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La Serie A può essere esportata all'estero?
14 feb 2025
Un confronto tra le NBA Global Games e la Supercoppa Italiana.
(articolo)
12 min
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IMAGO / AFLOSPORT
(copertina) IMAGO / AFLOSPORT
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La settimana scorsa sono stato a Parigi per seguire l’ormai consueto appuntamento con l’NBA in Europa di fine gennaio. Ho trovato quello che mi aspettavo: l’attenzione spropositata per Victor Wembanyama ovviamente, e il successo di pubblico e critica, come certificano i numeri dell’evento, chiamato con un pizzico di enfasi eccessiva NBA Global Games. Certo, questa edizione è stata condizionata dall’essere organizzata a casa del prossimo dominatore della Lega, ma sono in linea con quelli messi su l’anno scorso da Cleveland Cavaliers e Brooklyn Nets, o l’anno prima da Chicago Bulls e Detroit Pistons.

La buona riuscita è sotto gli occhi di tutti: i record di coinvolgimento annunciati dalla stessa NBA, il doppio sold out (istantaneo) dell’Accor Arena, l’atmosfera intorno all’evento, il boom di audience televisiva, l’interesse generato sui social e via dicendo, nonostante si trattasse di due partite di regular season di relativa importanza, e con ben poco pathos (140-110 la prima, 136-98 la seconda). E ancora, allontanandoci dal campo: tutti gli spazi (tra cui la NBA House dentro lo storico Carreau du Temple) e gli eventi di contorno (l’NBA Jam, il programma Jr. NBA), passando per clinic tecnici, l’inaugurazione di campetti e qualche incontro con i protagonisti. Coinvolgendo nuove e vecchie glorie della lega, puntando sul fil rouge con “Les Spurs” (l’eredità di Tony Parker e Boris Diaw), e - cosa più importante in assoluto - riscuotendo un’adesione massiccia (ed entusiasta) da parte del pubblico locale. O meglio: regionale, e su vasta scala, visto che sono stati ben 53 i Paesi rappresentati sugli spalti di Bercy.

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Un pellegrinaggio da tutta Europa e non solo. Un maxi-evento in cui gli appassionati hanno riempito ogni spazio con la loro presenza. E così, tra appuntamenti a porte aperte e altri riservati ai media, osservando come la lega si presenti al grande pubblico, che tipo di interesse intercetti, e come si lasci raccontare e apprezzare, a un certo punto mi è venuta in mente una recente dichiarazione di Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega Serie A. Ho ripensato a quella controversa intervista del mese scorso in cui rispondeva allo scetticismo sulle trasferte mediorientali del calcio italiano e sul formato “final four” della Supercoppa. Un flash che mi ha portato a riflettere sulla distanza tra il contesto in cui atterrano le sue parole, e quello che mi circondava a Parigi. E quindi, sugli anni luce che separano le due galassie.

Oltre al giudizio positivo sulle edizioni saudite della Supercoppa (obbligato), e al rinnovato ottimismo per quelle in arrivo (idem), De Siervo aveva parlato della possibilità di esportare un giorno - «nei prossimi tre anni» o giù di lì - anche una partita di Serie A nella regione. «Imitando NBA e NFL», aggiungeva. Eppure l’entusiasmo ondivago, diciamo, con cui il pubblico saudita ha accolto le sfide del nostro calcio, a Jeddah prima e Riyadh poi, alimenta da anni discussioni tra tifosi e addetti ai lavori. E innesca polemiche scontate, visto il tessuto sociale e politico in cui si inseriscono, nonché l’imbarazzo malcelato con cui la federcalcio ha sempre sentito di doversi giustificare per tutto ciò.

Vedere in televisione le semifinali di Supercoppa, giocate a migliaia di chilometri di distanza, in un’atmosfera spettrale, con vuoti sugli spalti se non tribune semideserte, ha fatto un certo effetto. E come raccontavo due anni fa proprio dall’Arabia Saudita, l’aria che si respira all’interno dello stadio e intorno alle squadre coinvolte è ancora più strana. Si ha la sensazione di partecipare a un qualcosa di artificioso, poco spontaneo, in un certo senso “finto”. E per giunta poco apprezzato.

