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Come sopravvivere alla crisi del calcio italiano
03 feb 2023
In Serie A aleggia un'aria da fine del mondo.
(articolo)
15 min
(copertina)
Andrea Staccioli / Insidefoto
(copertina) Andrea Staccioli / Insidefoto
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Si respira un clima di depressione cosmica in Serie A. Qualcosa di non evidente ma comunque percepibile nella psiche collettiva. Una cattiva sensazione che ha inquinato la nostra quotidianità calcistica. Le vicende giudiziarie della Juventus non sembrano affliggere solo i tifosi bianconeri ma restituiscono l’idea di un campionato ormai in decomposizione. Il più grande club del paese è alle prese con la giustizia sportiva per la seconda volta in vent’anni. L’articolo che James Horncastle ha dedicato alla vicenda su The Athletic si apre col grido sconfortato “Solo in Serie A”. Un leitmotiv che dall’estero si ripetono, scettici e divertiti, quelli che osservano le disfunzioni del nostro calcio.

L’Inter è in un momento di transizione societaria, secondo il Financial Times è in vendita da ottobre dello scorso anno. Nel frattempo gli investimenti di Zhang sembrano finiti e nel mercato di gennaio Beppe Marotta è stato stretto da un unico dubbio: cedere Skriniar ora per pochi milioni, o lasciarlo andare in scadenza quest’estate? Il Milan, da parte sua, è nel bel mezzo di una tempesta. Mentre sullo sfondo il rinnovo di Leao procede a singhiozzo, e la procura indaga sulla cessione del club, la squadra si è sciolta, subendo 16 gol in 5 partite. Persino l’unico modello di gestione interessante del nostro calcio, la squadra campione d’Italia, sembra vivere nell'incertezza.

Sono rimasti i tifosi del Napoli, dentro la loro bolla di felicità, lontani da qualsiasi problema apparente, mentre tutto attorno la terra si inaridisce e avanza il deserto. È in questa cornice di sfiducia, in cui ci sono pochi motivi per essere felici, che è arrivato il calciomercato di gennaio. Un calciomercato in cui Juventus, Inter e Milan non hanno comprato giocatori. Non succedeva dal 1989. Tutte e tre le squadre avrebbero cose da sistemare o migliorare. La situazione di classifica non invita la fiducia in chiave scudetto, ma ci sarebbe una qualificazione europea da garantire. Per Inter e Milan dei complicati ottavi in Champions League da affrontare. I soldi però non ci sono, le idee erano scarse anche prima.

Se anche andiamo oltre le squadre strisciate, nel mercato invernale italiano ha regnato la stasi. L’Atalanta non ha registrato movimenti in entrata; Lazio e Roma hanno completato un paio di operazioni di contorno (Luca Pellegrini e Diego Llorente), il Napoli ha scambiato il secondo portiere e preso un onesto terzino destro. Poi una serie di giocatori mescolati da una squadra all’altra senza un apparente filo logico, come per vedere l’effetto che fa. Bajrami al Sassuolo, Vignato all’Empoli, Sabiri alla Fiorentina, Rolando Vieira al Torino, Shomurodov allo Spezia, Lammers alla Sampdoria, Kyriakopoulos al Bologna. Li hanno messi in una stanza, li hanno bendati e gli hanno fatto pescare una maglia dal mucchio che sarebbe stata la loro futura destinazione.

Dall’estero non è arrivato praticamente nessuno. Un’eccezione è Florian Thauvin, approdato all’Udinese trentenne, giocatore la cui carriera ha assunto tinte turistiche già da diversi anni, esubero del Tigres, che aveva bisogno di cederlo per comprare Lainez. Una di quelle operazioni così incomprensibili che sembrano partorite da un generatore automatico di trasferimenti ironici, tipo Ochoa alla Salernitana, o Adolfo Gaich all’Hellas Verona (per diversi motivi, l’operazione più ironica di tutte).

