
Esiste qualcosa che elettrizza gli appassionati di sport come l’idea di un record? È difficile trovare una sensazione appagante come quella di essere testimone diretto delle gesta di un atleta che oltrepassa i paletti che un altro essere umano aveva piantato ai limiti delle possibilità di un’intera razza di otto miliardi di elementi. Provate a mettervi nei panni di un appassionato di atletica - e in particolar modo delle medie e lunghe distanze - negli otto giorni che vanno tra l’8 e il 16 febbraio 2025. Provateci: come ci si sente dopo aver assistito a una cosa come sette record del mondo, cinque su pista indoor e due su strada, in poco più di una settimana?
Record che fino a qualche anno fa sembravano affari per la specie umana 2.0, che pensavamo avrebbero tenuto fino al 3000 dopo Cristo, e che invece sono caduti come ciliegie (premature in questo periodo dell’anno), primati pluridecennali polverizzati con margini larghissimi. Sarebbe stato difficile pronosticare anche solo uno dei record che sono stati infranti durante questi otto giorni folli: un po’ per il fatto che siamo ancora in una fase iniziale della stagione, in cui gli atleti si trovano ancora a fare i conti con la brillantezza da ritrovare dopo le intense fasi di costruzione invernale; un po’ perché incomincia un anno strano per lo sport, il primo della transizione tra due cicli olimpici.
IL RECORD SUI 3000 METRI
La folle settimana dell’atletica comincia sabato 8 febbraio ai Millrose Games di New York, uno degli eventi di punta della stagione indoor. I Millrose Games sono un evento dalla tradizione ultracentenaria che nasce nel 1908 su una iniziativa dal basso dei dipendenti della branca newyorkese dell’emporio Wanamaker, progenitore dei grandi magazzini americani, che avevano fondato una squadra di atletica dal nome “Millrose Athletic Association”. Oggi sono un momento di culto per l’élite dei mezzofondisti d’oltreoceano, che si danno appuntamento sul tartan blu del leggendario Armory di Upper Manhattan per sfidarsi sui 3,000 metri, le due miglia e la leggendaria gara da un miglio icona dell’evento: la Wanamaker Mile, che prende il nome da Rodman Wanamaker direttore del magazzino di New York a cavallo tra ‘800 e ‘900.
Liquidare il bottino di record conquistati ai Millrose Game con la notizia nuda e cruda non renderebbe giustizia alla bellezza delle gare che hanno portato a questi risultati. La sfida sui 3,000 metri è uno scontro tutto statunitense tra il campione olimpico sui 1,500 metri Cole Hocker e il plurimedagliato olimpico Grant Fisher - che l’anno scorso per Team USA è tornato da Parigi con due medaglie di bronzo, una sui 5,000 e una sui 10,000 metri. La gara procede secondo il pronostico: a battagliare sono i due favoriti, Hocker e Fisher. Il primo, con la sua iconica coda di capelli rossicci e il viso allungato che svetta sul collo lungo e dritto, si mette in testa a tre giri dalla fine e detta un ritmo folle, da record del Mondo - a fine gara ammette che il suo target era proprio il 7’23 del primato mondiale.
Grant Fisher si francobolla dietro di lui e tiene il passo: sul suo volto incorniciato da un casco di capelli ricci e scuri c’è in qualsiasi situazione e in ogni gara una specie di sorrisetto, quasi un ghigno. All’ultimo giro di pista partono gli attacchi dell’inseguitore: Fisher approccia un timido arrembaggio sul primo rettilineo, ma Hocker mantiene la posizione. Poi, sull’ultima curva, Fisher ci riprova. Esce largo sull’esterno e si appaia ad Hocker, tanto che per un istante sembra che i due siano destinati ad un arrivo al fotofinish. Il volto impassibile di Cole Hocker si contorce in una smorfia quando Grant Fisher sugli ultimi venti metri strappa in maniera decisiva, allarga il suo ghigno in un sorriso, e taglia per primo il traguardo. Il cronometro di Fisher si ferma a 7’22”91: nove decimi più veloce del precedente record mondiale indoor, di 7’23”81. Con Fisher, sotto il mark del primato vigente, c’è anche Cole Hocker - che arriva corto di appena due decimi, in 7’23”14.
