C'era molto attesa intorno all'Atalanta in Champions League nei giorni successivi al sorteggio. La squadra di Gasperini ci ha abituati a un calcio intenso e aggressivo, sempre in grado - almeno nel contesto italiano - di prendere per il collo le squadre e di stritolarle per larghi tratti delle partite. Eravamo curiosi di vedere i volti affannati e sorpresi degli avversari di fronte a un sistema di gioco così peculiare, che non lascia respiro, ma per ora non è andata così. Il cammino degli orobici sembra già compromesso: evidentemente si è sottovalutata la dimensione tecnica della Champions League, o meglio, ci si è dimenticati di alcune lacune della Serie A rispetto all'élite del calcio europeo.
Nella selezione dei giocatori in Italia, infatti, la tecnica non viene tenuta in grande considerazione. Il nostro campionato, specie nella classe media, accoglie invece tradizionalmente giocatori con intelligenza tattica e applicazione senza palla, anche a discapito di quelli più creativi in fase di possesso. Le marcature a uomo dell'Atalanta in Italia trionfano perché spesso le avversarie non hanno la dose di talento palla al piede necessaria per eludere i duelli individuali che, a catena, possono creare scompensi nel sistema di Gasperini. In Europa la prospettiva cambia totalmente, anche fuori dai migliori club, e Dinamo Zagabria e Shakhtar ne sono state la dimostrazione.
Da anni ormai gli ucraini collezionano trequartisti, soprattutto brasiliani, capaci di nascondere palla e dribblare anche nei pertugi di campo più ristretti. Le squadre di Serie A faticano a limitare lo Shakhtar per via della loro tecnica, mediamente superiore anche a quella di molti top club italiani. Basterebbe ripensare ai duelli vinti da Taison e Marlos o alla fatica di un centrocampista di solito efficiente come De Roon contro un giocatore non certo trascendentale come Alan Patrick. Il brasiliano riceveva spesso di spalle, veniva aggredito da De Roon, ma grazie a tecnica e tempismo sapeva far scorrere il pallone per superare in un secondo momento l’avversario e aprirsi il campo fronte alla porta. Il gol del pari di Junior Moraes nasce proprio da questo tipo di situazione, con Alan Patrick che finta di toccare il pallone, manda fuori tempo De Roon e può puntare l'area per poi servire il compagno in profondità.
Se le caratteristiche della squadra del Donbass erano note, forse l'Atalanta non si attendeva difficoltà simili contro la Dinamo Zagabria alla prima giornata. I croati non hanno il talento diffuso degli ucraini ma, oltre a ottimi piedi come quelli di Petkovic e Orsic, hanno uno dei giocatori più formidabili del girone nel fondamentale del dribbling, e cioè Dani Olmo. Il catalano ha mandato a monte il sistema di marcature di Gasperini a partire dalla propria abilità in uno contro uno e quando non ha potuto saltare l'uomo ha comunque guadagnato falli preziosi, spezzando il ritmo e impedendo ai nerazzurri di entrare in partita. Le caratteristiche di Olmo sono un rompicapo che difficilmente la Serie A propone ai lombardi e che segnano una buona parte del divario tra il nostro calcio e il resto d'Europa.
Le differenze con le altre scuole calcistiche
Lo scorso maggio avevamo pubblicato un pezzo dedicato ai migliori specialisti del dribbling in Italia. Avevamo discusso delle eccellenze della Serie A e avevamo proposto un confronto con gli altri principali campionati. In una classifica delle squadre delle grandi leghe europee, però, la prima italiana per dribbling era proprio l'Atalanta, appena ventesima, mentre nelle ultime cinque posizioni ce n'erano ben tre, col Cagliari ultimo.
Oggi nella top 20 ci sono Sassuolo, Fiorentina e Roma, mentre tra le ultime cinque di italiana c'è solo il Genoa. La situazione sembra migliorata, insomma, anche se il campione di partite è piuttosto ridotto quindi è inutile trarre considerazioni troppo generali. E bisogna dire che sono arrivati alcuni calciatori estrosi come Ribery, Leao, Falco e Castrovilli a migliorare la situazione.
