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Hic Sunt Leones
18 set 2014
Senza troppo rumore è arrivato in Italia un grande giocatore. Con le radici nelle leggende, Seydou Keita è ormai una leggenda del calcio africano moderno.
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25 min
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Anche se molte strade sono in terra battuta, Hamdallaye ACI 2000 è conosciuto come uno dei quartieri più eleganti e lussuosi di Bamako, la capitale del Mali. Sulle rive del fiume Niger, che ne determina i confini meridionali, alberghi internazionali si alternano a ville blindate di notabili della città e illustri maliani espatriati che scelgono questa zona per i loro pied-à-terre.

Subito a fianco di Hamdallaye si estende Lafiabougou, distretto fondato negli anni Sessanta, dopo la ritrovata indipendenza del Paese. È un quartiere commerciale, in cui ha sede uno dei mercati più grandi della città; ed è là che si sono incontrati, sul finire degli anni Settanta, Hawa Doumbia e Diego Keita. Diego lavorava in un ospedale, ed era il fratello di uno dei calciatori più famosi e forti che il Mali abbia mai avuto: Salif Keita detto “Domingo”. Hawa lavorava in uno dei banchi del mercato. Insieme avranno dodici figli: qualcuno sceglierà di ispirarsi al padre e studierà per mettersi al servizio della comunità, come Sékou Diogo, che si laureerà in farmacia. Qualcun altro, invece, crescerà con il mito dello zio, come Seydou.

Il “Soleil Terrain”, nel cuore di ACI 2000, non è propriamente qualcosa che si possa definire uno stadio. È più, come suggerisce il nome stesso, un terreno perennemente battuto dal sole cocente del Sahel. In realtà i campi di calcio sono due, di cui uno soltanto in erba: l’altro è in arenaria. Negli ultimi mesi è al centro di un contenzioso tra due società sportive che se ne litigano il diritto di fruizione. Una è il Centre Salif Keita: nato nel 1993 come polo di formazione calcistica, due anni più tardi il centro si è dotato di una squadra che oggi milita nella massima divisione calcistica del Mali. L’altra è il Lafia Club, sorta sulle ceneri dell’FC Soleil, che gioca in seconda divisione.

Entrambe hanno un settore giovanile molto florido, e una filosofia inappuntabile: non sono elitarie, iscriversi ha un costo sostenibile anche per i meno abbienti, e la permanenza in squadra è vincolata alla frequenza e ai risultati scolastici.

Il presidente del CSK, il cui soprannome è Equipe Sambalanio, la “squadra del rinnovamento”, è la leggenda Salif Keita. “Mi pare complicato non riconoscere che i miei ragazzi hanno rivoluzionato il nostro calcio, che grazie a loro, a tratti, ha ricordato - con le dovute proporzioni - quello messo in pratica dal grande Barça”.

A capo del Lafia Club, invece, c’è Sékou Diogo Keita, che ha smesso di fare il farmacista per avventurarsi nella politica locale e nel mondo dello sport, oltre che curare gli interessi in Mali di Seydou Keita, che tutti a Bamako chiamano ancora Seydoublen. In lingua bambara significa Seydou Il Chiaro.

Sbocciata sui campi del Soleil Terrain, la carriera di Seydoublen, come il corso del fiume Niger, ha attraversato le cateratte delle serie minori francesi, gli altopiani desertici dell’estremo oriente e le vallate fertili degli irripetibili successi blaugrana, prima di finire per riversare le sue acque in quelle di un altro fiume, il Tevere.

Nella Coppa del Mondo U-20 disputata nel 1999 Seydou Keita, con la maglia delle Aigles (Aquile) du Mali, venne premiato come miglior giocatore del torneo, davanti all’inglese Frank Lampard e al brasiliano Ronaldinho

Seydou Keita ha firmato un contratto che lo lega per un anno alla AS Roma qualche giorno prima dell’inizio dei Mondiali di Brasile.

