Nell’ultima domenica di calcio italiano prima della sospensione si respirava un’aria apocalittica. Ci siamo aggrappati al rimbombo delle voci negli stadi vuoti per ricavarne le ultime emozioni prima di una lunga pausa.
Ma se tutto sommato le repliche delle vecchie finali di Champions League ci stanno cullando, con la consapevolezza che il calcio di alto livello senza dubbio tornerà, verrà purtroppo anche il tempo in cui tutto il sottostrato del calcio, quello amatoriale e dilettantistico, dovrà analizzare le macerie da cui ripartire. Non solo, prevedibilmente andrà in sofferenza tutto l’ecosistema del calcio non professionistico, compreso quello giovanile che ha anche funzioni sociali ed educative. Ma il coronavirus sferrerà un colpo importante a una categoria, la Serie C, che già da diversi anni non riesce a rimarginare una ferita che sanguina copiosamente.
Lo scorso novembre, per fare un chiaro esempio delle difficoltà della terza serie, il direttore generale del Piacenza, Marco Scianò, aveva fatto un semplice e crudo ritratto della realtà: «Dobbiamo essere chiari una volta per tutte: la Serie B è sostenibile economicamente perché ha degli introiti, la Serie C non è nemmeno lontanamente sostenibile. La perdita complessiva delle 60 squadre di C è di 100 milioni. Ci sono tanti avventurieri, conosco tutti i 60 presidenti e tutti sanno che, se mollassero, sparirebbe questo calcio. Semplicemente non c’è interesse a rilevare una squadra di Serie C, economicamente sei sempre in perdita».
È quindi arrivato definitivamente il momento per ripensare quella che ogni anno è la categoria più a rischio del nostro calcio, seppur piena di grandi piazze e di appassionati. La Serie C, che già da anni riflette su un suo ridimensionamento, ha ora bisogno di una svolta radicale per evitare il collasso che al momento pare certo.
L’insostenibilità della Serie C
La Lega Pro aveva già avuto una ristrutturazione nell’estate 2014, quando aveva unificato Prima e Seconda Divisione in un’unica categoria che restringeva complessivamente il numero di squadre da 69 a 60.
Sono tuttora 60 i club di Serie C, divisi in tre gironi, ma non è assurdo sostenere che almeno un terzo di essi sia in difficoltà societarie più o meno serie. Senza arrivare ai gravissimi casi dello scorso anno di Lucchese, Cuneo, Matera e soprattutto della vergogna del Pro Piacenza, quest’anno i club con le situazioni più difficili sono stati il Catania e soprattutto il Rieti. Le situazioni precarie, comunque, sono diffusissime: i padroni di molte società hanno detto espressamente, o lasciato filtrare, di voler dismettere, così come alcune proprietà sono cambiate a inizio stagione. Sono i casi, per esempio, di Rimini, Bisceglie, Piacenza, Teramo, Fano, Vis Pesaro.
I circa 100 milioni di perdite per 60 club significano un buco di bilancio di circa 1,6 milioni all’anno in media per ogni società, una cifra probabilmente arrotondata anche per difetto. Ovviamente le squadre che registrano le maggiori perdite sono le più ambiziose: soprattutto Monza, Bari, Ternana, Padova, Vicenza, Reggina. Non è detto, tuttavia, che il loro modello sia meno sostenibile rispetto a quello delle altre squadre che quasi sicuramente non troveranno mai la promozione in Serie B: per i club più ambiziosi spesso in un piano di bilancio pluriennale viene messo in conto un anno di perdita di qualche milione in C, che verrà poi ammortizzato con gli introiti delle categorie superiori.
Diverso è il destino dei club di fascia inferiore: «Almeno per quanto riguarda noi che lottiamo per la salvezza», sostiene Vlado Borozan, direttore generale della Vis Pesaro, «c’è bisogno di un budget complessivo di 2 milioni e mezzo/3 milioni a stagione. Di questi, quasi l’85% è coperto dalla proprietà e solo il 15% circa dalle entrate complessive tra sponsor, abbonamenti, biglietteria, diritti televisivi e soprattutto dal bonus per l’utilizzo dei giovani. Anche chi possiede club più prestigiosi che puntano a salire in B», prosegue, «se non riesce nella promozione in massimo due-tre anni è costretto a lasciare, perché crea un buco di bilancio pazzesco che non riesce a recuperare e ad ammortizzare negli anni».
