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Sei per sei: la corsa al premio di sesto uomo dell’anno
20 feb 2019
Compagni di squadra, storie di redenzione e figli d’arte in delle corse più incerte degli ultimi anni.
(articolo)
19 min
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Cambiare l’inerzia del gioco in modo istantaneo e senza ritmo nelle gambe non è impresa banale. È un’arte, a suo modo: quella di farsi trovare sempre pronti. Il sesto uomo ideale è probabilmente più talentuoso di qualche compagno che parte titolare, rovescia l’andamento delle partite grazie a eccellenti doti offensive (o più raramente grazie alla capacità di elevare il rendimento della fase difensiva) e, soprattutto, diventa imprescindibile nei finali di gara. Il detto “non è importante chi comincia le partite ma chi le finisce” è stato creato sostanzialmente per loro. In un sport che vive di ritmo, è vitale individuare gli elementi in grado di condensare un grande apporto per le dinamiche di squadra con ridotto minutaggio e risultati immediati. Questo ruolo delicato esalta spesso grandi interpreti: che sia il trampolino di lancio verso la definitiva affermazione come nel caso di James Harden, una condizione stabile come quella di Manu Ginobili o l’ultima interpretazione di fuoriclasse come Bill Walton, fa poca differenza.

La corsa a questo premio è tradizionalmente una delle più incerte della regular season, ma quest’anno si rischia di esagerare. Sono infatti almeno sei i candidati che si giocano uno dei riconoscimenti più combattuti della stagione 2018-19. Alcuni sono delle novità assolute, altri invece sono degli habitué come Lou Williams, che dopo il titolo dello scorso anno sta provando a rincorrere il record assoluto di Jamal Crawford, l’unico capace di conquistare la statuetta per ben tre volte in carriera. Ma la concorrenza, probabilmente, non è mai stata così agguerrita.

1. Derrick Rose

Come si fa a non essere romantici con una storia di riscatto di questo genere?

Bollato come finito solamente un anno fa, perseguitato da una serie infinita di infortuni e circondato da numerosi dubbi di natura tecnica, l’MVP della stagione 2010-11 è risorto a nuova vita grazie ad una profonda revisione del suo stile di gioco. Complici progressi insospettabili nelle percentuali dalla lunga distanza, la guardia dei Minnesota Timberwolves sta vivendo in uno stato di grazia nobilitato da una ritrovata forma fisica, che gli ha consentito di attaccare il ferro come non gli capitava da forse cinque stagioni.

In estate ha completamente ricostruito la meccanica del suo tiro in sospensione grazie a un’applicazione feroce, ma tutti gli aspetti della sua pallacanestro sono clamorosamente saliti di livello, compresa la gestione da regista puro e l’approccio personale con il gruppo che spesso non è stato il suo punto di forza. In certi frangenti della sua carriera Rose si è trovato nella condizione di passare sistematicamente una conclusione dall’arco, mentre fino a gennaio ha veleggiato intorno al 50% dalla lunga distanza - e questo ha completamente riaperto il suo gioco. Le sue percentuali si stanno normalizzando sul 40% ma restano le migliori della carriera.

Ha fatto scalpore la sua ottima gestione della media distanza, la grande lucidità nei momenti chiave, la ritrovata capacità di capitalizzare le celebri improvvisazioni in palleggio. Rose si è scoperto nuovamente attaccante di razza e ha sfruttato al meglio il momento storico della lega: i quasi dieci possessi in più a partita rispetto ai suoi anni di MVP sono un tesoro che un giocatore con le sue qualità è finalmente riuscito a sfruttare. E se fino a qualche stagione fa le sue difficoltà erano spesso prese ad esempio per rimarcare le differenze di stile in voga in passato, oggi sta avvenendo l’esatto contrario. Il più grande successo di Rose probabilmente sta nel radicale cambiamento della sua immagine dal punto di vista tecnico: oggi quasi nessuna squadra può vantare un giocatore con le sue caratteristiche in uscita dalla panchina. Intendiamoci: la fragilità fisica continua a presentargli dei conti più o meno salati, come dimostrano i recenti problemi alle caviglie, ma questa seconda giovinezza sembra pronta a spiccare il volo.