Nelle sessioni di calciomercato che hanno caratterizzato le ultime tre stagioni, vari rumors hanno incessantemente associato i nomi di Eto’o e Drogba, le due figure più carismatiche e vincenti del calcio africano recente, almeno nell’immaginario collettivo, a squadre italiane. Mentre il calciatore africano più titolato (con sedici trofei conquistati dalle squadre di club in cui ha militato), Keita, ha invece accettato a 34 anni la proposta della squadra di Rudi Garcia, preferendola alle tentazioni del Liverpool: “Mi avevano fatto un’offerta già nel marzo scorso. Significa che volevano davvero lavorare con me. E sta a me ora provare che malgrado la mia età ho ancora qualcosa da dimostrare”.

L'impressione è che l’imminenza della competizione iridata, e le ottime prestazioni nell’ultima stagione del centrocampo formato da Strootman, De Rossi e Pjanić, hanno fatto sì che il tesseramento di Keita venisse accolto un po’ troppo in surplace, quando è stato ufficializzato.

Chiamarsi Keita in Mali è un compito gravoso: è un patronimico ricco di gloria e responsabilità. Secondo una leggenda mandinka tramandata dai griot, i custodi della memoria orale, il fondatore dell’impero maliano si chiamava Sunjata Keita. Da piccolo soffriva di una menomazione alle gambe; poi, grazie alla sua determinazione e al suo coraggio, ha imparato a camminare ed è diventato un leader militare rispettato. Ogni Keita che compare in questa storia, in un certo verso, ha ripercorso i passi dell’illustre capostipite: ha lottato contro le avversità, si è eretto sulle proprie gambe, è arrivato lontanissimo. Nel Mali che aveva appena ritrovato l’indipendenza, Salif Keita – l’attuale presidente del CSK – era un calciatore di spicco dello Stade Malien. Figlio di un camionista, aveva esordito nella massima serie a quindici anni appena, attirando da subito le attenzioni calcistiche di mezza Francia, che non aveva ancora reciso del tutto il cordone ombelicale culturale e sportivo che la legava alla sua ex-colonia. In particolare era entrato nel mirino dell’Association Sportif Saint Etienne.

Salif, appreso dell’interesse dell’ASSE, aveva abbandonato il paese alla cheticella, clandestinamente, senza avvertire nessuno. Aveva preso un aereo alla volta di Parigi. Atterrato a Orly aveva cercato un taxi.

Al conducente aveva detto: “Allo stadio Geoffroy-Guichard, per favore”.

Il tassista era rimasto interdetto.

“Ma intende dire... lo stadio del Saint Etienne?”.

“Proprio quello”.

Si era sporto per inquadrare il passeggero nello specchietto retrovisore. “Ma... lo sa che si trova nella Loira?”.

“E allora?”.

“Beh, sarebbero 470 kilometri, da qua”.

“Se il problema è chi paga, non si preoccupi: ci penseranno loro del club”.

(Questo leggendario sketch col tassista ha ispirato uno dei cori storici della tifoseria dell’ASSE, peraltro).

In una delle prime partite con la maglia verde dell’ASSE, contro il Sedan, Salif ha messo a segno 6 reti: in totale, durante la sua permanenza con le Pantere Nere (che devono soprannome e mascotte proprio a Salif), i goal saranno 135 in 167 partite giocate, oltre alla vittoria di 3 campionati e 2 Coppe di Francia, nonché una Scarpa d’Argento (nel 1967, con 42 goal). L’allenatore dell’ASSE del tempo, Albert Batteux, una volta ha dichiarato: “Gli ho visto provare delle cose soprannaturali. E riuscirci ogni volta”.

Il motivo per cui il nome di Salif è entrato a far parte del gotha calcistico africano è che nel 1970, quando France Football ha deciso di istituire un Ballon D’Or per il continente nero, il primo calciatore a essere premiato è stato proprio lui. Quando gli hanno consegnato il trofeo, il direttore del giornale si è fatto scappare una frase infelice: “Peccato che non sia francese, ma maliano...”. Salif, nazionalista sincero e convinto, aveva appena rifiutato il conferimento della cittadinanza francese.