I club più ricchi e prestigiosi vedono nella Serie C un investimento e cercano di offrire condizioni contrattuali più vantaggiose per i giocatori, spesso sottraendoli alla Serie B. In questo modo, però, ovviamente, aumentano le spese: non solo hanno un monte ingaggi più alto, ma sottoscrivono anche contratti più lunghi rispetto ai club di fascia medio-bassa che spesso navigano a vista, con molti prestiti e contratti a scadenze al massimo biennali. Di recente, per esempio, la Ternana ha fatto firmare ben tre anni e mezzo di contratto a Filippo Damian e Alexis Ferrante; il Vicenza, ad agosto, ha addirittura offerto tre anni all’allenatore Mimmo Di Carlo, un profilo ovviamente prestigioso per la categoria ma pur sempre in un posto di lavoro estremamente precario.
Ternana-Bari 2-2 del 26 febbraio, forse la partita di questa stagione con il livello più alto di giocatori in campo (i più rappresentativi: Diakité e Marilungo nella Ternana, Antenucci nel Bari).
La voce dei diritti televisivi – di Serie C TV ospitata sulla piattaforma streaming Eleven Sports – produce un introito sostanzialmente insignificante nel bilancio di tutti i club di C: un ammontare complessivo che si aggira su 1.2 milioni, quindi circa 20 mila euro in media per squadra ogni stagione, ben al di sotto del bonus per il minutaggio giovani.
Più variabili sono invece le entrate degli sponsor e delle presenze allo stadio: saranno i club più prestigiosi a patire maggiormente la perdita di sponsor e un’eventuale conclusione del campionato a porte chiuse. È chiaro che i club di prima fascia fanno più affidamento su questo tipo di entrate a differenza delle squadre meno blasonate, dove nel bilancio queste voci sono trascurabili visto il ridotto bacino d’utenza.
Le grandi società spesso rinunciano anche alla politica dei giovani, che di fatto è invece la maggiore, spesso perfino l’unica, fonte di sostentamento dei club più poveri. Per ricevere il bonus per una partita, la regola prevede un utilizzo minimo per 270 minuti di calciatori nati dal 1 gennaio 1998 in poi, quindi di fatto almeno 3 under in formazione. «I giovani sono una risorsa, ma dover scombussolare la formazione diventa un problema», ha detto recentemente Giuseppe Scienza, allenatore del Monopoli, squadra che ricorre al minutaggio degli under. «Mi piacerebbe che tutte le altre squadre adottassero la stessa politica. Far giocare 3 under vincola anche la composizione della rosa, perché devi averne una decina in squadra, un problema che alcune grandi piazze non si pongono».
Un esempio per far capire quanto a volte il ricorso al minutaggio condizioni la formazione. Il Piacenza, nelle partite contro il Vicenza in casa e il Fano in trasferta, ha dovuto inserire il centrocampista Bolis – sicuramente meno forte rispetto a Marotta, Giandonato, Nicco, Corradi e Cattaneo – per far fronte all’assenza del portiere under Del Favero. Anche il Monopoli e il Bisceglie, entrambe nel girone C, a volte hanno fatto turnover in porta per dare spazio ai rispettivi portieri under Antonino e Borghetto, al posto dei titolari più esperti Menegatti e Casadei. Tuttavia, per mantenere il minutaggio corretto, gli allenatori devono fare attenzione anche alle sostituzioni: una serie di problemi che le grandi piazze citate in precedenza non si pongono, e che condizionano inevitabilmente i risultati sul campo.
Il bonus per i giovani è uno strumento economico che dovrebbe rappresentato un ausilio, ma ormai è diventato l’unica ancora di salvataggio per la sopravvivenza delle piccole squadre, per tamponare il più possibile le perdite. «Il minutaggio a fine anno ci fa guadagnare una cifra realistica intorno a 300-350 mila euro, al massimo 400 mila proprio se riusciamo a sfruttarlo al massimo», dice Vlado Borozan, «ma si tratta comunque di un 10-15% del budget complessivo, che sfiora i 3 milioni».
La Virtus Francavilla, squadra che ricorre scientificamente ai 3 under in formazione, grazie all’efficacia del suo gioco in verticale è diventata la vera ammazza-grandi del girone C – soprattutto per le vittorie contro Reggina e Ternana. Qui esce vincitrice in casa di un altro club che ha speso molto, il Teramo, nell’ultima partita a porte chiuse.
Incentivare il calcio giovanile
Le ragioni principali che rendono la Serie C la categoria meno remunerativa di tutto il nostro panorama calcistico nascono quindi dalla fiscalità. Il sistema di tassazione della C è tuttora identico a quello della Serie A, ancorato a modelli che almeno in Italia potevano funzionare prima della crisi economica del 2008, quando ad esempio agli albori degli anni Duemila competevano esattamente 90 squadre professionistiche tra C1 e C2 – contro le 60 di oggi.