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Dimenticate la corsa all’ultimo biglietto per le NBA Global Games - quelle ad Abu Dhabi incluse, non è (solo) un fatto geografico; e scordatevi tutto l’entusiasmo e la mole di eventi extra-campo che compongono i pacchetti viaggio in partenza da New York. L’expat della Supercoppa si svolge su un terreno molto più arido, e non solo per il clima tipico della penisola, ma per la vitalità con cui viene accolto. L’amministratore delegato della Serie A ha ammesso di aver provato a trascinare il tifo organizzato di Milan, Inter, Juventus e Atalanta, insieme agli stessi club, nella trasferta saudita. Sì, dall’Italia, nel tentativo di assicurarsi - invano - una cornice dignitosa e qualche buco in meno nelle tribune.

Sarebbe riduttivo, però, limitarsi a parlare di affluenza negli stadi. Quella è una conseguenza. È prima di tutto l'intensità della connessione tra prodotto e pubblico locale a mancare, e forse anche una comprensione più profonda del contesto da parte dei nostri emissari. Se da una parte, per fare due nomi, Shaquille O’Neal e Oscar Robertson sono stati riconosciuti e acclamati dai tifosi arabi e francesi, da Riyadh invece ci sono arrivate le immagini dei fischi per il minuto di silenzio dedicato a Gigi Riva. Un episodio abbastanza desolante, ed esplicativo delle fragili fondamenta su cui poggia l’intero progetto.

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L’idea di allargare l’iniziativa a una partita di campionato, insomma, stride fin troppo evidentemente con i riscontri giunti dall’Arabia Saudita. A maggior ragione ascoltando la premessa sulla possibile espansione - poco brillante, se non altro come scelta comunicativa - dello stesso De Siervo: «per rispetto dei tifosi» (?), ha detto l’amministratore delegato, «non sarà la miglior partita». Nessuno stimolo e spunto particolare quindi, niente partita secca, niente “big” - e come si dice in questi casi, cosa potrebbe andare mai storto? La domanda sorge spontanea. Del resto, se non tirano Fiorentina, Atalanta, Napoli e Lazio ad esempio - lo abbiamo visto chiaramente negli ultimi anni - cosa potremmo aspettarci da una sfida (decidete voi chi-contro-chi) qualsiasi di metà stagione?

Con questa domanda in testa, il mio pensiero è tornato alle NBA Paris Games cui ho assistito, Cavs-Nets e Spurs-Pacers; e anche alle prime NBA Abu Dhabi Games, nel 2022, che avevo raccontato da inviato per Ultimo Uomo. Una manciata di partite qualsiasi, nel migliore dei casi a metà regular season (peraltro ben più lunga di qualsiasi equivalente europeo), o altrimenti semplici amichevoli prestagionali (è il caso degli Emirati Arabi Uniti). Senza niente in palio e senza quelle franchigie del basket NBA che si potrebbero paragonare, per fanbase e appeal globale, ai club più noti del calcio italiano (Milan, Inter e Juventus, cioè gli unici che hanno riscosso interesse nel Golfo).

Eppure, le NBA Global Games funzionano. Nessuna edizione recente si è rivelata o è stata definita “un fallimento”, nemmeno nel contesto ancora acerbo del Golfo Persico. Come reso noto dalla stessa lega, anzi dalla sua neonata costola NBA Arabia, le trasferte ad Abu Dhabi del 2022 e 2023 hanno portato ad un aumento rispettivamente del 33% e 25% nella sottoscrizione di abbonamenti League Pass in quest’area, dove oggi si stima la presenza di oltre 15 milioni di appassionati.