La sua storia di riscatto ha mitigato l’aria turbolenta in casa T’Wolves a inizio stagione e permesso di ammortizzare le conseguenze negative dello spinoso caso Jimmy Butler, poi conclusosi con un inevitabile divorzio. Il successivo licenziamento di Tom Thibodeau lo ha subito ricondotto al centro delle speculazioni mediatiche: il suo rendimento è destinato a risentire dal distacco con l’uomo che più di chiunque altro ha creduto nelle sue qualità? Altro drama, come testimonia qualche recente inciampo con i media e una nuova lente di ingrandimento pronta a dissezionare le sue prestazioni. Il pubblico avrebbe gradito una sua partecipazione alla partita delle stelle, il fattore X della sua notorietà potrebbe valere molto nell’assegnazione del premio, ma occhio al record di squadra che potrebbe tradirlo. Se esistesse il vecchio premio di Comeback of the Year, non ci sarebbe neanche discussione.

2. Lou Williams

Gli anni passano, le certezze vacillano, ma Lou resta uno dei migliori specialisti a uscire dalla panchina - e insieme a Manu Ginobili e Jamal Crawford, è da considerarsi probabilmente il miglior interprete della categoria nelle ultime dieci stagioni. La concorrenza quest’anno è più che agguerrita: la prepotente emersione del compagno squadra Harrell per esempio gli ha sottratto preziosa visibilità ad inizio campionato, ma il suo rendimento a cavallo del nuovo anno (oltre 20 punti con circa 6 assist) lo ha ricondotto in una posizione favorevole per aggiudicarsi il premio. Le sue quotazioni sono esplose definitivamente con l’approssimarsi della partita delle stelle; i suoi 31 punti, 10 rimbalzi e 10 assists nella vittoria dei Clippers sui Bulls del 25 gennaio lo hanno catapultato nell’olimpo degli almanacchi statistici. Si tratta della prima volta che un giocatore riesce a compilare una tripla doppia dalla panchina con 30 punti dai tempi di Detlef Schrempf nel lontano 1992/1993. Le prestazioni registrate a febbraio confermano la sua crescita esponenziale, come provano i 45 punti griffati nella sconfitta con i Wolves dell’11 febbraio.

Nei primi mesi di regular non eravamo di fronte alla sua migliore versione, ma quando si è fermato per infortunio i Clippers hanno incontrato diverse difficoltà con una fase offensiva da subito in evidente fase di stagnazione. Specialista sopraffino del pick e roll, passatore sottovalutato, eccezionale calamita di falli, solido interprete del quarto periodo di gioco e il miglior realizzatore della NBA per minutaggi intorno ai 25 minuti. Sottodimensionato rispetto agli standard fisici del ruolo e costretto a fare i conti con una lega di grandi atleti, ha sempre dimostrato una grande predisposizione per i finali di partita. Le sue medie nell’ultima frazione di gioco sono degne dei migliori attaccanti del lotto e si specchiano con i numeri di Devin Booker, Lebron James e Kemba Walker. Fin qui non ha garantito la stessa linea di rendimento di Rose ma i suoi picchi sono davvero notevoli e non smettono di sorprendere.

Coach Rivers lo ha trasformato in uno dei leader dello spogliatoio, razionalizzando il suo impiego che è sceso di sei/sette minuti. Ma se la sua media realizzativa (19.9 a partita) è una delle più elevate in carriera, uno dei motivi principali è la grande chimica di squadra. La panchina dei Clippers è una delle più produttive della NBA, garantisce oltre 50 punti a sera con vette che superano facilmente quota 60, non c’è quindi da sorprendersi se due dei suoi componenti principali sono candidati credibili per il sesto uomo dell’anno. In modo particolare Williams ha dimostrato un approccio più maturo rispetto al recente passato e infuso qualità da grande veterano che non tutti sono pronti a riconoscergli: la sua capacità di prendere per mano i compagni e di correggere le spaziature nei momenti chiave è certamente un grande valore aggiunto. La coabitazione con Avery Bradley e Patrick Beverley ha funzionato oltre le più rosee previsioni e ha contribuito a mascherare il suo impatto difensivo notoriamente pacifista. In più, ogni tanto regala siparietti di puro culto come in questa occasione con Lance Stephenson. Un vero classico intramontabile.

