Negli ultimi 20 anni la NBA è cambiata radicalmente. Due decenni fa, Michael Jordan si apprestava a conquistare il suo sesto e ultimo titolo in carriera; sulla lega aleggiava lo spettro di uno scontro frontale tra proprietari e giocatori che poi avrebbe portato al lockout; dei giocatori scelti nel Draft 1998 oggi soltanto in due (Dirk Nowitzki e Vince Carter) fanno ancora parte della NBA, mentre altri due sono già passati dall’altra parte della barricata (Tyronn Lue, allenatore dei Cleveland Cavaliers, e Sean Marks, General Manager dei Brooklyn Nets), senza considerare quelli ritirati.
Dal 1997-98 a oggi 13 squadre diverse hanno avuto il miglior record a fine regular season, 16 squadre diverse (di cui ben 10 a Est) hanno disputato le Finali NBA e 9 di queste 16 hanno conquistato almeno un titolo. Nel mezzo di generazioni che hanno cambiato la storia e il gioco del basket, una squadra è stata una imperturbabile fonte di costanza all’interno del panorama della National Basketball Association, disputando sempre i playoff e raggiungendo le 50 vittorie in ogni stagione in cui fosse possibile poterlo fare (cioè tutte, ad eccezione dell’annata da 50 partite del lockout) e comunque non scendendo mai sotto al 60% di vittorie. Quella squadra, ovviamente, sono i San Antonio Spurs.
Gli Spurs per come li conosciamo, però, potrebbero essere finiti a 7 minuti e 52 secondi dalla fine del 3° quarto di Gara-1 delle finali di conference del 2017. L’uscita dal campo di Kawhi Leonard, infortunatosi in seguito a un contatto sospetto con Zaza Pachulia, ha contribuito ad alimentare la rimonta dei Golden State Warriors, che avrebbero vinto la stessa Gara-1 e poi la serie per 4-0. Da quel momento, Kawhi Leonard ha giocato soltanto nove partite con la maglia di San Antonio: 210 minuti in cui l’MVP delle Finali 2014 è sembrato piuttosto lontano dall’All-Star e dal candidato MVP ammirato nelle due stagioni precedenti.
A cambiare, da quel momento, non è stato soltanto l’apporto di Leonard alla causa Spurs, ma anche la stessa storia recente dell’unica costante continua delle ultime due decadi NBA. Ma è davvero possibile affermare che il “caso Leonard” significhi l’inizio della fine dell’era Spurs?
Da Zaza al silenzio
Da quel contatto con il lungo georgiano, sullo stato fisico e atletico di Kawhi Leonard è calato il silenzio più assordante possibile. Pochissimi aggiornamenti durante la serie contro gli Warriors, che dopo l’uscita di scena della stella Spurs non ha sostanzialmente avuto storia. Durante l’off-season l’attenzione dei media in realtà si è concentrata sulla frattura (poi rientrata) tra LaMarcus Aldridge e Gregg Popovich - che comunque ha rappresentato un qualcosa di anomalo, una crisi che a San Antonio mediaticamente non si viveva da tanto tempo. Pure nell’estate 2000, quella in cui Tim Duncan fu vicino a lasciare il Texas per unirsi agli Orlando Magic, le cronache parlano di quella che fu una gestione “moderata” della crisi.
È soltanto all’inizio della pre-season che Popovich, con la dirigenza nero-argento, inizia effettivamente ad alludere a una indisponibilità di Leonard nel medio periodo: il 30 settembre, infatti, Pop comunica che il numero 2 avrebbe probabilmente saltato buona parte del pre-campionato, se non tutto, rendendo noto come non vi fosse una data fissata per il suo rientro. Frase ripetuta anche due settimane dopo, alla vigilia della prima di regular season. Sette giorni dopo, il 20 novembre, circolano le prime immagini “pubbliche” di Leonard in quasi tre mesi, ed è un video quantomeno strano.
La dirigenza si affretta a sottolineare che Leonard aveva appena completato una sessione di terapia, giustificando così il suo passo zoppicante, ma il giorno dopo Popovich si esprime in maniera ancora più criptica, parlando invece di come il suo giocatore “stesse migliorando”, senza fornire dettagli ulteriori.
Dopo un intero mese di novembre passato senza aggiornamenti definitivi e alimentato con frasi criptiche e sbrigative, Kawhi Leonard fa il suo debutto stagionale in maglia Spurs il 12 dicembre, con 13 punti in 15 minuti nella sconfitta di San Antonio in casa dei Dallas Mavericks.