Rimane però l'impressione che la percentuale di giocatori in grado di saltare l'uomo in Serie A sia ancora bassa rispetto al resto del continente. Una sensazione forte nei match dell'Atalanta, ma anche in altri confronti tra le nostre grandi e le squadre di medio-alto livello del calcio europeo. Pensiamo alle due eliminazioni in Champions dello scorso anno, Roma-Porto e Juve-Ajax. Le italiane partivano favorite, superiori soprattutto dal punto di vista fisico (pensiamo a giocatori come Dzeko, Zaniolo, Emre Can, Matuidi). Nella tecnica, però, nel trattamento del pallone nello stretto, gli avversari si sono dimostrati migliori, nonostante non appartenessero in teoria all'élite del calcio mondiale. Otavio, Brahimi, Corona, Tadic, Ziyech, Neres: tutti calciatori che rendevano il gioco tra le linee di Porto e Ajax migliore di quello di Juve e Roma, sprovviste di singoli in grado di creare superiorità numerica negli spazi stretti.
Proprio il dribbling in spazi stretti, magari con l'uomo addosso, è il tipo di iniziativa individuale che crea più scompensi nelle strutture difensive. La Juve, senza Dybala nel secondo tempo del ritorno e senza Douglas Costa per gran parte dell'eliminatoria, non aveva nessuno specialista del fondamentale. La Roma aveva Perotti e Zaniolo, giocatori con buoni numeri negli uno contro uno, accumulati però in zone di campo e in contesti in cui l'influenza del dribbling sullo sviluppo offensivo è meno pesante: negli isolamenti in fascia per l'argentino e in campo lungo per l'italiano. Nessuno insomma, in grado di fare la differenza tra le linee e nei mezzi spazi, le zone in cui la rifinitura diventa più redditizia.
I dribblatori della Serie A
Intendiamoci, in assoluto alla Serie A i dribblatori non mancano. Al momento, anzi, la graduatoria è guidata da giocatori dall'elevata cifra tecnica. Tra i calciatori con almeno trecento minuti troviamo in testa Jeremy Boga (5 dribbling riusciti ogni 90', anche se ha giocato solo 395 minuti), che già lo scorso anno abbiamo imparato ad apprezzare come un'eccellenza del fondamentale, il migliore per combinazione di tecnica e velocità insieme a Douglas Costa. È significativo però che Boga non sia un titolare fisso nel Sassuolo, con De Zerbi che spesso preferisce Defrel, più affidabile nei ripiegamenti difensivi.
Douglas Costa non fa parte della lista per via dell'infortunio, ma se giocasse potrebbe scalare quasi certamente le gerarchie. Nelle prime partite si è già notato come Sarri abbia cercato di valorizzarne il dribbling soprattutto per creare varchi nel mezzo spazio di destra e rendere più minacciose le combinazioni di catena del 4-3-3. Un uso po' diverso rispetto a quello di Allegri, più interessato ai dribbling del brasiliano per creare direttamente occasioni, magari con cross e scatti da fermo, che non per aiutare il palleggio.
Al secondo posto c'è Franck Ribery, splendido protagonista di questo inizio di stagione (3,4). Le sue doti elusive tornano utili per organizzare le transizioni dei "viola" e stanno facendo stropicciare gli occhi agli spettatori del Franchi. Nonostante gli anni e il minor numero di scatti, resta intatta la capacità metafisica di danzare sulla linea di fondo – forse il miglior giocatore della storia a dribblare in quella zolla di campo – e di passare in mezzo a coppie di avversari. Ribery spezza i raddoppi non con la velocità pura, ma grazie alla sensibilità con cui frena per crearsi un varco e poi riparte. Si potrebbe usare in proposito una descrizione di Lorenzo Buenevantura, preparatore atletico di Guardiola, dei dribbling di Iniesta, altro fuoriclasse abituato a sgusciare in mezzo ai raddoppi: «Non c'entra la rapidità, quanto sia veloce; ciò che conta è il modo in cui si ferma e il momento in cui, successivamente, riprende a muoversi».