https://twitter.com/NBAonTNT/status/1078897366965542912

3. Domantas Sabonis

Kirk Hinrich ha spesso ricordato che le statistiche sono come un bikini: possono mostrare qualcosa, ma certamente non tutto. Pur utilizzando con saggia cautela i numeri in un momento storico in cui i punteggi ipertrofici sono norma e regola, c’è una ricorrenza statistica che merita attenzione. Domantas Sabonis ha confezionato quest’anno due partite consecutive da 20 punti e 15 rimbalzi uscendo dalla panchina, un piccolo evento a cui la lega non assisteva dal gennaio 1992 quando un giovane Shawn Kemp era impegnato nella sua rincorsa al vertice della NBA. Picchi da primo della classe che fanno stropicciare gli occhi, un punto di arrivo per l’emergente lituano, costretto a soffrire nella stagione da matricola un lavoro di ricostruzione tecnica indirizzato a trasformarlo in un lungo perimetrale di punto in bianco. Un esperimento che non ha pagato risultati apprezzabili e che al termine della tornata 2016-17 lo ha traghettato ai Pacers a margine dello scambio che ha visto coinvolti Paul George e Victor Oladipo.

Dopo meno di due stagioni effettive, i due volti nuovi di Indiana sono considerati i migliori giocatori del roster gestito da Nate McMillan. Il prodotto di Gonzaga ha stravolto le gerarchie e allo stato attuale riveste un peso specifico superiore al titolare Myles Turner. Sabonis viaggia con disinvoltura intorno alla doppia cifra di media per punti e rimbalzi (sui 36 minuti è vicino ai fatidici 20+15), è il simbolo dell’anima operaia della squadra e un ingrediente fondamentale di una franchigia che veleggia verso le 50 vittorie stagionali nonostante le avversità. Il figlio d’arte è riuscito a traslare nella lega le stesse caratteristiche che lo hanno trasformato in un prospetto di alta lotteria: la felice sintesi tra ferocia agonistica e la raffinata cura dei dettagli al servizio del collettivo.

Il suo 60% abbondante dal campo è frutto di una selezione di tiro molto matura per la sua età e di un piccolo arsenale di movimenti dinamici che cominciano a lasciare il segno. Raramente le sue soluzioni rubano l’occhio agli osservatori, ma la sua efficacia e la fluidità sono già da riferimento assoluto. Solamente nel 2016 la sua percentuale di tiro flirtava con il 40%; i progressi notevolissimi messi in mostra finora lo candidano anche per il premio di giocatore più migliorato. La sua ridotta apertura di braccia e qualche limite atletico non si notano quasi mai: le carenze strutturali sono compensate da un moto perpetuo che finisce per travolgere i lunghi avversari.

Uno degli aspetti meno raffinati del suo gioco è nella fase difensiva: eccessivamente falloso a causa del suo spirito agonistico, spesso mostra qualche esitazione di troppo quando il diretto avversario lo trascina fuori dal pitturato. Effetti collaterali del suo stile che il tempo e l’applicazione dovrebbero mitigare. I Pacers e in modo particolare il rendimento della coppia Turner-Sabonis hanno insospettabilmente tratto giovamento dal primo infortunio di Oladipo (7-4 di record ottenuto dalla responsabilizzazione del gruppo e la razionalizzazione della fase offensiva), e al rientro ne hanno ridefinito il volume di gioco con benefici per tutti i componenti del roster. Il nuovo lungo stop del giocatore di riferimento potrebbe disegnare scenari inediti e incrementare ancora il suo peso specifico. Il prodotto di Gonzaga colleziona doppie doppie con grande facilità, scocca una decina di tiri a partita e realizza circa 15 punti, ha fatto capolino nella classifica dei più migliorati nella graduatoria del plus-minus e accende le partite con un’intensità contagiosa per i compagni. Ci sono relativamente poche possibilità che questo gruppo arrivi lontano come ai tempi di Reggie Miller, ma Sabonis potrebbe essere una delle pietre angolari per riuscirci.