Da lì inizia un periodo di un mese nel quale Leonard disputa nove partite con la maglia neroargento (record 5-4), non scendendo in campo nei back-to-back e rimanendo fuori anche in una mini trasferta (tre partite) sulla costa Ovest tra il 7 e l’11 gennaio. L’ultima presenza stagionale a oggi di Leonard è datata 13 gennaio: una netta vittoria Spurs sui Denver Nuggets, con un buon Kawhi da 19 punti e 8 rimbalzi in 28’.
Ad oggi, la miglior versione 2017-18 di Kawhi Leonard.
Quattro giorni dopo quella partita, gli Spurs inseriscono Leonard nella injury list a tempo indeterminato, con il giocatore che a inizio febbraio vola a New York per consultarsi con altri specialisti e allenarsi, seguito da alcuni membri dello staff degli Spurs, nelle strutture della Players Association a Manhattan. E nel silenzio più totale, fino almeno all’All-Star Weekend.
Perché, alla prima media availability dopo il weekend di Los Angeles, Gregg Popovich esce fuori dal copione con una dichiarazione del tutto inusuale, affermando che sarebbe «stupito di rivedere Leonard in campo nella stagione 2017-18», una dichiarazione da molti intesa come direttamente rivolta al giocatore, restio a tornare in campo nonostante il via libera ricevuto dai medici.
Dopo due settimane di rumors più o meno approfonditi sulla crisi del rapporto tra Leonard e gli Spurs, nel weekend è circolata la voce (poi smentita dai fatti) del ritorno in campo dell’MVP delle Finali 2014 nella notte tra giovedì e venerdì, quando San Antonio affronterà i New Orleans Pelicans in uno scontro fondamentale in chiave playoff. Leonard non ci sarà perché sta ancora attendendo il via libera dai medici che lo hanno visitato a New York, oltre che concordare con Popovich il suo ritorno in campo.
Avvicinandoci al possibile rientro, dopo 10 mesi di rumors, dichiarazioni incrociate e smentite, vale la pena anche chiedersi quanto sia vero e plausibile che il rapporto tra Leonard e San Antonio si sia incrinato e come si è arrivati a questo punto.
Mal di pancia
La storia d’amore tra Kawhi Leonard e i San Antonio Spurs è una storia iniziata indubbiamente a fari spenti.
Preso alla numero 15 del Draft 2011 dagli Indiana Pacers, appena dopo i gemelli Markieff e Marcus Morris (sigh), l’avventura del prodotto di San Diego State nello stato del basket in realtà non inizierà mai: proprio la notte del 23 giugno 2011 Leonard viene scambiato ai San Antonio Spurs insieme ai diritti di Davis Bertans e Erazem Lorbek in cambio di George Hill, considerato ai tempi il futuro del reparto esterni degli Spurs.
Dopo 18 mesi di addestramento, con Leonard stabilmente in quintetto già a metà dell’anno da rookie ma anche 42 partite di regular season saltate nelle prime due annate in NBA per infortuni vari, il breakthrough per Leonard avviene nei playoff della stagione 2012-13, quelli della cavalcata di San Antonio fino alle Finali NBA e, in particolare, fino al tiro di Ray Allen in Gara-6. Nonostante un Danny Green da record, sono in molti a dire che se Allen non avesse segnato quel tiro - e quindi se San Antonio avesse conquistato il suo quinto titolo quella sera a Miami - il titolo di MVP delle Finali sarebbe potuto andare a Leonard (che chiuse quella serie con 14.6 punti e 11.1 rimbalzi di media, con 2.0 rubate a partita e il 51% dal campo marcando costantemente un LeBron James al massimo dei suoi poteri).
Lampi di quello che sarà.
Quello che è successo nelle tre stagioni successive lo sappiamo tutti: prima il titolo di MVP delle Finals nel 2014, vinto senza aver mai registrato un’apparizione all’All-Star Game; poi i due premi consecutivi come Difensore dell’Anno nel 2014-15 e nel 2015-16; il tutto coronato dalla splendida stagione passata, in cui a tratti la candidatura a MVP di Leonard è sembrata più di un semplice nome “outsider” dietro il duopolio Russell Westbrook-James Harden, guadagnandosi anche 9 voti per il premio (e 500 punti totali, validi per il 3° posto).
I successi in campo e l’idea che Leonard potesse rappresentare “il Nuovo Duncan” degli Spurs tendevano però a scontrarsi con alcune piccole cose che, magari, ai tempi venivano prese sotto traccia ma che oggi, a 10 mesi da quel contatto con Pachulia da cui tutto ha avuto inizio, assumono una nuova luce.
L’origine di tutto fu proprio l’immediato periodo dopo la vittoria del titolo 2014: i rumors infatti affermano che Leonard chiese l’estensione al massimo contrattuale già nell’estate post titolo - alla vigilia dell’ultimo anno del contratto da rookie - ma San Antonio preferì temporeggiare, sicura che in ogni caso avrebbe pareggiato qualunque offerta, essendo Leonard un Restricted Free Agent per l’estate 2015. Il tempo guadagnato da Buford e Popovich permise agli Spurs di vincere la caccia a LaMarcus Aldridge, col rinnovo di Leonard che slittò a dopo la firma dell’ex Blazers per motivi di salary cap.