Nel corso della sua carriera Salif ha giocato anche in Portogallo, con lo Sporting, e in Spagna, agli ordini di Alfredo Di Stefano, nel Valencia. Nella prima edizione della Coppa d’Africa alla quale il Mali ha partecipato, nel 1972, ha contribuito a trascinare la sua Nazionale fino alla finale, persa poi rocambolescamente per 3-2 – dopo aver chiuso il primo tempo in vantaggio – contro il Congo Brazzaville. Otto anni più tardi, dopo tre stagioni con i Boston New England Tea Men in NASL, negli Stati Uniti, ha smesso con il calcio giocato. Come in un ideale passaggio di consegne, nello stesso anno, a Bamako, nasceva Seydou.

La leggenda di Salif Keita con la maglia dell'Asse.

Dopo il ritiro, Salif, ha studiato Marketing & Management, e poi è rimpatriato. Nel 1987 è stato nominato Ministro della Gioventù con Delega allo Sport. Il suo progetto prevedeva un piano di valorizzazione dei giovani che permettesse di arrivare all’edizione 1992 della CAN (il ventennale della prima edizione a cui le Aigles avevano partecipato) con una squadra competitiva. Ma il Governo ha deciso di non dotarlo dei mezzi che richiedeva: è per questo che ha fondato il suo centro privato, il CSK. Trent’anni dopo la finale persa contro il Congo-Brazzaville, quella in cui Salif Keita non era riuscito a portare il suo Paese sul gradino più alto del calcio africano, Seydoublen indossa per la prima volta la maglia della Nazionale in una gara valida per la Coppa continentale. Il Mali gioca in casa, a Bamako: è il 2002, l’allenatore è Henry Kasperczack. Keita ha ventidue anni. Da tre gioca da professionista in Francia, dove si è trasferito nel 1997 per allenarsi con le giovanili dell’Olympique Marsiglia. Al Vélodrome ha esordito, con la prima squadra, sia in Ligue1 che in Champions League. L’allenatore Abel Braga crede molto in questo centrocampista offensivo, ma pensa che sia meglio per lui maturare in una società più piccola, farsi le ossa in provincia. Per permettergli di crescere, come uomo e calciatore, la dirigenza dell’OM sceglie per lui il Lorient, allenato da Christian Gourcuff.

Keita ci mette tutto l’impegno: “Giocare in Seconda Divisione non è il mio obiettivo finale. Sono soltanto in prestito per un anno. Per questo devo lavorare duro: per me stesso, perché voglio farmi trovare pronto per la Prima Divisione”. Gioca tutte e trentotto le partite di campionato, vince la Ligue2, poi torna a Marsiglia, che lo gira ancora in prestito in Bretagna per un anno. Nel 2002 entra nel mirino del Lens. I sang et or (“sangue e oro”, in onore dei colori societari) si sono appena classificati secondi nella Ligue1. Disputeranno la Champions League e credono che il maliano possa essere un rinforzo utile alla causa. Intuizione felice: al Lens, Seydoublen, rimarrà per cinque stagioni vincendo una Coppa Intertoto e riuscendo a battere, nella stagione del suo esordio, sia il Milan in Champions League che il Porto in Europa League. A fine stagione i Rossoneri alzeranno la Coppa dei Campioni ad Atene; il Porto di Mourinho, invece, vincerà l’Europa League.

Pur giocando praticamente da ultimo baluardo mediano prima dei centrali di difesa, Seydou Keita nell’ultima stagione al Lens è riuscito a scrivere il suo nome nel tabellino dei marcatori per 11 volte.

Il processo di mutazione calcistica di Seydou Keita al Lens, soprattutto quando sulla panchina dei giallorossi siede Francis Gillot, consiste in un sostanziale arretramento del suo raggio d’azione. Nel rombo di centrocampo Keita finisce per occupare il vertice basso, e a indossare la fascia di capitano. Nel 2007, dopo aver guidato i giallorossi per due stagioni consecutive a classificarsi secondi alle spalle dell’onnipotente Olympique Lyonnaise, viene ingaggiato dal Siviglia, fresco campione di Europa League e Coppa del Re.