In quella che doveva essere l’ultima giornata di campionato prima di Natale, la Serie C aveva deciso per uno sciopero collettivo con lo scopo di sensibilizzare il Governo a una defiscalizzazione sui contributi ai calciatori, sul modello di quanto qualche giorno prima era stato stabilito per il calcio femminile. Sostanzialmente quello della differenza del carico fiscale è il principale motivo per cui ad oggi la Serie D è senza dubbio una categoria più sicura a livello economico rispetto alla C. Per questo motivo accade anche che alcuni giocatori ricevano offerte nette più elevate in Serie D che in Serie C e che, pur avendo le capacità per imporsi anche nel professionismo, preferiscano essere dei pezzi pregiati del dilettantismo.
A questo aspetto si aggiunge anche quello dell’aumento dei costi di affitto e gestione degli stadi per la messa a norma, secondo le regole più stringenti della C rispetto alla D. In alcuni casi, come quello dell’Arzignano Valchiampo, bisogna proprio cambiare stadio una volta saliti in C e affittarne uno con maggiore capienza e una migliore logistica – in questo caso il “Romeo Menti” di Vicenza, condiviso proprio con il Vicenza.
Il derby tra Arzignano e Vicenza al “Romeo Menti” dello scorso 23 ottobre. Gioca in casa l’Arzignano ma il pubblico è tutto biancorosso.
Ma la difficoltà economica incontrata da tutti i club di C rende loro praticamente impossibile anche poter investire con lungimiranza nel settore giovanile. Il Pordenone, appena salito in B, ne è un rarissimo esempio virtuoso: avendo investito circa un milione di euro all’anno sul proprio settore giovanile, riesce ogni estate a vendere diversi giocatori alle giovanili di club di Serie A.
Defiscalizzare e rendere più sostenibile la Serie C significherebbe provare a incoraggiare molte più squadre a investire sui settori giovanili. Bisognerebbe provare a compensare la possibile perdita di sponsor che minaccerà anche il calcio giovanile dopo la pandemia, scoraggiando così la possibile crescita del fenomeno dei giocatori paganti, sulla falsariga di quanto accade sistematicamente nel motorsport. Ma un altro obiettivo principale, più generale, potrebbe essere anche quello di creare un meccanismo virtuoso, in questo senso, tra le società.
Non solo i club di C potrebbero trarre giovamento economico dalla formazione dei giovani grazie alla loro cessione e alle plusvalenze, ma la misura si integrerebbe col regolamento del bonus per il minutaggio, che premia i giovani cresciuti nel proprio club rispetto a quelli importati dai prestiti. Schierare un proprio giovane, che ha militato almeno per tre anni consecutivi nel club, permette un incremento del 150% sul bonus rispetto a un under di pari età, ma che sia prestato o acquistato da un’altra squadra. Un modo per dare un senso non solo socio-educativo ma anche economico al calcio giovanile, cercando di renderlo più capillare e meno polarizzato sul territorio nazionale.
Ripensare le categorie
Secondo una stima della Lega Pro di qualche giorno fa, ai circa 100 milioni già persi complessivamente ogni anno dai 60 club, i danni del coronavirus dovrebbero aggiungere ulteriori perdite comprese tra i 20 e gli 84 milioni. Si tratta di cifre che senza dubbio dissuaderebbero almeno la metà delle proprietà a iscriversi al prossimo campionato di C: solo un piano ben congegnato per una sostenibilità a lungo termine può impedire la fuga collettiva degli imprenditori dal calcio per salvare le proprie aziende.
Il coronavirus andrà ad aggravare profonde questioni già esistenti nel panorama della Serie C. È chiaro quindi che molte proprietà che hanno intenzione di restare in questo mondo siano paradossalmente più fiduciose, in questo momento, del fatto che la situazione di emergenza possa essere finalmente la molla decisiva per ripensare tutta la categoria, dopo uno stallo durato troppi anni.
Nel dibattito potrebbe finire anche quella che troppo spesso in Italia diventa una polemica sterile, ma che in Serie C può avere il suo fondamento, ovvero quella degli stipendi troppo alti dei calciatori. Se è vero che in A e in B certe cifre sono giustificate (in parte) dal merchandising e agli introiti in generale prodotti dai calciatori, nell’attuale Serie C offrire 50-100 mila euro a stagione a un calciatore di medio livello, specialmente nelle squadre medio-piccole che senza dubbio non salgono in B, diventa un investimento a fondo perduto.