Una gestione di frenata e ripartenza lampante nel famoso break contro il Milan che porta al rigore dell'1-0. Il primo tocchetto laterale rallenta per un istante impercettibile la corsa e gli permette di crearsi il varco tra l'argentino e Romagnoli. Un corridoio che riesce a percorrere grazie a una frequenza di tocco indifendibile per qualunque difensore.
Torna sul podio Dybala (3,2) dopo una stagione fuori dalla top ten per la prima volta dall'ultimo anno a Palermo. La tecnica nello stretto della "Joya" è fondamentale per sostenere un sistema come il 4-3-1-2 che predilige lo sfondamento per vie centrali e quindi in spazi asfittici. La vera sorpresa della Top 10 però è "Pippo" Falco (2.9 per 90 minuti, appena sotto a Rodrigo de Paul, 3), già giocatore di culto per molti appassionati.
Il nostro paese non produce dribblatori tecnici probabilmente dai tempi di Cassano, per questo fa così strano vedere un italiano in questa classifica. Il salentino è pericolosissimo quando può rientrare sul sinistro, ma ha grande inventiva anche spalle alla porta circondato da avversari. Accarezza il pallone con tutta la superficie del sinistro, suola compresa, e lo mantiene sempre sotto controllo con un'ottima frequenza di tocco. Nonostante la statura non è abile solo nello stretto ma anche sul lungo: senza grandi picchi di velocità, durante la corsa copre bene la sfera e si mette davanti agli avversari che non riescono a sporcarne la conduzione. Il Lecce era abituato nelle serie minori a stazionare nella metà campo offensiva. In A però deve passare molto tempo nella propria trequarti: i dribbling di Falco sono utili per dare respiro alla difesa e rendere gli attacchi dei giallorossi potenzialmente pericolosi anche lontano dalla porta avversaria.
Tutti i giocatori citati (tranne Costa), insieme a Ilicic, Leao, Zaniolo, Correa, De Paul e Castrovilli riempiono le prime posizioni. La qualità è superiore rispetto allo scorso anno, quando c'erano Ansaldi, Gervinho, Bakayoko e Chiesa, tutti efficaci nel dribbling solo con molto campo intorno. Le eccellenze della Serie A hanno numeri simili ai colleghi della Liga, ma i numeri di Messi e Hazard sono di certo destinati a salire (il primo non ha raggiunto ancora i 300 minuti di gioco, il secondo deve ancora ingranare con il Real Madrid ma è uno dei migliori al mondo in questo fondamentale). In questo inizio di stagione il confronto è squilibrato soprattutto con la Premier, dove Zaha raggiunge e Boufal supera i cinque dribbling ogni 90' (5,4). Qui sono addirittura in dodici a metterne a segno più di tre ogni 90'. E il netto divario di qualità rispetto alla Premier forse si può leggere soprattutto leggendo questi numeri.
Dietro il centrocampo
Insomma, esclusi i nomi citati in Italia non esistono molti giocatori in grado di saltare l'uomo con continuità contro avversari chiusi, il tipo di esecuzione più decisiva in un calcio dai ritmi serrati e con sempre meno spazi. L'aridità tecnica della nostra classe medio-bassa è evidente. Le “piccole” non hanno quasi mai individualità in grado di fare la differenza contro squadre chiuse, che poi è il contesto tattico più frequente in Serie A. Per dire, non c'è, nell'equivalente italiano del Crystal Palace o dell'Eibar, uno Zaha o un Orellana.
E non bastano i numeri per captare la scarsa considerazione del dribbling in Italia. Analizzare questo fondamentale significa innanzitutto ancorarlo al tipo di esecuzione, alla zona di campo, alle conseguenze che crea sulla manovra e quindi al modo in cui si relaziona col collettivo. Gli uno contro uno di Kulusevki o di Gervinho ad esempio, vanno contestualizzati nel sistema reattivo del Parma di D'Aversa, in cui le ali hanno il compito di condurre transizioni lunghe palla al piede. O ancora, gli ottimi numeri di Meité (2,5 dribbling per 90') testimoniano il dominio fisico del Torino di Mazzarri e del francese, abile nei duelli quando può condurre e magari ingaggiare lo spalla a spalla con l'avversario.
