«Abbiamo messo in sicurezza il sistema: è la prima estate senza ricorsi sulle iscrizioni, non era mai avvenuto». Così gongolava il presidente della FIGC, Gabriele Gravina, il 14 giugno scorso, in conferenza stampa. Il mancato passaggio per tribunali causa fallimenti era già in sé una notizia: una sola bocciatura da parte della CoViSoC, l’organo di controllo economico delle società professionistiche, quella dell’Ancona, coi dorici che non hanno neanche presentato ricorso. Insomma, un’estate anomala per il calcio italiano, che appena un anno fa si apprestava a far partire la Serie B con una X e una Y al posto di quelle che sarebbero poi state Brescia e Lecco. Ma, se la seconda parte dell’assunto («è la prima estate senza ricorsi sulle iscrizioni») è oggettiva, sull’aver messo in sicurezza il sistema forse il numero uno del calcio italiano è stato un filino troppo avventato.
È bastato aspettare meno di sessanta giorni perché un club storico come il Taranto ripiombasse nel caos a causa dell’abbandono del presidente Giove. Un abbandono improvviso nelle modalità, ma non nella storia che porta dietro.
I fatti
Il 31 luglio scorso il presidente della squadra rossoblù, dopo aver iscritto la squadra al prossimo campionato di Serie C, ha annunciato con una lettera aperta il proprio disimpegno proprio per la questione stadio (della quale parleremo fra poco) visto che, spiega Giove, «ci era stato assicurato che avremmo potuto giocare con una presenza massima di 10.900 spettatori, salvo poi scoprire in un secondo momento che questa condizione sarebbe stata possibile soltanto fino al 30 settembre prossimo».
Il 3 agosto con una nota sul proprio sito ufficiale il Taranto invitava gli acquirenti interessati a contattare la segreteria per iniziare le trattative al fine di acquistare la società; il 7 agosto veniva nominato nuovo direttore generale Fabrizio Lucchesi, che nei fatti ricopre la carica di commissario straordinario, reduce dalle esperienze non brillantissime di Palermo (conclusa con il fallimento del 2019) e Monterosi (retrocesso in Serie D dalla C); contestualmente Eziolino Capuano, allenatore della prima squadra, mandava un certificato medico che gli consente di saltare la prima di Coppa contro il Benevento; fra il 9 e il 12 di agosto i calciatori Miceli, Riggio e Crecco si svincolavano (Miceli aveva trovato l’accordo fino al 2026 il 18 luglio); alla partita contro i sanniti, il Taranto si presenta con soltanto sei calciatori della prima squadra disponibili e tutti gli altri aggregati dalle giovanili così come l’allenatore ad interim, Michele Cazzarò, e arriva un ko per 6-0; nella conferenza post-partita il dg Lucchesi, ai microfoni di Antenna Sud, dice: «La partita l’abbiamo fatta per onor di firma, hanno preso dei bambini dal mare e li hanno fatti venire senza allenamento. Capuano? Domani è il penultimo giorno di certificato medico, se si presenta gli apriamo le porte, se manda il prolungamento del certificato procederò all’esonero»; il 14 agosto Capuano manda il prolungamento del certificato fino al 7 settembre e il 16 agosto la società procede con l’esonero; ventiquattr’ore dopo, il 17 di agosto, viene selezionato come nuovo allenatore Carmine Gautieri, che dirige subito il primo allenamento. Questi i fatti negli ultimi venti giorni. Ma come si è arrivati fin qui?
L'assurdità del caso
Il cuore dei problemi, lo avrete capito, è lo stadio di casa. Lo scorso 14 febbraio fece il giro d’Italia l’intervista dell’emettente Antenna Sud a Carmine, 84enne storico tifoso del Taranto, che in lacrime chiedeva, nei pochi anni che gli restano da vivere, di potersi godere le partite interne della propria squadra del cuore come faceva da quando era bambino.
Nei prossimi due anni gli Ionici saranno costretti all’esilio dallo stadio Iacovone per i lavori di ammodernamento necessari per ospitare i Giochi del Mediterraneo 2026, che si terranno proprio nella città pugliese. E il primo campo disponibile, assurdo ma vero, era Teramo.
I riflettori, così come si erano accesi dopo l’intervista a cuore spalancato di Carmine, si spensero subito dopo, e della questione tornarono a occuparsi soltanto i media locali. Questo, almeno, fino alla lettera del 31 luglio di Giove con cui il presidente comunicava l’addio al Taranto proprio per la questione stadio. Ma non solo.