In fondo non ci dovrebbe essere nulla di nuovo. Il calciomercato di gennaio è storicamente un calciomercato disperato. Nel bel mezzo della stagione, con obiettivi ancora in ballo, si cercano piccole pezze d’appoggio, o al massimo colpi mistici, slanci di fantasia. Nell’inverno 2004 l’Ancona comprò Mario Jardel presentandolo in uno sciapo Perugia-Ancona finito zero a zero, accanto a una mascotte a forma di cane con la lingua di fuori. Forse il picco del calciomercato di gennaio, che è sempre stato il regno del grottesco, delle cattive idee, dei soldi buttati.

In questo thread per esempio vengono elencati i giocatori arrivati in Serie A dieci anni fa. Una sagra del cattivo gusto. L’impressione è che sia quasi impossibile fare acquisti sensati nel mercato invernale. O il segno che in Serie A ci si è più o meno sempre arrabattati.

Come siamo arrivati a provare nostalgia per quel tipo di calciomercato? Ci manca quella vitalità un po’ disperata che spingeva l’Inter a comprare Kuzmanovic e il Milan Cerci?

Qualcosa di diverso, però, in questo calciomercato invernale è successo; abbiamo avuto la sensazione che qualcosa sia davvero cambiato negli equilibri di potere del calcio europeo.

La Serie A ha comprato poco, ma in compenso si è riempita di cessioni deprimenti, che descrivono questo tipo di cambiamento. Pur non essendo andato via nessun pezzo davvero pregiato, sono partiti alcuni giocatori che rappresentavano una ricchezza dell’ecosistema del nostro campionato. Abbiamo venduto dei giocatori che erano sì figure di sfondo, ma che rendevano apprezzabile il panorama. Il panorama sono, per esempio, le partite delle 12 e 30 dove l’Udinese affronta lo Spezia, dove Jean-Victor Makengo giocava contro Jacub Kiwior. Due talenti non ancora del tutto realizzati, ma con prospettive interessanti. Magari Udinese e Spezia li avrebbero venduti comunque presto, anche quest’estate, ma solo nel momento in cui ci eravamo pienamente resi conto del loro valore. Magari i loro tifosi avrebbero potuti goderseli per un po’, osservare il loro sviluppo. Almeno gli avrebbero visto finire la stagione. Invece le loro squadre hanno avuto fretta di venderli. Kiwior per 25 milioni e Makengo per 10.

Quest’ultima cessione è significativa, perché se possiamo essere felici per Kiwior che va a giocarsi la Premier League all’Arsenal, Makengo finisce al Lorient, in Ligue 1. Lorient che su di lui ha reinvestito i soldi ottenuti da Ouattara, venduto in Premier a più del doppio della cifra di Makengo.

Non è una situazione casuale: la Ligue 1 vende meglio della Serie A. Se prendiamo solo quest’ultima sessione invernale il campionato francese ha ottenuto 200 milioni dalle sue cessioni, la Serie A nemmeno 70. Il mercato francese è diventato più interessante, più affidabile, più ricco. Jeffrey Moncada, capo-osservatore del Milan, aveva spiegato così il motivo per cui preferisce comprare giocatori dal mercato francese: «In Francia, i club hanno la volontà di far emergere i giocatori più che vincere le competizioni giovanili. E soprattutto i giovani francesi non hanno paura. Quando parlo con Maignan lui non ha alcuna pressione: gioca e basta. Deve diventare la nostra mentalità. In Italia se un giovane fa un errore si dice che non è pronto e deve restare in panchina per un bel po’. In Francia invece, non è così».

D'altra parte non riusciamo ancora davvero a pensarci come un campionato che deve coltivare i talenti per poi rivenderli. Non lavoriamo bene con lo scouting, né siamo bravi a valorizzare i giovani. È la nostra cultura realista nel calcio ed è difficile da cambiare.