Quella con il Siviglia è una stagione al di sotto delle aspettative – la squadra di Juande Ramos non riesce a bissare l’exploit dell’anno precedente, esce malamente da tutte le competizioni europee e non si piazza più in alto del sesto posto – ma comunque individualmente positiva. Voci di mercato associano prepotentemente il nome di Seydou alla maglia blaugrana del Barcellona. Il maliano ribadisce di voler restare all’ombra della Giralda. Qualche settimana dopo si può definitivamente considerare il primo acquisto dell’era Guardiola.

In un’intervista rilasciata poche settimane dopo, in patria, in limine a una gara di qualificazione per la Coppa d’Africa 2008, Keita ha dichiarato: “Si può cambiare squadra di club, ma non si cambia mai paese”. Ai tempi del Lens, René Girard lo aveva convocato per Les Espoirs, la Selezione U-21 francese. “Mi sono messo a ridere e gentilmente ho rifiutato”, racconta Seydou.

Il suo rapporto con le Aigles è estremo e profondo, quasi ossessivo, caratterizzato da quel forte senso di appartenenza che molti calciatori, specie dell’Africa nera, sviluppano per le loro radici, e che porta alla totale identificazione coi colori nazionali.

Con Seydoublen in rosa, il Mali ha disputato sei edizioni su sette della Coppa d’Africa per Nazioni (solo per Egitto 2006 non si sono qualificati); per quattro volte è arrivato a un passo della finale, sconfitto nella penultima gara.

Coppa d’Africa 2010. Il Mali affronta il Malawi. Al primo minuto Kanouté segna di volée da tre quarti campo, raccogliendo un goffo rinvio del portiere avversario. Due minuti più tardi, dalla stessa porzione di campo, Seydoublen lascia partire un missile a lunga gittata che probabilmente, se non ci fosse stata la rete là dove palo e traversa si incrociano, avrebbe continuato la sua corsa fino a Bamako.

Il 2008, nella carriera e nella vita di Keita, è un anno fondamentale. Poco dopo essersi trasferito in Catalogna agli ordini di Pep nasce il suo primo figlio. Anche la sua fede subisce un forte giro di vite: influenzato da Kanouté, suo compagno di squadra nell’annata a Siviglia, diventa uno stretto osservante dell’Islam.

L’arrivo di Keita a Barcellona coincide con l’inaugurazione di una straordinaria epoca d’oro: durante la sua permanenza i culé conquisteranno 14 trofei su 19 possibili. In una sola stagione, pressoché irripetibile, la seconda, si aggiudicano Supercoppa Europea, Supercoppa Spagnola, Campionato del Mondo per Club, Liga, Coppa del Re e Champions League. Tutto, praticamente.

“Seydou Keita? La migliore persona che abbia mai allenato. Averlo conosciuto è una delle cose più meravigliose che mi sono successe da quando sono allenatore del Barcellona”. Lo ha detto Pep Guardiola. Credo che quando un allenatore utilizza la parola “persona” anziché “giocatore” ci sia in ballo qualcosa di più profondo di un semplice legame professionale.

Per Guardiola, Keita è il barometro etico e morale dello spogliatoio. Il suo cocco, sussurrano i più maliziosi. “Seydou, semplicemente, è uno di quei calciatori che rendono la professione di allenatore migliore”, ha dichiarato una volta in conferenza stampa. E di fronte a chi ha provato a mettere in dubbio il suo rendimento: “Keita è una delle mie bambine, perciò non toccatemelo”.

Seydou ha sempre provato a minimizzare, quasi stizzito: “Non capisco cosa ci trovino i media a fare tutto questo chiacchiericcio sulla pseudo-vicinanza tra me e Guardiola. Pep non mi parla praticamente mai, mi tratta come tutti gli altri e non è che mi abbia mai regalato niente...”, ha precisato in un’intervista rilasciata a RMC nel gennaio del 2012.