Questo tipo di dribbling fa però la differenza ad alti livelli solo in contesti peculiari. In un calcio in cui anche le squadre meno blasonate riescono ad allestire sistemi di non possesso sofisticati, è sempre più forte una lotta per gli spazi. E l’unico fondamentale in grado di creare spazio anche laddove non c’è è proprio il dribbling in spazi stretti. Per le migliori squadre ormai il dribbling non è semplicemente una risorsa individuale a cui attingere in situazioni d'emergenza. Si tratta di uno strumento offensivo inserito in maniera organica all'interno del sistema di gioco e funzionale allo sviluppo collettivo. Basterebbe rifarsi alle parole di Guardiola: «Io voglio giocatori che sappiano dribblare. Niente di più, è la principale richiesta che faccio. Voglio terzini che dribblino e centrali, mediani, mezzali e ali che dribblino».
È giusto considerare Guardiola il termometro degli sviluppi del calcio moderno, e se attribuisce tanta importanza al dribbling è per il contesto in cui spesso sono costrette ad attaccare le sue squadre (e ormai tutte le grandi del calcio europeo): contro sistemi chiusi e volti a negare spazi al centro. Uno dei principi cardine del gioco di posizione è quello di attivare continuamente le ricezioni alle spalle delle linee avversarie, in particolare dietro il centrocampo. È quella la zona da cui è più facile generare problemi per la difesa. Contro squadre compatte o aggressive nelle uscite però i ritagli di tempo e spazio sono sempre più risicati. Chi riceve deve essere in grado di sfruttare ogni centimetro d'erba per mantenere il possesso ed evitare di farsi chiudere alle spalle dai difensori o di farsi raddoppiare dal centrocampista. In questo senso, è fondamentale avere grande sensibilità nel primo controllo e nel dribbling nello stretto, così da girarsi subito, far fuori il difensore in uscita e dar vita alla rifinitura o alla peggio mantenere il possesso in corridoi angusti. «La grande qualità dei club davvero forti emerge in prossimità dell'area avversaria, i loro giocatori non perdono la palla. Le grandi squadre non perdono la palla vicino l'area avversaria».
Per assecondare questa visione Guardiola sta trasformando due ottimi dribblatori che giocavano da ali come Bernardo Silva e David Silva in mezzali (anche se il primo gioca ancora spesso sull'esterno destro). Nel City spesso gli interni devono alzarsi dietro il centrocampo avversario per dettare il passaggio tra le linee. La loro grande tecnica nella protezione e nel dribbling anche spalle alla porta, spesso eseguito col primo controllo, permette alla squadra di rifinire negli ultimi trenta metri, o comunque di assestare il possesso a ridosso dell'area.
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Un'evoluzione simile, come segnalava questo articolo di Ecos del Balon, a quella del Betis di Setién lo scorso anno, con Canales, Lo Celso o Guardado da interni di centrocampo: «Carvalho (il mediano del 3-5-2 betico nda) […] può percorrere la linea di passaggio per servire giocatori che, trequartisti per formazione, sono abituati a manipolare spazio e tempo spalle alla porta, ben orientati e con gran controllo di palla, qualcosa che ripropongono come nessuno i Silva di Guardiola, perfetti per gestire lo spazio tra le linee».
Non è un discorso legato solo alle mezzali o ad allenatori fedeli al gioco di posizione. Tutte le squadre migliori ormai cercano di dominare la fascia tra centrocampo e difesa. Pensiamo ai movimenti di falsi nove come Firmino e Tadic, o a quelli di due ali come Hazard e Salah. Tutti giocatori in grado di estendere la propria influenza sull'intera trequarti grazie a controllo orientato e dribbling, sia frontale sia di spalle. Quanti tra i calciatori di Serie A dominano con la tecnica spazi così congestionati e utili per la manovra? Davvero pochi, e bisognerebbe chiedersi perché. La risposta è complicata, ma è di certo legata sia alla selezione dei giocatori da parte delle squadre, sia alla proposta di gioco degli allenatori.