4. Montrezl Harrell

I tifosi dei Clippers e i più assidui utilizzatori del League Pass si erano accorti di lui già una stagione fa grazie alle sue scariche adrenaliniche sul parquet, nonostante un minutaggio molto sacrificato che lo aveva trasformato in un giocatore di culto del sommerso. La partenza di DeAndre Jordan gli ha spalancato le porte della notorietà che ha conquistato a furia di azioni a base di sacrificio fisico e di desiderio puro. Regala al pubblico e ai compagni dei momenti di grande energia in cui accede idealmente delle situazioni di gioco in cui non dovrebbe vantare alcun diritto di cittadinanza.

Palesemente sottodimensionato per il ruolo di centro, riesce a compensare con una determinazione degna di un cavaliere templare che miscela con una magnetica attrazione per la palla a spicchi. Anche quando sembra spacciato recupera quasi sempre in difesa o compare provvidenzialmente per aiutare un compagno in difficoltà con l’avversario diretto. Al college aveva messo in mostra un discreto tiro dalla media distanza nonostante tempi di caricamento eccessivamente lunghi per gli standard della lega odierna, caratteristica che sembra aver accantonato visto che la sua produzione offensiva arriva quasi esclusivamente nei pressi del ferro. Qualche volta si concede dei tiri abbastanza bizzarri, ma quasi sempre si affida a conclusioni ad altissima percentuale. Paragonato recentemente a Dennis Rodman, è sicuramente evidente che la sua intensità non ha rivali anche in una lega di atleti fuori dal comune e la sua encomiabile resistenza fisica sta emergendo grazie a un utilizzo sempre maggiore a livello di minutaggio.

Al momento sta scollinando i 15 punti a sera a cui aggiunge una notevole produzione a rimbalzo e se calcoliamo la sua produzione su 36 minuti otteniamo quasi 20+10 ad uscita. Cifre che descrivono adeguatamente il suo contributo che va a braccetto con i migliori interpreti del ruolo e che hanno reso popolare la sua sagoma con la rigogliosa capigliatura. In qualche occasione le percentuali ai liberi lo tradiscono, ma la sua mobilità e le buone letture su entrambi i lati del campo gli permettono di uscire quasi sempre vincitore nella situazioni più complesse. Il suo utilizzo enciclopedico del tagliafuori e la smaliziata capacità di proteggersi con il ferro sarebbero da mostrare a tutti i lunghi sottodimensionati del mondo, ma con le sue caratteristiche tecniche peculiari e lo stile di gioco polarizzante ha già fatto capolino nei dossier degli scout impegnati a recensire gli atleti per il prossimo Draft. Concorre anche per il premio di più migliorato dell’anno, ma l’impressione diffusa è che la variabile più importante rispetto alla passata stagione sia semplicemente la fiducia di coach Doc Rivers e la minore concorrenza nel ruolo.

Eccessivamente litigioso con il pubblico e in leggero calo rispetto ad inizio stagione, ha perso qualche posizione nella corsa al premio.

5. Spencer Dinwiddie

A inizio stagione uno scettico e disincantato Dinwiddie non esitava a definire come precaria la sua condizione all’interno del roster dei Nets. Nel giro di un paio di mesi, però, l’ex Detroit Pistons si è trasformato in una granitica certezza, tanto da firmare un’estensione triennale da 34 milioni di dollari.

La sua scalata al potere all’interno della franchigia è una delle storie più interessanti a cui ha dato vita la prima parte della stagione regolare e un ottimo promemoria della grande profondità di talento e di alternative presenti all’interno dei roster NBA. Vittima di un grave infortunio nel suo ultimo anno di college e scivolato al secondo giro del Draft 2014, non è mai riuscito ad imporsi nella città dei motori anche a causa di un ambiente per lo più scettico riguardo il suo potenziale. Dopo un rapido giro di giostra sull’ottovolante tecnico dei Chicago Bulls terminato con un taglio a favore di R.J Hunter (!), ha finalmente trovato un porto sicuro nella squadra gestita da Sean Marks.