Il loro è un rapporto segnato da un profondo rispetto dei ruoli, questo sì, e da una sincerità sconfinata. Come nel caso della finale di Champions League del 2009. Pep si trova senza laterale sinistro di difesa per via della squalifica di Abidal. Chiede a Seydou di sostituirlo. Lo immagino guardarlo negli occhi, spiare le sue reazioni, alla ricerca di una conferma, di un appoggio. Keita rifiuta la proposta: “Abbiamo altri giocatori che possono giocare meglio di me in quel ruolo (allude a Sylvinho soprattutto, che infatti giocherà, ovviamente una partita strepitosa, NdR). Non ho mai occupato quella posizione, e questa è una partita importante; non mi ci vedo, a giocare là”.

Con Pep raramente Keita trova posto nell’undici titolare: è più una sorta di dodicesimo uomo, subito dopo i titolari e immediatamente prima del massivo pubblico del Camp Nou. Seydoublen ripaga il suo tecnico con prestazioni scevre di sbavature. Mai un mal di pancia, mai una lamentela. Torna a giocare da centrocampista centrale, subentrando spesso, in corsa, a Sergio Busquets o a Xavi. “Nel pallone non serve fare troppe chiacchiere: serve lavorare”.

La sua vita a Barcellona scorre senza troppi vizi o fronzoli: “Quando torno a casa dopo una partita parlo un po’ con mia moglie, con mia suocera, poi preghiamo e andiamo a dormire. Parliamo sempre molto poco di pallone, in effetti”. In quelle stagioni ricche di successi eclatanti, in cui il Barça sembra un’armata invincibile, fuori dal regno di questo mondo, è difficile scorgere una qualche nube carica di foschi presagi. Eppure Keita è sempre stato molto realista, fin troppo pragmatico: “Credo che come dietro alle difficoltà si nascondano opportunità, allo stesso modo dove oggi c’è felicità domani ci saranno tempi più bui. Per questo cerco di stare sempre in guardia, di farmi trovare pronto. E quando le cose girano nel verso giusto mi sento terrorizzato, perché so che non potrà durare per sempre. Bisogna volare basso, andare d’accordo con gli altri, non fare gli arroganti né credersi chissà chi, perché la vita è un continuo cambiamento”.

In totale indossa la maglia del Barcellona per 119 volte, mettendo a segno 16 reti, alcune di pregevole fattura, molte facendo semplicemente quel che c’era da fare nel Barça del tiki-taka: farsi trovare al posto giusto, nel momento giusto, per finalizzare l’azione già andata in scena milioni di volte nella testa di Pep.

Keita resta quasi sempre ai margini della manovra barcelonista, come un fratello maggiore che controlla i più piccoli nei loro giochi sul bagnasciuga. Poi riceve palla, ed è come se partisse un qualche Pitagora Switch irrefrenabile: Seydoublen effettua un passaggio a David Villa e attacca la profondità, Villa allarga per Iniesta che pennella un lob esattamente sulla fronte di Keita, che al limite dell’area piccola deve solo alzarsi sulle punte e insaccare. È il trofeo Gamper del 2011, quello della “manita” al Napoli.

Umiltà e rispetto per gli altri sono due valori fondamentali, nella concezione “keitiana” del calcio, dello sport in generale. Soprattutto il rispetto: “Non dico di essere un santo. Come tutti ho dei difetti. Però la gente la rispetto”. Uno degli episodi più tristi della permanenza a Barcellona di Keita è legato al suo scontro con il difensore del Real Madrid Pepe. In un acceso Clásico valido per la Supercoppa di Spagna succede che il portoghese, dopo un battibecco reiterato, lo chiami mono. Significa scimmia, macaco. Seydou non accenna reazioni esagerate, almeno rispetto a quanto sia ragionevole aspettarsi. “Ce gars là ne vaut-rien”, dice d’aver pensato. “Quel ragazzo non vale niente”.