In Francia, insomma, si sviluppano meglio i giovani e quindi si vendono meglio. Se è vero, come ormai ci ripetiamo da anni, che siamo diventati un campionato d’esportazione, in questa sessione di mercato ci siamo scoperti un campionato d’esportazione di basso livello. Non riusciamo più nemmeno a farci pagare cari i giocatori, perché non abbiamo tempo per aspettare il loro sviluppo. Siamo così poveri che abbiamo bisogno di soldi il prima possibile. Nella catena alimentare del calciomercato, però, rischiamo di essere mangiati anche dalla Ligue 1.

Quest’estate, quando il Bologna ha venduto Arthur Theate al Rennes, il club francese aveva venduto Aguerd in Premier per poi reinvestire i soldi nel centrale belga del Bologna, che aveva appena cominciato a far intravedere le sue doti. Nessuna squadra italiana ha avuto il potere economico, o semplicemente il coraggio, per pareggiare i 15 milioni spesi dal Rennes. Siamo diventati il campionato da cui certe squadre francesi, nemmeno le migliori, hanno cominciato a rifornirsi?

Di certo, come tutti, siamo divorati dalla ricchezza della Premier League. Poche ore prima della fine del mercato il Bournemouth si è portato via Hamed Traorè dal Sassuolo per 30 milioni di euro. Traorè ha 22 anni, è uno dei migliori talenti del nostro calcio. Veniva da un paio di stagioni in crescita, prima che un infortunio a inizio stagione lo rallentasse. Una volta guarito è stato venduto, come se fossimo l’infermeria della Premier League. La vicenda di Traorè si incrocia con un’altra storia scoraggiante di questo mercato, quella di Nicolò Zaniolo.

Il Bournemouth ha girato i propri soldi al Sassuolo dopo aver ricevuto il rifiuto dell’attaccante della Roma, da anni una delle promesse più lucenti del calcio italiano. Non c’è nemmeno bisogno che vi descriva qui, la tormentata carriera di Nicolò Zaniolo. È raro trovare in giro un profilo dal valore tanto ambiguo.

Dopo una trattativa di rinnovo finita male con la Roma, Zaniolo ha deciso di mettersi sul mercato, forse convinto che una squadra d’alto profilo della Premier lo acquistasse - magari il Tottenham. In realtà l’unica squadra ad aver fatto un’offerta concreta è stata il Bournemouth, terzultima in Premier. Negli stessi giorni è uscito fuori un interesse del Milan nei confronti di Zaniolo, ma i rossoneri non hanno potuto pareggiare i 30 milioni dei rossoneri inglesi. È una situazione che ormai abbiamo imparato a dare per scontata, ma che vale la pena mettere in chiaro: una delle squadre più blasonate d’Europa non ha i mezzi per pareggiare un’offerta del Bournemouth per un giocatore a cui è interessata. È ironico che negli anni ‘70 il Bournemouth abbia cambiato la propria maglia in una rossa e nera a strisce proprio come tributo al Milan. Sic transit gloria mundi.

La storia di Zaniolo racchiude un groviglio spietato di sogni infranti, mal funzionamenti e decadenza del nostro calcio. Soprattutto descrive fin troppo chiaramente lo squilibrio che si è venuto a creare tra la Premier League e gli altri campionati.

Anche escludendo la situazione del Chelsea, francamente incommentabile, la Premier ha registrato un passivo - tra ricavi e spese - di quasi 200 milioni di euro. Di fatto, è l’unico campionato che ha fatto uscire dei soldi. La ricchezza delle squadre inglesi rispetto agli altri campionati è stata certificata anche dall’ultimo rapporto Deloitte. 6 delle prime 10 squadre fra quelle con più incassi vengono dalla Premier. Come sappiamo, non è una ricchezza casuale, non cala dall'alto per complotto massonico o divino, ma deriva dalla bravura decennale della Premier di confezionare un prodotto migliore. Una superiorità diventata ancora più netta dopo il Covid-19, che ha frenato forse l’ultimo momento in cui il calcio italiano pareva poter tornare ai vecchi fasti.

A chi fa comodo un tale squilibrio competitivo?