A fine gara, il campione olimpico è evidentemente scosso. Durante le battute iniziali della sua intervista post gara a Citius Mag Hocker è interrotto dalle lacrime. Ai microfoni confessa: «Credevo che con 7’23 avrei vinto la gara, e sapevo che avrei fatto un ottimo tempo. Vincere sarebbe stata ovviamente una bella cosa. Non so esattamente cosa sto sentendo dentro di me, ma è un processo interessante da elaborare».
IL RECORD SUL MIGLIO
La sfida sul miglio segue lo stesso spartito dell’affaire a due, con alcune variazioni. Alla vigilia la Wanamaker Mile fa parlare di sé principalmente per il matchup tra lo scozzese Josh Kerr e lo statunitense Yared Nuguse, che rappresentano due terzi dell’ultimo podio olimpico dei 1,500 metri. Entrambi sono habitue dei Millrose Games: a New York Kerr ha già vinto i 3,000 metri nel 2023 e le due miglia nel 2024; Nuguse è alla ricerca del suo three peat alla Wanamaker Mile.
Statunitense di seconda generazione con origini etiopi, Yared Nuguse è un atleta quasi per caso: dotato di una brillante mente scientifica, si fa convincere a tentare con l’atletica dalla possibilità di ottenere una borsa di studio universitaria per studiare odontoiatria. Il primo colpo di scena è fuori dalla pista, con la defezione dell’ultimo minuto di Josh Kerr per influenza. Pur tolto uno degli ovvi favoriti, il field degli atleti in gara resta profondissimo: con Yared Nuguse, partiranno il più papabile degli upset della vigilia, il super talento Hobbs Kessler (ad appena ventuno anni medaglia di bronzo nei 1,500 metri indoor ai Mondiali di Glasgow dello scorso anno), oltre a una serie di atleti internazionali alla ricerca del primato nazionale. Tra questi, gli occhi sono puntati sul giovane prodigio under 20 australiano Cameron Myers - che ha già rubato ad Ingebrigtsen una manciata di record di categoria. Rispetto ai 3,000 metri il gruppo rimane relativamente compatto per tutta la gara, ma quando i pacemaker si dileguano il pallino dell’azione resta in mano ai due favoriti della vigilia, Yared Nuguse e Hobbs Kessler. Il primo si mette in testa, a cucire diligentemente il passo, metro dopo metro. Kessler lo tampina senza mollarlo di un'unghia, e all’ultimo giro tenta una serie di attacchi dall’esterno.
Con il volto contratto dalla fatica Nuguse riesce a resistere, e taglia il traguardo per primo in 3’46”63, sotto il segno del record del mondo. Si porta con sé sotto al vigente primato anche Hobbs Kessler, staccato di appena due decimi. Il commentatore statunitense dell’evento può annunciare «The goose is loose»: Nuguse, soprannominato the goose (per nient’altro se non l’assonanza tra i due nomi), fa three-peat alla Wanamaker Mile e dopo due anni da atleta di punta del mezzofondo statunitense è finalmente detentore di un record del mondo.
Non che durante la gara Nuguse abbia avuto il tempo di pensare al record, con il fiato di Kessler sul collo dall’inizio alla fine della prova; lo stesso vale per Fisher sui 3,000 metri. Proprio Fisher mette un’enfasi particolare su questo punto. Nell’intervista post gara per Citius Mag, l’intervistatore gli chiede se, mentre correva, stesse pensando al record. La sua risposta è abbastanza chiara: «Oh, non ci ho pensato proprio per niente, il mio unico pensiero era Cole. Poi ho alzato gli occhi e ho visto il record, e solo allora ho pensato “Santo cielo”. Per battere Cole ci vuole un record del mondo». Sull’apporto di Cole Hocker alla propria performance aggiunge: «Ci credo davvero al fatto che ognuno abbia tirato fuori il meglio dall’altro. Cole ha un ottimo range tra gli 800 e i 5,000 metri, io ho un ottimo range tra i 1,500 e i 10,000 metri. Se avessimo gareggiato sui 2,500 metri mi avrebbe battuto. Ma sui 3,000 l’ho fregato, almeno per oggi. Non ci sarebbe stato modo per me di essere così veloce senza Cole».