Il dribbling in Italia: una dote innata?
In Italia non sono molti i tecnici interessati a sfruttare in maniera razionale le aree dietro il centrocampo avversario, o comunque a costruire in spazi stretti. Di conseguenza i dribblatori tecnici, i giocatori più utili in quelle situazioni, sono pochi e quasi tutti appartenenti a Juve, Atalanta e Lazio. Si preferisce collezionare mezzali abili in copertura o esterni fisici e disposti a rientrare all'altezza del centrocampo; in fase offensiva si prova a rimediare con un calcio più diretto possibile, sia in transizione che in attacco posizionale, che non richieda un grado elevato di tecnica. La palla circola in orizzontale e, per paura di perdere il possesso e regalare transizioni, si salta il centrocampo verticalizzando.
Molte partite di media-bassa classifica di Serie A non sono il massimo dello spettacolo anche per l'assenza di giocatori in grado di rompere le linee col dribbling. Le squadre che preferiscono difendere basse per attaccare in campo aperto non hanno quasi mai soluzioni per aggirare difese chiuse: si pensi ad esempio alle difficoltà di una squadra da transizione come la Fiorentina contro Udinese e Brescia. O ancora ai problemi del Torino, una squadra fisicamente brutale ma non a proprio agio se c'è da attaccare in maniera ordinata col pallone, che spesso schiera due punte pure come Belotti e Zaza per generare seconde palle e cross anche dalla trequarti.
Si crede spesso che il dribbling sia una dote innata e in molti casi lo è. Lo spunto e la creatività dei migliori dribblatori purtroppo non sono trasmissibili col solo allenamento. È anche vero però che si può facilitare l'esecuzione dell'uno contro se il collettivo occupa il campo in maniera razionale e se il singolo impara a rapportarsi con lo spazio e l'avversario vicino a sé.
Basterebbe prendere come esempio le mezzali del Sassuolo dallo scorso anno. De Zerbi è riuscito a migliorare la dimensione tecnica e l'attitudine al dribbling dei suoi giocatori, responsabilizzando i singoli all'interno del sistema e subordinando le giocate individuali allo sviluppo di squadra. Si pensi all'evoluzione di Locatelli, Duncan e Bourabia, non proprio dei dribblatori. Le mezzali neroverdi, per seguire i principi del gioco di posizione, dovevano ricevere oltre le linee. Di conseguenza dovevano osservare campo e avversari per decidere prima di ricevere cosa fare del pallone. La soluzione più utile era il controllo orientato in direzione del compagno da servire, con cui spesso riuscivano a saltare il marcatore. Se non c'era possibilità di scaricare subito i centrocampisti di De Zerbi avevano imparato a scansionare lo spazio e a capire dove poter eventualmente indirizzare il pallone per mandare a vuoto l'intervento avversario. Duncan, Locatelli e Bourabia non sono certamente David Silva o Lo Celso, ma hanno imparato a gestire il pallone in maniera utile e il sistema ha reso facilitato l'esecuzione dei dribbling. Nei suoi migliori momenti il Sassuolo non è stato mai banale, sia contro il pressing alto sia contro quelle difese chiuse che di solito rendono noiose molte partite di Serie A.
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Un altro allievo di De Zerbi che però quelle doti ha sempre dimostrato di averle è Stefano Sensi. Oggi uno dei principali protagonisti dell'Inter di Conte, forse il più importante per far avanzare il pallone. Non solo Sensi si abbassa per aiutare Brozovic, ma sa anche alzarsi per ricevere dietro il centrocampo avversario e far alzare il baricentro dell'Inter in fase di possesso. Col pallone nell'ultimo terzo di campo Sensi non è uno di quei trequartisti con un talento innato per il dribbling. Con i giusti riferimenti di spazio però individua prima di ricevere la direzione in cui controllare e sa gestire la sfera in modo da evitare il marcatore, mantenere il possesso e associarsi coi compagni, anche in corridoi stretti e spalle alla porta.