In un discorso molto più ampio, sempre nella stessa nota d’addio, Giove mette la sua attenzione sulle condizioni delle squadre di Serie C: «Qualsiasi club di Lega Pro, DICO QUALSIASI, fa enorme fatica solo all’eventuale miracolo di poter raggiungere un ipotetico pareggio di bilancio, in quanto a differenza dei campionati di Serie A e Serie B, la Lega Pro si sostiene solo ed esclusivamente con la forza e la disponibilità dei Club con sponsorizzazioni, incassi di botteghino, minutaggi e ipotetiche plusvalenze». E d’altro canto il dg Lucchesi, nella sua conferenza di presentazione, ha dato seguito a questa affermazione dicendo che «negli ultimi anni ci sono stati esercizi in rosso, spendendo più rispetto a quanto veniva incassato». Ecco, da queste frasi bisogna partire per analizzare un po’ più a fondo cosa succede in Serie C.
Poche entrate, tante spese
L’ormai ex presidente del Taranto afferma una cosa che in Italia si sente ripetere di tanto in tanto: «La Serie C è insostenibile economicamente e va riformata». Vero? Senza mezzi termini, sì. La Serie C, così com’è dopo la riforma del 2014, ovvero con tre gironi da venti squadre l’una, non permette alle società di vivere serenamente. Nell’agosto 2023 c’è stato l’accordo per i diritti tv fino al 2025 con Sky. Il prezzo minimo fissato dalla Lega Pro era stato di 3 milioni e 900mila euro: asserendo che questa sia stata la cifra d’accordo, a ogni squadra sono andati 65mila euro. Bene: la sola iscrizione al campionato costa 60mila euro se si è già partecipato allo scorso campionato e 105mila euro, con quarantamila di quota straordinaria per la prima partecipazione, se invece si proviene da altro torneo, quindi Serie B o Serie D. Praticamente, i soldi dei diritti tv sono belli che finiti. Senza contare la fideiussione bancaria.
A questo si aggiunga che la Serie C non ha entrate spropositate: prendendo sempre a memento la lettera di Giove, «sponsorizzazioni, incassi di botteghino, minutaggi e ipotetiche plusvalenze». Novantanove su cento, gli sponsor sono locali e raramente possono contribuire in modo così significativo alle spese della squadra; gli incassi al botteghino variano da squadra a squadra, quindi ovviamente il Taranto o il Cesena, con uno zoccolo duro di appassionati più nutrito, avranno incassi maggiori rispetto, banalmente, a squadre di comuni più piccoli; le plusvalenze nel calciomercato di Serie C sono rarissime, perché tendenzialmente i calciatori trovano un accordo di svincolo o si trasferiscono a fine contratto (prendendo sempre come esempio il Taranto, l’unica plusvalenza è stata quella di Antonini, passato al Catanzaro).
Insomma, la verità è che la maggior parte dei soldi arrivano per il minutaggio dei giovani sia dalla Lega, che ha messo a disposizione circa 12 milioni, sia dalle formazioni di Serie A che mandano in prestito i ragazzi e conferiscono alle società un premio di valorizzazione. Ma, ancora una volta, sono soldi che non bastano. E non basta neanche il record di tifosi sbandierato dalla Lega Pro lo scorso maggio, quando si parlava di un aumento delle presenze negli stadi fino a 2 milioni 885mila spettatori: perché, se si fa il conto, si tratta di più o meno 2500 spettatori a partita, da dividere poi in modo diverso rispetto all’ampiezza del Comune (nel 2023/’24 il Monterosi ha fatto registrare una media di 305 spettatori, il Catania 16mila), di affezione alla squadra (i già citati 16mila di media del Catania praticamente coprono sette squadre e mezzo) o di risultati nel campionato (la Juve Stabia vincitrice del Girone C passata dai 1837 spettatori di media del 2023 ai 4209 del 2024).
Tutti sanno, nessuno parla
Se finora siamo stati dentro i dati oggettivi, adesso parliamo del dietro le quinte: «I fatti possono essere fuorvianti, le chiacchiere, vere o false, sono spesso rivelatrici», chiosava l’incredibile Hans Landa di Cristoph Waltz in Bastardi senza gloria.
Partiamo dal 2019/’20, l’anno della pandemia: il Trapani, in Serie B, vive una complessa situazione economica, tanto che a maggio arriva la penalizzazione per stipendi non pagati. I siciliani, guidati da Castori, giocano le ultime dieci partite dopo la ripresa del campionato a un livello sublime, aiutati dai tanti giovani di talento presenti in rosa (Colpani e Carnesecchi, per dirne due), tanto da riuscire ad arrivare all’ultima giornata con ancora chances di permanenza in Serie B tramite playout. A salvarsi però sarà il Cosenza, Perugia e Pescara si giocheranno lo spareggio e i granata, insieme a Juve Stabia e Livorno, scenderanno in Serie C. È un fallimento annunciato, lo sanno tutti, ma il Trapani, non si sa come, si iscrive al campionato. Tutto buono, tutto ok, tutti sanno che l’idillio non durerà molto. Infatti la squadra rinuncia a giocare le prime due partite e viene escluso dal campionato.