E, tra le righe, Nuguse afferma qualcosa di simile: «Pensavo solo: “non mollare, continua a spingere” [usa l’espressione squisitamente anglosassone keep grinding]. Sapevo che se avessi mollato mi avrebbero passato». È qui che sta la spettacolarità unica di questi due primati: non nascono come prove da record, come gare da laboratorio in cui un set di lepri velocissime detta un passo folle in favore di un singolo atleta di punta circondato da un gruppo di comprimari, in condizioni ambientali ideali. I record, semmai, sono una conseguenza della competitività estrema: è questo il chiodo che Team USA sta battendo in uscita dall’ultimo ciclo olimpico, culminato con l’exploit di Parigi, e il contesto nel quale il mezzofondo statunitense sta crescendo.
Il segno di questa mentalità viene sintetizzato bene, di nuovo, da Grant Fisher, quando racconta dell’impulso dei top runner americani a mettersi in gioco spesso, gli uni contro gli altri: «È figo che entrambi [lui e Hocker] abbiamo voglia di darci battaglia dopo la miglior stagione delle rispettive carriere. Ci saremmo potuti crogiolare su questi risultati, e decidere di non sfidare altri podisti competitivi; e invece entrambi avevamo voglia di uscire a combattere. E credo che vedremo la stessa cosa nel miglio, tra poco, con Josh [lapsus] e Yared che hanno avuto una stagione fantastica lo scorso anno, ma invece che nascondersi hanno deciso di uscire a competere con i migliori».
IL RECORD SUL MIGLIO, DI NUOVO
Il prosieguo della settimana ci obbliga, però, a circoscrivere parzialmente questo assunto al contesto americano, perché quello che succede la sera di giovedì 13 febbraio nel cuore dell’Europa, al meeting indoor di Liévin, è praticamente l’esatto opposto di quanto raccontato fino ad ora. Jakob Ingebrigtsen non è un atleta che abbia bisogno di particolari introduzioni. Rispetto alla sua presenza al meeting di Liévin basterà dire questo: compare sulla linea di partenza della gara sul miglio con la faccia di uno che ha qualche sassolino da togliersi dalla scarpa - ma poi, quando è che Jakob non ha quella faccia?
La sua prova è un assalto a un record in piena regola: pacemaker velocissimi, un pacchetto di avversari di contorno, senza nessuno che lo possa impensierire; l’aiuto di una scia di led lungo l’anello interno della pista - c’è un set di luci di colore verde che gli indica il passo del record di Nuguse, e un set di colore blu che dovrebbe aiutare le lepri a mantenere il passo ideale per scortare Ingebrigtsen al primato. Già da subito, la gara intesa come competizione è un elemento totalmente secondario: il divario tecnico tra Ingebrigtsen e il resto del field è siderale. Dopo un paio giri, la grafica in sovraimpressione restituisce subito una proiezione del tempo finale: al passaggio a metà gara, Ingebrigtsen è in lizza per una prova da 3’46 - cioè lì dove Nuguse aveva fermato il proprio crono appena cinque giorni prima. A quattro giri dal traguardo l’ultima lepre affretta il passo, e Ingebrigtsen si mette in linea con il led blu - che, lo ricordiamo, è quello che dovrebbe segnalare il ritmo dei pacemaker. Quando il pacemaker abbandona la pista, Ingebrigtsen aumenta ancora il ritmo. Con una velocità media di 26.3 chilometri orari, passa la distanza olimpica dei 1,500 metri in 3’29”61 - nuovo record del mondo indoor en route: a fine gara Ingebrigtsen confermerà che il suo obiettivo per la giornata era quello di ottenere un tempo inferiore ai 3’30 sulla distanza olimpica. Infine, sfila davanti a entrambe le luci del record e chiude il miglio in 3’45”14, obnubilando il record sul miglio di Yared Nuguse con oltre un secondo di margine.
Arrivato al traguardo, Ingebrigtsen con il suo solito glaciale sguardo a favore di camera, fa il gesto di scrollarsi da sopra le spalle qualcosa. A seconda del nostro livello di malizia, potremmo giudicare il gesto in due modi. Il primo: che Jakob si stia semplicemente scrollando di dosso la ruggine dei mesi di allenamento invernale? Il diretto interessato lo aveva ripetuto anche in occasione del record di agosto sui 3,000 metri outdoor: il suo Norwegian training method è un protocollo sì efficace, ma che offre poche possibilità di testarsi durante l’anno in corso, e le competizioni al di fuori degli eventi principali, accuratamente selezionate, diventano un banco di prova per testare la condizione atletica.
