'aggiunta della Coppa di Germania. Benatia arrivava nella squadra del Fünferl, dei trionfi del primo anno di Guardiola, ma non sembra pesargli la raccolta imperfetta di questo biennio. Anche perché sono i primi trofei che vince in carriera.

Arriva alla Juventus in prestito oneroso (3 milioni) con diritto di riscatto (altri 17 milioni). Ritrova il suo amico Pjanić, compagno di stanza alla Roma, che tempo fa ha definito il «più forte centrocampista del mondo» e che a propria volta lo definì il «miglior difensore della serie A».

Si sente culturalmente vicino all'Italia piuttosto che alla Germania. Questa è la motivazione prima che dà al suo ritorno. Se la prende con il clima e con gli infortuni, ma è anche innegabile che nel secondo anno al Bayern abbia perso terreno nelle gerarchie.

Pur ribadendo di preferire una difesa a quattro, si è messo a completa disposizione per la linea a tre più congeniale ad Allegri. Dovrà battagliare per trovare spazio.

Quando arrivò alla Roma, continuò a tenersi in contatto con i compagni dei tempi del Clermont, che ora venivano intervistati perché erano stati suoi compagni, e dicevano: «Non ha mai dimenticato da dove viene».

La gavetta nelle serie inferiori è stata motivo di vicinanza e spesso argomento di confronto con Franck Ribéry, un altro che ci ha messo del tempo prima di convincere il mondo. Medhi l'ha confidato: «Tutte quelle peripezie mi hanno insegnato ad apprezzare dove sono».

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