I club di C versano circa l’80-90% delle loro spese negli stipendi e l’eventuale defiscalizzazione, anche senza toccare la cifra netta percepita dai calciatori, andrebbe a ritoccare al ribasso le cifre lorde. Ma la crisi economica costringerà le cifre nette dei calciatori ad abbassarsi.
Senza toccare il minimo sindacale di 12 mila euro all’anno per i calciatori, andrà raggiunto un compromesso in nome della sopravvivenza di tutta la categoria. Nella video-assemblea di Lega del 3 aprile, inoltre, il tema della defiscalizzazione è stato allargato anche alle sponsorizzazioni. Un piano di massima che dovrebbe sgravare a livello fiscale le aziende che decidessero di supportare un club di C, cercando così di coinvolgerne molte di più rispetto al passato.
Per quanto riguarda l’immediato, una delle soluzioni più interessanti per affrontare l’emergenza è stata quella prospettata dal presidente del Potenza, Salvatore Caiata, nel programma Eleven Home: «Gli sponsor potrebbero avvalersi dello stato di necessità e lo stesso potremmo fare noi società con i calciatori. Oltre alle 8 mensilità già versate potremmo includere la cassa integrazione, facendo percepire ai calciatori circa 10 dodicesimi del loro ingaggio annuale». Qualche dirigente, senza dubbio tra quelli delle squadre che non hanno interesse a salire in B, ha anche chiesto l’annullamento della stagione: una prospettiva che sarebbe profondamente ingiusta per Monza, Vicenza e Reggina che sembrano ormai avere la promozione in tasca, ma anche per molte altre squadre che confidano su una promozione ai playoff, tra cui anche quelle meno ricche come Renate e Monopoli.
Alcuni capolavori di Giuseppe Fella, autentica rivelazione del campionato. Con 17 gol è l’unico che ha segnato meno di Antenucci e ha trascinato il Monopoli fino al terzo posto provvisorio in classifica nel girone C.
Per quanto riguarda le intenzioni nel medio-lungo termine, invece, negli ultimi giorni il presidente della FIGC, Gabriele Gravina, ha pubblicamente esposto un’idea che esisteva da tempo, ovvero una C divisa tra professionismo e semi-professionismo. Delle 60 squadre attuali sarebbero 20 quelle a costituire una sorta di C1 o B2, un campionato professionistico, e 40 a formare invece un campionato semi-professionistico. Ci sono però molte discussioni su come i due campionati verrebbero suddivisi e in base a quale criterio, anche se è più probabile che questa ripartizione venga effettuata a partire dalla stagione 2021/22.
È chiaro che, seguendo criteri puramente economici, non sempre tutti i club nelle zone alte della classifica avrebbero la capacità finanziaria per reggere molto meglio l’urto con una categoria professionistica rispetto a diverse squadre della seconda metà di classifica. Il Catania, oggi settimo, è in difficoltà economica, mentre alcuni club soprattutto nel girone B – Triestina, Cesena – sembrerebbero più solidi rispetto a realtà molto più piccole – il Renate su tutti – ma che hanno ottenuto migliori risultati sportivi. Anche il presidente del Gubbio, Sauro Notari, ha subito contestato la proposta di Gravina perché la sua squadra naviga in zona salvezza e in questa ripartizione andrebbe a finire nell’ipotetica C2, ma vanta una capacità finanziaria migliore rispetto ad alcune squadre finite nelle parti alte delle classifiche dei tre gironi.
Resterebbero poi da sciogliere alcuni nodi: se il sistema fiscale dell’ipotetica C1 restasse uguale a quello della C attuale, quindi uguale a quello della Serie A, quanti di quei 20 club riuscirebbero ancora a sopravvivere? Quale tv comprerebbe i diritti e a quanto ammonterebbe la cifra versata ai club? Senza dubbio, se le condizioni economiche della nuova C1 restassero uguali a quelle dell’attuale C, per molte squadre che non riuscirebbero a salire in B non sarebbe conveniente restare per troppi anni in C1. È chiaro però che una C2 semi-professionistica potrebbe rappresentare una salvezza per tanti club che non possono vivere di professionismo ma che hanno piazze troppo grandi per il dilettantismo.
Dalla video-assemblea del 3 aprile è parso trapelare un unanime ottimismo. Resta un grande peccato che sia servita una pandemia globale per riflettere con serietà su dinamiche consolidate ormai da anni e sempre affrontate con superficialità. E come spesso accade, occorre che la minaccia diventi eccessivamente grande per convincersi a prendere tardive contromisure. Sperando bastino a salvare le categorie alle fondamenta del nostro calcio.