L’abisso che si è aperto ha radici così strutturali da non poter essere colmato. Per anni si è detto che gli altri campionati devono “lavorare bene” per poter colmare il gap con la Premier, ma ora sembra essersi fatto troppo tardi anche per “lavorare bene”. Servirebbe un intervento della UEFA che vada in qualche direzione. Un intervento che davvero, quello sì, calerebbe dall'alto. Le possibilità esistono, anche se oggi ci suonano vacue e irrealizzabili: un salary cap? L’abolizione dei cartellini dei giocatori? La vendita centralizzata dei diritti televisivi? Allentare le maglie del Fair Play finanziario per facilitare l’ingresso di capitali che distruggano lo status quo? Una Superlega europea con le squadre inglesi escluse, organizzata secondo meccanismi meritocratici?

Il problema della Premier League è stato sollevato anche da Andrea Agnelli nel suo ultimo discorso da presidente della Juventus. «Il calcio europeo ha bisogno di un nuovo sistema altrimenti un singolo campionato, in pochi anni, attirerà tutti i talenti facendo diventare irrilevanti gli altri campionati». Tutto giusto. Come scritto da Rory Smith nella sua newsletter sul New York Times, però, quando Agnelli dice queste cose «non sta immaginando nuove strade per costruire un nuovo pubblico per il calcio, oppure un modo per rendere più giusta la distribuzioni degli introiti dei diritti tv, così che possa venir fuori un Bournemouth italiano. No, Agnelli vorrebbe cambiare le regole del gioco così che la Juventus abbia più soldi, più protezione». E lo abbiamo visto quando ha cercato di creare la Superlega.

Se il dominio finanziario della Premier League può essere un problema di tutti, ci sono problemi solo nostri. Dai contorni grotteschi che solo noi possiamo disegnare. Nei prossimi mesi la Juventus, già a meno 15 in campionato, dovrà ancora vedersela con la giustizia sportiva, mentre altre squadre rischiano di essere coinvolte.

Questo calciomercato di gennaio ha rivelato una povertà che negli ultimi anni eravamo riusciti più o meno a mascherare. Ci siamo scoperti ancora più poveri di quanto pensassimo, raccogliendo i frutti di una gestione malandata su tutti i livelli strutturali. Tutti quelli che conosciamo: la politica sportiva, gli stadi di proprietà, l’insostenibilità finanziaria, i settore giovanili, il caos sui diritti tv. Senza contare il nostro conservatorismo tattico, tecnico e nell'approccio a temi come le statistiche avanzate e lo scouting. Per dire alcuni dei temi più superficiali. Come scrive Alessandro Austini in questo articolo, ridurre i partecipanti del campionato sarebbe una buona soluzione per rendere più sostenibile il sistema e incentivare una crescita. Solo che la maggioranza dei presidenti è contraria. Non ci si riesce a mettere d'accordo nemmeno sulla riforma della Coppa Italia, o dei campionati primavera, o della gestione dei prestiti, o del consiglio federale. Il calcio italiano sembra riuscire a lavorare insieme solo quando si tratta di trovare il modo di ritoccare i bilanci, a quanto pare. Il discorso di Agnelli, allora, è più che altro una spia dell'egosimo, e del respiro corto, con cui hanno lavorato i dirigenti negli ultimi anni.

Per paradosso, il caos che circonda il nostro calcio sembra essere l’ultima attrattiva rimasta. Siamo arrivati alla distopia per cui nei prossimi mesi seguiremo con più interesse le vicende in tribunale che quelle sul campo. Appropriato, nel secondo paese con più avvocati al mondo. Eppure, non è del tutto vero.

Nel frattempo mercoledì sera la Cremonese ha battuto la Roma all’Olimpico e si è qualificata alla semifinale di Coppa Italia. La Cremonese: una squadra con 8 punti in campionato, con ancora zero vittorie, l’esempio della squadra che in Serie A non dovrebbe nemmeno starci. La Cremonese che ha da qualche settimana esonerato il suo allenatore ambizioso per chiamarne uno usato come un salvavita per non retrocedere. La Cremonese che arriva in semifinale di Coppa Italia, il peggiore trofeo del calcio italiano, quello più sgangherato, quello dove si annidano in modo più sfacciato tutti i nostri problemi. La Cremonese che si qualifica in una partita confusa, bellissima nella sua follia, battendo la Roma di Mourinho. Questa sarebbe una storia, anche se la Gazzetta dello Sport ieri mattina ha deciso di aprire su Pogba.