Ancora più paradossale il campionato del Catania l’anno successivo, il 2021/’22, quando la società venne dichiarata fallita a dicembre e non chiuse il campionato, venendo esclusa a quattro giornate dalla fine dopo la revoca dell’esercizio provvisorio da parte del tribunale cittadino.
Il punto è che l’iscrizione di una squadra con un piede e tre quarti nella fossa non ha senso: forse servirebbero parametri più stringenti. O forse servirebbe soltanto una riforma che possa aiutare le realtà di provincia a vivere, e non sopravvivere, in un contesto professionistico. Senza dover ogni anno assumere dei contabili extra per capire le chances d’iscrizione.
Le possibili riforme
Neanche troppo tempo fa, a gennaio, si parlava di una riforma dei campionati a partire dalla stagione che inizierà ad agosto. Già all’epoca i tempi sembravano stretti, nonostante l’ottimismo di alcuni addetti ai lavori, e infatti si ripartirà di nuovo con sessanta squadre, tre delle quali succursali della Serie A (Milan Futuro, Juventus NextGen e Atalanta Under23). A neanche un mese dallo start al campionato, però, già il Taranto si trova ancora senza presidente, pur avendo pagato gli stipendi di giugno, e con una rosa che, a guardare Transfermarkt, è ridotta a una decina di giocatori pronti a chiedere lo svincolo. Insomma, non è cambiato nulla, nonostante la certezza del presidente Gravina di aver risolto i problemi strutturali del calcio italiano.
A questo punto, che ci sia bisogno di una riforma strutturale è evidente. Ma come fare?
Chi conosce poco la categoria parla di «un girone unico a venti squadre per rendere più appetibile il campionato»: per quanto così la distribuzione dei diritti tv porterebbe nelle casse delle squadre quasi 200mila euro a fronte dei 65mila attuali, aumenterebbe banalmente il costo dei trasporti: Messina, Catania, Trapani, Torres, sono tutte formazioni che giocano nelle isole. E un conto è spostarsi dalla Sicilia alla Campania, un conto arrivare a Biella. Dico Biella non a caso, proprio perché la Juventus NextGen è stata inserita nel girone meridionale: la Juve non dovrebbe avere problemi a coprire le spese di viaggio per diciannove lunghissime trasferte, ma realtà con meno entrate sicuramente non ce la farebbero.
E poi: fare un girone unico a venti squadre significherebbe tagliarne quaranta delle attuali partecipanti, sconvolgendo così, di fatto, anche la Serie D, che per un anno diventerebbe un campionato inutile e sovraffollato.
Qualcuno parla di Serie C1 e Serie C2. Facendo i calcoli, si potrebbe snellire di molto il format: due gironi da 14 in C1, due gironi da 16 in C2. Ma le squadre in C2 quanto prenderebbero dai diritti tv? Quanto costerebbe l’iscrizione? Ci sarebbe una riforma degli stipendi di calciatori e impiegati? Senza contare che poi le trasferte costerebbero comunque allo stesso modo, se non di più, rispetto a quanto costano oggi, perché dividere in due gironi significa comunque inserire, per esempio, squadre della Toscana nel girone meridionale. E le trasferte sono un costo comunque importante nelle voci “uscite” di un bilancio societario. A ciò si aggiunga che la priorità alle Under 23 di Serie A nell’ambito dei ripescaggi sta riducendo sempre più la realtà delle squadre di provincia: questo non significa che le squadre Under 23 siano in assoluto un male, ma non serve prendere giocatori esperti della categoria e fargli giocare trenta partite se l’obiettivo è far crescere i giovani. È vero che Miretti, Fagioli e Soulé sono usciti dopo la nascita della Juventus Next Gen, ma è anche vero che si tratta di giocatori molto forti che forse sarebbero usciti ugualmente.
Nonostante ciò, al momento, l’idea di un ritorno a C1 e C2 sembra l’unica possibilità ragionevole, magari con una concezione dei trasporti e una suddivisione geografica che permetta alle società la spesa minima. A questo bisognerebbe affiancare controlli più stringenti, perché se è vero che non si può basare l’iscrizione di una squadra sulle voci è altrettanto vero che sono troppe le volte in cui tutti sapevano e poi è successo senza che accadesse nulla per evitarlo.
Ora: una riforma è necessaria, perché se anche solo la perdita del botteghino e della cartellonistica sponsor porta un presidente a lasciare una società, vuol dire che il problema non è stato risolto. In più, un mancato ricorso non significa che l’Ancona non sia fallito. Insomma, il sistema non è ancora stato messo in sicurezza e il cosiddetto calcio minore è a rischio: invertire la rotta non è semplice, ma la FIGC dovrà farlo. A meno che non si voglia arrivare a un punto in cui l’unico campionato professionistico sarà la Serie A e tutti convoglieremo la nostra attenzione solo su quello. E allora sarà festa grande per il capitale, ma non per chi ama la squadra della propria città.