Brooklyn gli ha concesso tempo e fiducia e sopra tutto lo spazio necessario per emergere e limare gli aspetti principali del suo gioco. Gli infortuni di Jeremy Lin e di Sean Kilpatrick hanno sicuramente agevolato la sua graduale ascesa a cui ha contribuito un approccio mentale più solido e l’encomiabile politica di sviluppo della squadra. L’uscita di scena di Caris LeVert ha notevolmente rafforzato la sua importanza nelle rotazioni di coach Atkinson e il suo rendimento ha parzialmente oscurato l’aura di intoccabilità D’Angelo Russell e la versatilità di Rondae Hollis-Jefferson.

Dinwiddie ha di fatto lo stesso minutaggio registrato nella scorsa stagione, ma ha completamente cambiato l’inerzia del suo contributo e si trasformato in un playmaker più attento alla realizzazione (5 punti in più di media) che alla mera gestione. Veleggia intorno ai 17 punti a sera a cui aggiunge 5 assist, medie degne dei più grandi specialisti da second unit. Ha stravolto in positivo buona parte delle partite di Brooklyn imponendo il fisico imponente per il ruolo e un rinnovato bagaglio offensivo. Tira molto meglio e gli innegabili progressi balistici sono evidenti grazie alla sua percentuale dal campo che flirta con il 50%, mentre nel 2017-18 era ampiamente sotto il 40%. È leggermente diminuito il suo impatto a rimbalzo, ma è clamorosamente emersa la sua leadership che è senza dubbio uno degli elementi che stanno traghettando la franchigia ai sospirati playoff.

La sua modestia, enfatizzata da anni di duro anonimato, ha conquistato il pubblico e gli addetti ai lavori e la sua originalità nella scelta delle scarpe (con tanto di brand personale) ha già strappato più di qualche sorriso. Oltre al giocatore, infatti, sta emergendo anche un personaggio a suo modo bizzarro, che segue una curiosa routine pre-partita portafortuna e che decanta le ottime qualità dei frullati alla cannella. Ex studente modello, cresciuto in una famiglia con un padre agente immobiliare e la madre insegnante, ha presto mostrato un grande interesse per il mondo degli affari e prima di inserire il suo nome sulla mappa della lega si era già distinto come uno dei più entusiasti sostenitori del mercato delle criptovalute all’interno della NBA. Finito al terzo posto del premio di giocatore più migliorato nella scorsa stagione dietro a nomi del calibro di Victor Oladipo e Clint Capela, ha fatto fatto più volte capolino nella speciale classifica dei realizzatori dell’ultimo minuto di gioco per mantenere il punteggio o siglare un vantaggio. Si è trasformato da panchinaro con poche prospettive a finisseur di lusso: per quelle che erano le premesse, non è cosa da poco. L’infortunio al pollice ha pesantemente compromesso le sue quotazioni ma la sua annata è da incorniciare a tutti gli effetti e il rientro vicino.

6. Dennis Schroeder

L’impatto del tedesco alla corte di Billy Donovan ha fatto girare la testa a buona parte delle squadre della costa Ovest. Il play proveniente da Atlanta, infatti, ha infatti sorpreso anche i suoi più accesi sostenitori. Reduce da stagioni complicate e in evidente difficoltà nel ricoprire il ruolo di stella agli Hawks, ha trovato redenzione in uno scenario che lo ha sollevato da troppa pressione e che gli ha consentito di capitalizzare le attenzioni che le difese riservano a Russell Westbrook e Paul George.

L’aura delle due stelle, l’ambiente più semplice rispetto a una metropoli come Atlanta e l’inserimento in un contesto tecnico più solido ha pagato subito dividendi. Dennis ha migliorato la selezione del tiro da fuori (le sue triple sono assistite quasi nell’80% dei casi) anche se la meccanica è ancora da rifinire. Il grande lavoro dello staff dei Thunder ha contribuito ad elevare il suo rendimento difensivo che si è allineato sugli ottimi livelli della squadra. Schroeder si è perfettamente calato nella nuova realtà e sta velocemente cancellando buona parte degli stereotipi negativi che lo hanno accompagnato per buona parte della giovane carriera.