La vittoria della Cremonese è una storia che racchiude alcuni dei motivi per cui guardiamo uno sport a basso punteggio come il calcio. La sua stranezza, la sua aleatorietà, la possibilità sempre aperta che una squadra più debole ogni tanto possa batterne una più forte. La sua capacità di farsi serbatoio di storie, nella finale di Coppa del Mondo, certo, ma anche in un gol da pura schadenfreude in Serie C. Queste ragioni, le ragioni per cui amiamo il calcio, non hanno molto a che fare con quello che abbiamo detto in questo articolo: il disequilibrio economico tra leghe, il calciomercato povero, l’egoismo politico dei dirigenti italiani. Eppure, da tifosi, siamo così dentro questi discorsi, li abitiamo al punto che non riusciamo più a vederci da fuori - mentre esultiamo per una plusvalenza ben fatta, per un bilancio sano, per una trattativa vantaggiosa, persino per i contratti commerciali! Per cose che ci riguardano relativamente, a noi e al calcio. È quindi anche da noi che nasce questa sensazione di sconforto - guardiamo a cose che non possono che rivelarsi apocalittiche. A volte ho la sensazione che i nostri discorsi sul calcio abbiano raggiunto delle stratificazioni fin troppo astratte e lontane da ciò che amiamo davvero. Ci aiuterebbe un po' di maieutica, o comunque qualche esercizio di decostruzione sul modo in cui ci ingabbiamo a parlare di calcio. Davvero vogliamo smettere di guardare le nostre squadre perché non hanno più i loro migliori talenti, o perché non possono nutrire i nostri sogni di calciomercato? Siamo sopravvissuti all'Inter di Mazzarri con Belfodil e Ricky Alvarez, al Milan di Destro e Cerci, alla Juve di Krasic. Siamo sopravvissuti a Calciopoli, all'Inter di Mancini che vince i campionati con 30 punti di vantaggio, al Milan retrocesso per lo scandalo scommesse, al Napoli fallito, alla Fiorentina fallita, alla Lazio quasi fallita. Possiamo sopravvivere anche a questo.

D'altra parte la classe dirigente sembra che ce la stia mettendo tutta per farci disamorare, mostrandoci l'architettura marcia che sostiene questa macchina magica. Si organizzano Mondiali in paesi che non rispettano i diritti umani, sponsorizzati dai migliori calciatori del mondo. Nel calcio per club va in scena la guerra di potere tra i vari supercattivi del globo, i biglietti allo stadio sono arrivati a costare quanto una macchina usata, le maglie quanto un weekend all'estero.

Ieri sera la Juventus ha affrontato la Lazio, con quale spirito? Cosa si dicono i calciatori quando scendono in campo, sapendo che potrebbero arrivare altre sanzioni che rischiano di vanificare qualsiasi risultato futuro? Cosa pensano i tifosi, in questo limbo tossico in cui sono imprigionati senza avere nessuna colpa? Lo stadio era mezzo vuoto, ma i tifosi che erano lì hanno esultato al gol di Bremer su quello strano cross di Kostic. Hanno alzato le braccia al cielo, gridato il nome del marcatore, si sono abbracciati. Come se non potessero farne a meno, incatenati al prossimo gol, alla prossima partita. Qualche editorialista ci leggerà un segno della nostra stupidità, anche se mi pare invece il segno che per fortuna certe cose sono abbastanza pure da non morire. Come indifferente a tutti i discorsi sulla sua fine e a tutti i problemi strutturali, il calcio continua a produrre emozione e stupore. Almeno fin quando noi saremo lì a ricoprirlo di significati. Ancora per quanto?

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