Se però vogliamo aggiungere un po’ di pepe, potremmo pensare che la polvere sulle spalle di Ingebrigtsen siano le scorie dell’ormai sempiterna battaglia mediatica con l’arci rivale Josh Kerr. A metà gennaio 2025, parlando della decisione del norvegese di non firmare con la neonata Grand Slam Track di Michael Johnson - una lega sportiva pensata per creare uno stream di scontri continuo, e ben remunerato, tra i migliori atleti al mondo sulle corte e medie distanze - Kerr aveva preso in giro la defezione di Ingebrigtsen, screditando la sua scarsa propensione a battersi con i rivali più forti in gare frontali, senza pacers: nella dimensione più pura della competizione. Ingebrigtsen gli aveva risposto dopo poche ore sulla tv norvegese: «Il giorno in cui Kerr contribuirà alla rincorsa di qualche record del Mondo, lo prenderò seriamente. Ma solo quel giorno». L’affermazione è un programma di intenti e dimostra dove sta, in fondo, l’attenzione di Ingebrigtsen: forse è vero, probabilmente la competizione per lui è un elemento secondario. All’opposto della filosofia statunitense, la vittoria è al massimo una conseguenza di una giornata perfetta in pista, ma è con i record, o se vogliamo con quella che in NBA chiamerebbero strength in numbers, che Ingebrigtsen sta costruendo la sua legacy. È giusto? È sbagliato? Questa ricerca spasmodica ai record fa più male che bene allo sport, perché uccide l’elemento competitivo? I cinque primati che Ingebrigtsen conserva sembrano dare ragione a lui. Tra quanto ci toccherà aggiornare il conto?
IL RECORD SUI 5000 METRI
Il record successivo si fa attendere neanche ventiquattro ore, e nasce in modalità più o meno simili a quelle che hanno decretato la performance mondiale di Ingebrigtsen. Voliamo di nuovo sulla costa orientale degli Stati Uniti, a Boston, dove la notte di San Valentino si corre il Boston University Valentine Invite. Sulla linea di partenza dei 5,000 metri ritroviamo il ghigno di Grant Fisher. Il recordman statunitense già dopo i 3,000 metri dei Millrose Games avrebbe avanzato la richiesta di una batteria di lepri che al Valentine Invite potessero fare un passo da record mondiale sulla sua specialità - una delle gare su cui ha vinto il bronzo olimpico. Fisher, come Ingebrigtsen il giorno precedente, corre una non gara: si mette diligentemente in coda ai suoi pacemaker (li ringrazia con vistose pacche sulla spalla quando escono dalla traiettoria, dopo il loro lavoro), azzanna la pista con la voracità di un lupo, metro dopo metro, doppia tutti gli avversari e si invola verso il traguardo. Vince la gara in 12’44”09, battendo di oltre cinque secondi il ventennale record indoor stabilito da una leggenda vivente come Kenenisa Bekele nel 2004. L’atteggiamento post gara di Fisher è interessante. A differenza della postura distaccata di Ingebrigtsen ammette con lucido realismo di aver corso la sua personale gara da laboratorio: l’opposto della situazione nella quale si era trovato sei giorni prima a battagliare con Cole Hocker. Nonostante confermi di aver spinto il proprio corpo al proprio limite fisico e mentale (torna il termine grinding), si prende un momento per elencare quei fattori che lo hanno aiutato a indorare la pillola: ringrazia le lepri «per ogni passo che lo hanno aiutato a fare», e poi «niente vento, una pista molto reattiva, una temperatura perfetta, un tasso di umidità perfetto».