Il suo talento cristallino e la capacità di creare dal palleggio ha notevolmente agevolato il compito degli uomini franchigia e cancellato il doloroso ricordo di Semaj Christon e Raymond Felton che lo hanno preceduto. Durante l’era Westbrook la creazione offensiva dalla panchina ha spesso rappresentato un problema irrisolvibile, mentre ora finalmente il peso specifico del tedeschino fa tornare alla mente l’impatto di un giocatore del calibro del primo Reggie Jackson. La sua importanza nel gioco di OKC è ancora oggetto di studio: quando Russell riposa in panchina e si trova a dividere il campo con Paul George, il suo Usage Rate oscilla spesso anche oltre il 30%, numeri che attestano chiaramente quanto il suo stile di gioco sia ancora piuttosto dispendioso e necessiti di attenta gestione.

Rispetto ad altri celebri interpreti della specialità sconta delle percentuali dal campo poco entusiasmanti (siamo nei dintorni del 40%) che hanno notevolmente risentito di un piccolo slump a cavallo tra dicembre e la prima parte di gennaio, dovuto probabilmente anche a dei problemi muscolari. La sua produzione complessiva si attesta intorno ai 15 punti e 4 assist, numeri di notevole impatto che lo inseriscono di diritto nella corsa al premio di sesto uomo. Grazie ai consigli di Mike Budenholzer ha sviluppato un eccellente floater modellato dallo studio di Tony Parker e che oggi si attesta su medie di realizzazione vicine al 50%. Da sempre uno dei giocatori più veloci della lega in transizione offensiva, la sua completa maturazione necessita forse di ulteriore lavoro, ma è sulla giusta strada.

Menzione d’onore a chi si è particolarmente distinto:

J.J Barea: L’infortunio al tendine d’Achille ne ha fermato la corsa, ma l’annata del 34enne portoricano sfiora l’irreale. I rimarchevoli 10.9 punti e 5.6 assist di media non descrivono adeguatamente il suo impatto che in molte partite è stato secondo solo a quello di Luka Doncic.

Terrence Ross: A volte ritornano. Le sue buone prestazioni lo hanno trasformato in un uomo mercato di grande fascinazione per squadre come Thunder e Pelicans che lo hanno sondato alla disperata ricerca di un valido interprete in ala piccola. Salito a quasi 15 punti di media, solido e continuo al tiro, l’atleta invece lo conosciamo sin dai tempi delle gare delle schiacciate.

Dwyane Wade: I numeri sono più confortanti rispetto alle ultime annate e a conti fatti resta uno dei migliori giocatori di Miami nonostante le 37 primavere. Esempio per un roster ancora giovane e poco incline alla continuità: i 19 punti realizzati contro i Celtics con 8/12 al tiro sono un buon esempio del suo contributo. Un farewell tour di buon livello.

Bogdan Bogdanovic: Uno dei segreti meglio custoditi della lega. Un ginocchio in disordine lo ha tenuto fuori dalla contesa a inizio stagione, ma sta risalendo la china con grande impeto. Più efficace vicino al ferro rispetto al passato e play secondario affidabile. Sempre più spesso ha fatto capolino tra i titolari ma deve ancora raggiungere le 10 presenze in quintetto base.

Fred VanVleet: Candidato di grande spessore della scorsa stagione ha leggermente deluso le attese anche a causa di numerosi acciacchi fisici e una rotazione ancora più profonda. Passato dai margini della lega a un ruolo di solido comprimario, sta ancora esplorando le potenzialità del suo gioco ma è già uno degli uomini di fiducia di coach Nurse. La consistenza del suo tiro da fuori a volte lo tradisce ma il suo recente infortunio rischia di pesare sul gioco dei canadesi.

Monte Morris: Al suo posto doveva esserci Isaiah Thomas? Il prodotto di Flint è una delle sorprese del 2018-19 e la sua energia e costanza di rendimento è uno dei tanti ingredienti della ottima stagione dei Denver Nuggets. Contribuisce con un apporto di punti in doppia cifra, difesa, entusiasmo e una lettura sempre lucida del gioco. Un floor general di buon lignaggio pescato praticamente dal nulla è merce rara.

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