Lo scontro è andato ancora in scena nel luglio di quest’anno, negli Stati Uniti. La Roma sta per affrontare in amichevole le merengues. Prima del calcio d’inizio le mani dei calciatori si incrociano. Keita si rifiuta di salutare Pepe, e quando i calciatori giallorossi sfilano alle spalle degli avversari Pepe ruota leggermente la testa, lasciando partire uno sputo. Si accende un parapiglia, anche se le immagini al momento non sono troppo chiare si vede Keita lanciare una bottiglietta d’acqua contro Pepe.

Angola - Mali del 10 gennaio 2010, sicuramente una delle cinque partite più pazze nella storia della Coppa d’Africa.

Come in virtù di una tacita (e immeritata) legge del contrappasso, parallelamente ai trionfi di Barcellona una serie di cocenti delusioni in patria. La Coppa d’Africa 2010 si tiene in Angola. Nel primo match del girone, contro i padroni di casa, le Aigles capitanate da Seydoublen al settantottesimo minuto sono sotto per quattro reti a zero. Negli ultimi dodici giri di lancetta Keita ne infila due, Kanouté e Yatabaré altre due, finisce in pareggio. Al termine delle tre gare della fase a gironi il Mali risulta eliminato. Kanouté annuncia il suo ritiro dalla Nazionale; anche Keita, nonostante abbia messo a segno tre reti in tre partite, decide di prendersi una pausa.

Ciononostante, in Africa è ormai un simbolo, portabandiera di vessilli e testimonial di iniziative umanitarie: insieme ad altri giocatori catalani partecipa a un progetto per l’alfabetizzazione in paesi devastati dai conflitti e dalla povertà come il Rwanda: nelle scuole vengono distribuiti e-reader con un suo ritratto in copertina. “Anche io leggo” recita la didascalia sotto la foto.

Quando Guardiola prende la sofferta decisione di abbandonare la panchina blaugrana, Tito Villanova chiede a Keita di restare; ma Seydou non si sente più parte del progetto, non senza Pep. E poi per lui è arrivata un’offerta irrinunciabile dalla Cina. “Non sono catalano, ma sono fiero di aver difeso questi colori”, dice nell’ultima conferenza stampa al Camp Nou. “Per me ogni giorno che passo è vincere un trofeo. Mio padre se n’è andato quando ero un ragazzino, arrivare dove sono arrivato significa vincere ogni giorno un trofeo”.

“Sai qualcosa di questa squadra?”, chiede il giornalista. Si riferisce al Dalian Aerbin, compagine cinese nella quale Keita si sta per trasferire. “So che si chiama Aerbin e gioca a Dalian. C’è il mare, a Dalian. Non so molto altro. Ma io sono prima di tutto un amante dell’avventura”.

Nelle dinamiche del trasferimento di Keita in Cina, nel 2012, sembra che un ruolo di primo piano l’abbia ricoperto la moglie, la capoverdiana Zoubida Johnson. Che sia stata lei a spingerlo ad accettare. Dopotutto le cifre previste dal contratto sono importanti, si parla di quasi quattro milioni e mezzo di dollari a stagione. Keita entra di fatto nella Top Ten dei calciatori più pagati al mondo: “È la volontà di Dio. Se Dio ha deciso che devo partire per la Cina significa che è là che la felicità mi aspetta” è il suono di un disco che ha come b-side quest’altra melodia: “Non serve a niente mentire: si gioca a pallone per guadagnare soldi, come in tutti i lavori. Sono semplicemente un avventuriero maliano alla ricerca di soldi per aiutare la sua famiglia. E allora? Non è il mio primo salto nel vuoto. Non vado solo per soldi, vado per essere buono perché nella vita detesto essere cattivo”.

Certo, la Cina non è la Spagna; e l’Asia, per quanto calcisticamente in crescita, non è l’Europa. Giresse, il tecnico del Mali, non convoca Keita per la gara di qualificazione decisiva alla Coppa d’Africa 2012, nonostante Seydou abbia manifestato fortemente la volontà di tornare a sentirsi parte del gruppo. “Avrebbe rovinato l’armonia dello spogliatoio”, la sua giustificazione. Due mesi dopo viene invece incluso nella lista dei convocati. “Volevo dire definitivamente addio alla nazionale, ma poi la Federazione e i compagni hanno quasi fatto la rivoluzione. Ho molto apprezzato”. Nello spogliatoio maliano, quello stesso spogliatoio il cui affiatamento era minato dalla sola sua presenza, Seydou diventa, per i compagni, una sorta di Padre spirituale.