Nonostante sia stata indubbiamente la scelta più sensata, non possiamo neanche escludere che Leonard, alla vista di altri giocatori rinnovati al primo momento utile al massimo contrattuale (ad esempio Damian Lillard, Anthony Davis e, più recentemente, Joel Embiid) possa essersi sentito “dato per scontato” da parte della dirigenza degli Spurs.
È un assunto azzardato, ma è improbabile che le frizioni e la tensione palpabile che sembra trasparire dalle dichiarazioni - o dalla totale assenza di dichiarazioni - delle parti coinvolte negli ultimi 10 mesi abbia un’origine vicina nel tempo. Ma non è nemmeno detto che il “problema” sia soltanto tra Leonard e gli Spurs.
Ad esempio, è notizia dei giorni scorsi che le trattative tra Leonard e la Jordan per il rinnovo di un contratto in scadenza a ottobre si siano interrotte. L’offerta discussa parrebbe essere un quadriennale da più di 20 milioni complessivi, un contratto che rispecchierebbe il suo status di uno dei migliori giocatori NBA. Attualmente Leonard guadagna meno di 500.000 dollari, per un brand che non paga nessun giocatore più di 10 milioni all’anno.
Questi punti servono anche a mostrare la realtà di un giocatore lontano da quell’etichetta di “Nuovo Duncan”, affibbiata principalmente per il suo essere taciturno e la sua allergia ai riflettori mediatici. Non è detto che questo debba essere un male per gli Spurs, ma indubbiamente rappresenta una fase diversa di una squadra che, per costruire attorno a Leonard (che in estate potrebbe firmare un’estensione quinquennale da circa 219 milioni di dollari), potrebbe dover perseguire un modus operandi diverso da quello che l’ha reso la squadra più costante e vincente dell’ultimo ventennio NBA.
Detto da Duncan...
Life without Kawhi
Sin dal suo arrivo in NBA, avere Kawhi Leonard ha significato, per San Antonio, anche la possibilità di dover disputare alcune partite senza di lui. “The Claw” non è mai sceso in campo, in una singola regular season, più delle 74 volte della passata stagione, e come già detto in precedenza buona parte di queste assenze si sono concentrate nelle prime stagioni.
La stagione di San Antonio era iniziata bene: prima del debutto stagionale di Leonard, gli Spurs erano saldamente terzi a Ovest con un record di 19 vinte e 8 perse, in corsa per una stagione da 56/57 vittorie. I nero-argento avevano sfruttato un calendario positivo, ma non c’era nulla che potesse lasciar immaginare quanto sarebbe successo nei tre mesi successivi.
Una delle migliori versioni Spurs nei primi due mesi del 2017-18.
In realtà, col passare del tempo, tutto a San Antonio è andato peggiorando, e non soltanto per il “caso Leonard”. Dal 9 dicembre a oggi, gli Spurs hanno vinto soltanto 18 delle successive 41 partite, e per la prima volta dal 1996-97 rischiano seriamente di non partecipare ai playoff.
Col passare del tempo stanno iniziando a vacillare quei record di longevità stabiliti nel corso delle ultime 20 stagioni. Ad esempio, la sconfitta sul campo di Oklahoma City nel weekend ha significato la fine di 20 stagioni consecutive con un record vincente in trasferta, record assoluto tra i quattro “Major Sports” americani.
La summa della “crisi Spurs” sta nelle difficoltà di San Antonio contro squadre dal record positivo: tra le squadre dal record vincente, solo Milwaukee e gli L.A. Clippers hanno fatto peggio di San Antonio contro chi supera il 50% di vittorie. Considerato che il calendario di San Antonio è il secondo più “duro” della Lega da qui fino a fine stagione, e che con la sconfitta contro Houston gli Spurs sono scivolati fuori dai primi otto posti a Ovest, significa che hanno dilapidato il vantaggio di sei gare che avevano a metà dicembre.
Nelle stagioni passate San Antonio non aveva mai mostrato problemi così grossi nelle partite saltate da Kawhi Leonard, e pur con la perdurante assenza del due volte difensore dell’anno, gli Spurs sono la seconda difesa migliore della lega. Ma l’attacco, senza un facilitatore come il due volte All-Star - e contemporaneamente con le assenze saltuarie di due altri “fulcri offensivi” come Aldridge e Rudy Gay - non riesce a sostenere le ambizioni di una squadra che soltanto 10 mesi fa era a quattro vittorie dalle Finali NBA.