IL RECORD NELLA MEZZA MARATONA
La settimana dei record si chiude con un paio di primati su strada che per margini e numeriche sono forse i più impressionanti dell’intero filotto. Domenica 16 febbraio alla mezza maratona di Barcellona l’ugandese Jacob Kiplimo ha corso i 21 chilometri più veloci della storia, smantellando il record di Yomif Kejelcha con oltre 45 secondi di margine. C’è chi è arrivato a vedere nel record di Kiplimo una sorta di vendetta perfetta nei confronti di Kejelcha, dato che lo scorso ottobre a Valencia l’etiope gli aveva rubato il primato mondiale sui 21 chilometri con un margine di appena un secondo - stesso margine, però, con cui nel 2021 Kiplimo stesso aveva strappato il record al keniano Kibiwott Kandie. In una giornata perfetta per condizioni ambientali - una temperatura di dieci gradi alla partenza, assenza di vento, un tiepido sole - Kiplimo a cinque chilometri dalla partenza è già scappato dai pacemaker (con cui aveva concordato un passo di 2:45 minuti al chilometro), e ha già staccato il gruppo di testa - in cui corrono l’ex detentore del record mondiale Geoffrey Kamworor, oltre che il recordman italiano Yeman Crippa. Chiude lo split dei 10 chilometri in 26’46 (due minuti più veloce del suo personale sui 10 chilometri), con un minuto pieno di vantaggio sugli inseguitori, e correndo i chilometri 5-10 al passo di 2:38 minuti al chilometro - roba da 10,000 metri in pista.
Ma il bello deve ancora arrivare. Con un altro incredibile split da cinque chilometri corsi in 13”01 (il passo a questo punto è di 2:36), Kiplimo passa il mark dei 15 chilometri in 39”47, diventando il primo essere umano a correre la distanza sotto i 40 minuti e migliorando il già suo record del mondo sui 15 chilometri con 55 secondi di margine. Con un punteggio di 1330 punti World Athletics, questo split da 15 chilometri è la prova su strada con il punteggio più alto mai registrato. Ovviamente, non è finita qui: nella giornata perfetta, il record del mondo sulla mezza maratona è una formalità. Con un passo al chilometro medio di 2:41 e una velocità media di 22.3 chilometri orari, la prova di Jacob Kiplimo è una perla della storia sportiva che trascende i numeri stessi che ne proclamano la natura di record.
Questa prova è un guanto di sfida alla cattedrale incompiuta ultima del fondo: l’abbattimento del muro delle due ore in maratona. Perché Jacob Kiplimo è atteso all’esordio sulla distanza ad aprile, a Londra, in quella che è già stata definita la maratona del secolo per il calibro assoluto degli atleti in gara, sia per parte maschile che per parte femminile. Ad accogliere l’esordiente di lusso Kiplimo ci saranno atleti di punta del movimento come Sebastian Sawe e Alexander Munyao, ma ci sarà spazio anche per un Kipchoge vs. Bekele bis, dopo l’affascinante e dolceamara sfida di Parigi 2024. Che sia Londra la città del passaggio del testimone tra la gloria intramontabile dei pionieri Kipchoge-Bekele e la generazione di recordman capace di portare a termine il lavoro?
Siamo arrivati in fondo a questa incredibile settimana di record mondiali quasi con il mal di testa, e resta la domanda che ho fatto all’inizio del pezzo: è reale quello a cui stiamo assistendo? Come mai questa abbondanza di primati, proprio in questo periodo storico? Viviamo un allineamento propizio dei pianeti? Certo, il talento degli atleti non manca - ma quello, in fondo, non è mancato in quasi nessuna epoca. Se vogliamo, la differenza la fanno sempre le solite cose, quelle che ci diciamo sempre: il progresso della scienza che aiuta questi atleti a esprimere il massimo del loro talento, e la crescita di ecosistemi nazionali e internazionali che permettono a sempre più sportivi di curare la propria carriera in toto, senza l’ansia del portafoglio vuoto. Con essi, forse, una congiunzione astrale fortunata, che ci ha regalato questa settimana tutto sommato eccezionale.
E se controcorrente rispetto al comprensibile entusiasmo provassimo a cercare qualche lato negativo in questo unicum di record ravvicinati? Viviamo come forse mai prima d’ora in una fase di transizione in cui la qualità degli atleti e della comunicazione attorno ad essi e alle loro imprese sta riuscendo nell’impresa di avvicinare tanti nuovi pubblici all’atletica. Mentre è comprensibile il fascino che i record sono in grado di scatenare, nel raccontare questo sport dobbiamo stare attenti a non assuefarci al record, o all’idea che il record debba essere l’unico parametro qualitativo su cui basare il nostro giudizio su una gara. Lo possiamo fare approfondendo, contestualizzando, elogiando le prove degli sconfitti, come Cole Hocker e Hobbs Kessler; dando un volto e una profondità umana agli atleti dietro ai numeri. Se necessario affiancandoci da essi.