È anche per merito di questi eventi, e per come l’NBA sa sfruttarli, che il basket a stelle e strisce è diventato un fenomeno planetario, e una delle realtà sportive con i ricavi più alti in assoluto, insieme alle altre major statunitensi e alla Premier League inglese. Le Global Games vengono apprezzate, studiate ed emulate dai competitor (a proposito, diffidate di chi parla di crisi di ascolti), perché rappresentano una parte non marginale - e in un certo senso anche una fotografia - del vasto progetto di globalizzazione della lega, incarnato da David Stern prima e Adam Silver poi.

Da qualche anno l’NBA ha pure una succursale in Africa (BAL), e chissà che il momento dell’Europa non sia dietro l’angolo (se ne è parlato molto di recente). Alla base di tutto, c’è una solida fanbase, fortemente fidelizzata e in crescita un po’ ovunque, dalla Cina all’Europa, passando per America Latina, Filippine, Giappone e svariati altri mercati. Con tutti i benefici materiali che ne conseguono: diritti televisivi, vendita di merchandising, sponsorizzazioni, capitali in arrivo da ogni angolo del mondo.

Insomma, quando la lega va all'estero - lo fa da decenni e a svariate latitudini - è certa di poter contare su una community che ne conosce i codici e il DNA, e che considera le Global Games un’occasione esclusiva, imperdibile. Non per caso De Siervo e tanti prima di lui hanno indicato NBA e NFL come punti di riferimento, e a volte le hanno anche usate come forme di legittimazione. Perché le leghe americane «giocano in Europa e in tutto il mondo da sempre», ha detto l'amministratore delegato della Serie A, «lo fanno con successo e questa cosa paga, ma non si capisce perché diventa uno scandalo se lo fa la Serie A». A dire il vero la risposta è abbastanza scontata, nel caso specifico: lo scandalo cui allude De Siervo è figlio della destinazione prima ancora che dell’idea, e quindi dell’ombra dello sportwashing dietro i grandi eventi in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti.

È fin troppo evidente, comunque, che per una serie di fattori la Supercoppa non rappresenti una vetrina molto attraente per il pubblico. Sportivamente parlando, pur esportando un prodotto migliore, sulla carta, delle partite qualsiasi cui si è fatto riferimento, ma anche da un punto di vista commerciale. Per intenderci, la cinque giorni organizzata nella capitale saudita non somiglia neanche un po’ allo show confezionato dalla NBA, e forse non ci somiglierà mai. Un po’ per fattori intrinseci: la concentrazione di talento del basket americano non è replicabile, per questioni strutturali; e lo stesso si può dire del branding internazionale della Lega, delle franchigie che la compongono e dei suoi ambassador.

Ciò che impatta maggiormente, però, è il background culturale e sportivo, ovvero la progettualità, la continuità, la trasversalità e la lungimiranza con cui Stern e Silver si sono rivolti a un’audience globale, per decenni. Fino a farla propria, e a proporsi legittimamente come indiscusso punto di riferimento della pallacanestro mondiale. L’NBA è riuscita davvero a crearsi intorno un'enorme ed eterogenea domanda, conservando sempre una forte credibilità. Il calcio italiano invece, e più in generale europeo, ha colto l’occasione saudita con un approccio più (mh) pragmatico. Cioè lasciarsi coprire di soldi, una tantum (non letteralmente) e andarsene con tanti saluti.

Una cosa che ho sempre notato, è quanto fedelmente i protagonisti di tutte queste trasferte incarnino il contesto che rappresentano. E il progetto sottostante, con tutti i suoi punti di forza e debolezza. Lo si scorge, ad esempio, nello stato d’animo con cui vivono e raccontano l’esperienza, nella disponibilità al confronto con media e tifosi locali, nel coinvolgimento in attività extra-campo. Quando Wembanyama dice che «i San Antonio Spurs dovrebbero giocare una partita a Parigi tutti gli anni», non ci sembra dica nulla di strano. Certo, direte, si tratta della città in cui è nato e cresciuto, del pubblico che lo ha accompagnato fino al Draft 2023, e che poi lo ha abbracciato (due volte, contando anche le Olimpiadi) nelle nuove vesti di stella NBA, che lo ha accolto come un eroe e coccolato come un figlio. Il suo gradimento era scontato, d’accordo. Ma non si tratta di un caso isolato, è soltanto il più accentuato.