Nonostante il calendario difficile, sembra davvero complicato immaginare San Antonio fuori dalla postseason. La notizia davvero drammatica per loro è che il peggio, come spesso accade, deve ancora venire.
L’estate e il bivio
Negli ultimi anni non sono mancate, all’interno dell’NBA, le sorprese nel periodo della Free Agency. Proprio gli Spurs si sono resi protagonisti di una delle firme più importanti del decennio, con l’arrivo in Texas di LaMarcus Aldridge. Con l’arrivo di LMA, San Antonio ha smentito una consuetudine che vedeva gli Spurs costruire il proprio roster via Draft e scambi, e non via Free Agency.
Non è la prima volta che San Antonio si presenta a una Free Agency con un roster in là con l’età e bisognoso di rinnovamento. Era avvenuto lo stesso nell’estate 2011, quando una pesantissima eliminazione al primo turno dei playoff contro i Memphis Grizzlies costrinse gli Spurs a cambiare registro per inseguire l’obiettivo rappresentato dal quinto titolo NBA.
Allora la soluzione furono la trade per Leonard, col rischio di sacrificare un giocatore dai margini di miglioramento poco chiari (col senno di poi, per gli Spurs è andata decisamente bene) come George Hill e l’esplosione di Danny Green. Anche stavolta c’è, in casa, del materiale umano interessante.
Su tutti Dejounte Murray, la point guard che nei piani della franchigia dovrebbe sostituire per importanza e carisma Tony Parker già a partire della prossima stagione, dopo un paio di annate da apprendista come avvenuto già per Leonard. Giocatori come Davis Bertans, Kyle Anderson e Bryn Forbes rappresentano elementi di rotazione utili e già “formati” dall’accademia Spurs, ma ogni scelta sul futuro dovrà innanzitutto partire dall’estensione a Leonard.
Foto di Mark Sobhani/Getty Images.
Rispetto al 2014, San Antonio a questo giro ha decisamente più da perdere nel temporeggiare per un rinnovo di contratto, e arrivare a questo tipo di decisione dopo una stagione così travagliata è uno stress test non da poco. Dopo due mesi di silenzio mediatico totale, Kawhi Leonard, a domanda diretta, ha confermato la sua intenzione di voler rimanere uno «Spurs a vita».
A differenza di altre stelle, Leonard non dovrebbe sentire la pressione di “dovere vincere” nelle sue decisioni legate alla Free Agency, ma legarsi per cinque anni a una squadra il cui futuro nel medio-periodo è tutto da verificare: per quanto Popovich sarà ancora l’allenatore di San Antonio? Quando (e se) arriverà il tempo di Ettore Messina? E quanto durerà ancora la reggenza di R.C. Buford all’interno della dirigenza?
Le cifre ingenti garantite a Pau Gasol e Patty Mills fino all’estate 2020 (quasi 30 milioni tra i due) verosimilmente obbligheranno la dirigenza neroargento a dover “pagare” per liberarsi di almeno uno dei due contratti e aumentare lo spazio a disposizione per migliorare il roster o quantomeno poter puntare a essere protagonisti del mercato free agent dopo il rinnovo di Danny Green, che dovrebbe uscire dal suo contratto.
La lezione più grande data dagli Spurs all’intero mondo NBA negli ultimi 20 anni è stata quella di essere sempre in grado di rinnovarsi, sia nei giocatori che nello stile di gioco, alternando stili difensivi e offensivi con la costante capacità di anticipare le tendenze stilistiche della Lega. Tale rinnovamento continuo è sempre stato messo in atto dalle stesse persone, autentiche architravi dell’intera franchigia. Lavoro e crescita, sempre all’insegna di un ermetismo totale che ha sempre impedito che da San Antonio uscisse il minimo rumorio: la stessa storia di Duncan vicinissimo, nel 2000, a lasciare gli Spurs per Orlando fu poi discussa e confermata ufficialmente dieci anni dopo.
Adesso, comunque vada la fine di questa incredibile stagione (San Antonio dovrebbe chiudere con un record di almeno 12-2 nelle ultime 14 partite per confermarsi squadra da 50 vittorie), per San Antonio arriva forse la prova più difficile di tutti, poiché senza precedenti: decidere se ripartire da zero, con o senza - per dirla con le parole di Doc Rivers, secondo quanto riportato da Adrian Wojnarowski nel suo podcast - «la cosa più vicina a Michael Jordan esistente nel basket di oggi», oppure se provare il possibile e l’impossibile per confermarsi, sempre e comunque, nell’élite della Western Conference e dell’intera NBA.
Per certi versi, e forse per la prima volta nella loro storia, l’epicentro dell’intera lega si trova proprio all’ombra dell’Alamo.