Agli albori del Febbraio del 2012 il Mali è una polveriera sul punto di esplodere: a una serie di insurrezioni indipendentiste fa seguito, a breve, un colpo di stato. Il Movimento Nazionale per la Liberazione di Azawad – un gruppo militarizzato formato da tuareg musulmani, spalleggiati in passato dal regime libico di Gheddafi e stanziatisi, dopo la Primavera Araba, nel nordest del Paese – lancia un’offensiva contro il Governo centrale: occupa molte città nella sua zona d’influenza, viene arbitrariamente istituito uno Stato musulmano. La città di Timbuktu quasi rasa al suolo, appiccato il fuoco alla storica biblioteca della città. La Coppa d’Africa per Nazioni del 2012 si svolge in Gabon. Il Mali supera la fase a gironi, e la gara dei quarti di finale la mette di fronte ai padroni di casa.

Il Gabon passa al decimo minuto della ripresa: Pierre-Emerick Aubameyang, con una giocata sullo spazio stretto, serve Mouloungui, ma non è lui a spingerla in rete; è più l’incitamento dei tifosi sugli spalti, dei ragazzini che ascoltano la partita alla radio in strada, di un Paese intero che sta vivendo un sogno. A poche manciate di minuti dal fischio finale Keita si impossessa con prepotenza, quasi con alterigia, di un pallone a centrocampo e apre sulla fascia sinistra. Poi si invola verso l’area, come ai tempi di Barcellona. Tamboura, il fluidificante, crossa sul lato opposto dell’area, dove Maiga appoggia di testa per Diabaté, per il quale è facile insaccare la rete del pareggio. Per determinare chi accederà alla semifinale, poi, sarà il caso di affidarsi ai calci di rigore.

Il pallone decisivo è sui piedi di Seydou Keita. Prima di prendere la rincorsa le labbra si arricciano in un fruscio, uno sfrondare d’uccelli. Forse è una preghiera, forse una formula magica. Non guarda mai in faccia il portiere avversario. Segna, e il Mali è in semifinale.

Keita, a caldo, avvolto nella bandiera maliana come un centrometrista che ha appena aggiunto un oro al medagliere olimpico, è chiamato ancora una volta a recitare la parte del Padre spirituale: “Vogliamo dedicare questo risultato ai nostri connazionali. Non sono giorni facili, per nessuno. Alcuni di noi hanno parenti dei quali non sanno più nulla da settimane. Preghiamo per loro”. È un proclamo che somiglia in maniera impressionante a quello rilasciato da Drogba nel 2007, quando in Costa d’Avorio stava andando in scena un dramma molto simile a quello del Mali nel 2012. “Lancio un appello: cessate il fuoco. Non è normale, non è da noi. Abbiamo bisogno di pace, siamo tutti Maliani”.

L’offensiva durerà fino a dicembre 2012. Gli islamisti si spingeranno verso la parte più centrale del paese, fin quasi a lambire la capitale Bamako; la Francia, in forza di una risoluzione ONU, invierà quasi mille uomini armati in supporto al Governo dell’ex colonia.

Nel gennaio del 2013 Seydou chiede e ottiene dal Dalian Aerbin il permesso di spostarsi in Europa per preparare al meglio l’edizione 2013 della Coppa d’Africa. Si allena nel centro sportivo del Barça: quando si presenta al Camp Nou, in tribuna, l’intero stadio gli tributa un applauso commosso.