Nonostante la densità del calendario della regular season e la lunghezza della traversata oceanica, i giocatori e gli allenatori non perdono occasione per spendere una buona parola, spontanea o meno che sia, per le NBA Global Games. Chi per la chance di “restituire” a un pubblico con cui ha poche occasioni di contatto diretto, chi per farsi conoscere, chi per la responsabilità di veicolare il messaggio globale della lega (un concetto sottolineato dallo stesso Wembanyama), e chi semplicemente per la curiosità di connettersi con nuovi luoghi e culture. Ad esempio, ho ascoltato Bobby Portis (Bucks) raccontare con entusiasmo la visita alla Gran Moschea dello Sceicco Zayed, e ho visto Chris Paul e compagni (Spurs) partecipare a sfilate di moda per la fashion week parigina e farsi pizzicare dalle telecamere sulle tribune del Parco dei Principi, per la sfida tra PSG e Manchester City di Champions League.

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All’estremo opposto dello spettro troviamo Maurizio Sarri - portavoce (reazionario) di una vasta moltitudine - che nel gennaio 2024, ai tempi allenatore della Lazio, non ha usato giri di parole per esprimere la sua disapprovazione per il progetto in Arabia Saudita. «Questo è tutto tranne che sport», diceva «è un prendi i soldi e scappa. Prendiamo tutto quello che si può in maniera miope, andiamo a fare l’elemosina in giro per il mondo».

Di sicuro Sarri ha dato voce (e colore) a un’opinione piuttosto popolare tra i colleghi, e condivisa all’unanimità o quasi dal pubblico. Va detto che la sensazione del “prendi e scappa” è alimentata anche dal contesto, e quindi dalla fretta propria del governo saudita (per ovvi motivi) in questi progetti. Anche con la Saudi Pro League, il campionato di calcio locale, si osserva la stessa dinamica, lo stesso disallineamento tra domanda e offerta. Oppure con la Supercoppa spagnola, anch’essa dislocata nel Golfo, o quella turca, la cui ultima edizione è implosa per motivi politici. O ancora, cambiando sport, con l’opaco Six Kings Slam di tennis. Tutti terreni aridi, su cui non c’è stato un lavoro - decennale e continuativo - di semina, come accaduto invece nel caso della NBA (che non per niente può imbarcarsi e tornare da Abu Dhabi con una credibilità intatta, oltre a tutto il resto nella valigetta).

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Semplicemente, dove l’interesse sportivo è limitato, o comunque ancora grezzo, e dove la domanda commerciale si mostra così debole, è impossibile organizzare qualcosa che si distacchi dal “prendi e scappa” descritto da Maurizio Sarri. Per ottenere una crescita organica di un certo tipo, in Arabia Saudita soprattutto, è necessaria molta pazienza, un po’ più di brillantezza commerciale e quella lungimiranza di cui oggi non si vede traccia.

Sarà così per sempre? Non è detto. Tra qualche anno, forse, guarderemo in modo diverso a tutto ciò. Magari racconteremo di aver assistito a un inizio un po’ brusco di questa espansione, ma alla fine riusciremo ad essere in pace con il posto che il calcio italiano avrà trovato nel panorama dell’intrattenimento sportivo in Arabia Saudita. A patto, perlomeno, che il prodotto venga valorizzato e che l’evento venga apprezzato, dal pubblico locale e non solo. È difficile, però, immaginare davvero questo scenario, soprattutto se pensiamo che il debutto a Jeddah risale al 2018, e che in passato si era già andati in Qatar (2014, 2016), in Cina (2009, 2011, 2012, 2015), negli Stati Uniti (1993, 2003) e una volta perfino in Libia (2002). Lasciando in eredità poco o niente.

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