In Italia sono pochi gli esempi simili a quelli dei centrocampisti del Sassuolo. Molti giocatori non hanno né la tecnica né la velocità di pensiero per giocare nel breve e sotto pressione. L'esempio migliore su come poco vengano sollecitate e sviluppate questo tipo di qualità nel nostro campionato viene dalla Premier League.
Mohamed Salah era certamente un grande attaccante già da noi. Con Klopp però ha ampliato e migliorato il suo repertorio in direzioni inaspettate per i suoi trascorsi in Serie A. Ha raffinato ad esempio il decision making ma, soprattutto, quasi dal nulla, è diventato una delle ali più efficaci del calcio europeo spalle alla porta. L'egiziano alla Roma è esploso grazie alla sua velocità in conduzione e nei tagli profondi. In Inghilterra invece si propone con continuità anche in appoggio per giocare in spazi stretti e con l'uomo addosso. Salah non si limita a proteggere palla, ma riesce a fare perno sul difensore e a girarsi controllando il pallone con l'interno o con la suola. Imparare a muoversi tra le linee e a dribblare in condizioni scomode era l'unico modo per imporsi in un sistema sofisticato come quello di Klopp e diventare un serio candidato al Pallone d'Oro. Nessuno però in Italia aveva provato a farlo uscire dalla comfort zone della fascia e del gioco frontale.
Il dribbling: un'arma utile in ogni zona e in ogni situazione
Oggi Salah salta l'uomo sulla corsia e nel mezzo spazio per creare squilibri nella difesa. Se però non è possibile attaccare in maniera diretta consente comunque al Liverpool di mantenere il controllo vicino alla porta. È una sfumatura del dribbling legata alle parole di Guardiola, alla capacità delle grandi squadre di non perdere il possesso in prossimità dell'area, un concetto in parte estraneo al calcio italiano.
Il ritorno di Sarri e l'arrivo di un tecnico come Fonseca, allenatori abituati a far girare con calma il pallone anche sulla trequarti, è interessante soprattutto per la loro affinità con questo tipo di principi: saltare l'uomo non serve necessariamente per tirare o servire l'assist, ma anche per creare una linea di passaggio pulita e favorire il palleggio in zone dense di avversari.
È quello che fa Douglas Costa ed è ciò che garantisce la tecnica nel corridoio centrale di Dybala, Cristiano Ronaldo e Higuain. O, se vogliamo tornare indietro di un paio d'anni, è ciò che è mancato al Napoli dello stesso Sarri nei suoi momenti di minore brillantezza. Negli ultimi mesi del 2017/18 gli azzurri vivevano un periodo di forma precario e le rotazioni di catena non erano troppo efficaci. Al Napoli sarebbe servito tanto qualcuno in grado di prendere palla nel mezzo spazio, saltare l'uomo e oliare i meccanismi di possesso attraverso il dribbling.
A questo proposito, quest'estate è arrivata un'ala veloce ed estrosa come Lozano. Il messicano è abbastanza a suo agio anche in campo piccolo, ma per ora salta l'uomo quasi sempre frontalmente. Se migliorasse nel gioco spalle alla porta, nei controlli orientati e nella lettura degli spazi stretti potrebbe diventare esattamente quel tipo di giocatore in grado sia di resistere al pressing, sia di aprire le difese chiuse col dribbling.
Incrementare il numero di giocatori abili nel tocco e nell'uno contro uno aiuterebbe la Serie A a giocare un calcio più tecnico e più piacevole. Per riuscirci servirebbero però sistemi di gioco più votati al controllo del pallone, che considerino la tecnica un bene di prima necessità. Come la Juve di Costa e Dybala, la Roma di Mkhitaryan e Pellegrini, l'Atalanta di Ilicic e Gomez e, nel suo piccolo, il Lecce di Liverani, non a caso la squadra di giocatori dal piede morbido come Falco e Petriccione. Ne gioveremmo di sicuro anche noi spettatori.