In Sudafrica il Mali sembra calcare nella carta carbone la performance dell’anno precedente: vince la prima partita del girone di misura, poi viene sconfitto dal Ghana nella seconda gara. Il terzo appuntamento è da dentro o fuori: il Mali passa, al cardiopalma, e ai quarti si trova ancora di fronte al paese organizzatore. Lo sconfigge. “Questa qualificazione alle semifinali darà un sacco di gioia alla nostra gente. Ridare le speranze, vedete, non ha prezzo. Non potete immaginare cosa significhi giocare per il Mali di questi tempi. Ho detto al Governo Centrale che può ridurre il nostro bonus premio. La mia priorità, la nostra, ora, è giocare per il nostro paese”. Quando si immagina a fine carriera, si vede in Mali: “Le cose miglioreranno, e io ci tornerò a vivere. Voglio che i miei figli siano orgogliosi delle loro origini”.

Sconfitto malamente in semifinale dalla Nigeria poi campione, che gli rifila quattro reti in poco più di mezz’ora, il Mali riesce comunque a conquistare la medaglia di bronzo, battendo nuovamente il Ghana, come nell’edizione di neppure un anno prima. La rete del momentaneo 2 a 0 è di Keita.

Al principio del 2014 Seydou decide che l’avventura cinese è ormai giunta al capolinea: “Mi sento ancora in grado di giocare ad alti livelli, in un contesto ambizioso; mi manca più di tutto la pressione. E poi c’è la vita familiare: per mia moglie, e i miei figli, non c’è granché da fare qua. Nessun posto dove farli giocare. Ma non mi lamento, sapevo cosa mi aspettava”. Il buen retiro cinese, di colpo, gli va stretto: vuole tornare a mettersi in gioco.

“Non voglio sembrare arrogante, ma sul piano fisico posso giocare fino a 40 anni. Corro, difendo, mi batto fino alla fine... Riguardo ogni partita, non mi sono mai visto con le mani sui fianchi dopo un’ora di gioco”.

Il Liverpool lo cerca con insistenza: lui, piuttosto, sceglie Valencia, dove si trova a calcare il palcoscenico già onorato in passato da un altro Keita, lo zio Salif. Carisma ed esperienza bastano per far sì che i compagni e il tecnico gli affidino subito la fascia di capitano.

Il 27 marzo segna la rete più veloce della storia della Liga, contro l’Almeria, dopo soli 7 secondi e 6 centesimi. Keita scherza incredulo: “Ora posso dire a Messi che non è lui che detiene tutti i record”.

Con la maglia bianconera raggiunge anche la semifinale di Europa League, sconfitto dal Siviglia, la sua prima squadra spagnola.

Mi capita spesso di immaginare cosa passi per la testa di chi, in eventi dalla portata storica come la fissazione di un record, ha un mero ruolo di comprimario. Marco Torsiglieri, per esempio: gli verrà da sorridere mentre racconta agli amici di Charkiv, Ucraina, dove gioca per il Metalist, come ha stupidamente perso palla in quella partita?

Il giorno in cui Keita ha esordito con la maglia della Roma in una gara ufficiale, nella prima di campionato contro la Fiorentina, subentrando a Manolas a una ventina di minuti dal 90’, era già un po’ di tempo che stavo lavorando a questo pezzo su di lui. Sapevo che sul finire della stagione passata – per quanto sbalorditivo fosse stato il suo semestre al Valencia – aveva preso in considerazione l’idea del ritiro: mi chiedevo cosa lo avesse spinto, invece, a scegliere Roma e la Roma, a 34 anni e nonostante l’abbondante e agguerrita concorrenza nel suo ruolo che lo attendeva a Trigoria.

Troppo facile pensare che uno che nella sua carriera ha vinto il doppio di quanto abbia fatto Francesco Totti possa sentirsi appagato. Il rischio, allora, sarebbe che Seydoublen, a Roma, sia venuto per portare un po’ di Storia, e non per aiutare a scriverla. Ma non è questo il punto. Forse non ci si dovrebbe mai chiedere perché un calciatore continua a fare quello che fa.

In un’intervista a Radio France International, a ridosso della firma del contratto, ha dichiarato: “Non serve a niente sottolineare che ho voglia di giocare, è evidente. Se il mister vedrà che merito di scendere in campo, allora mi farà giocare. Se ci sarà qualcuno migliore di me accetterò volentieri di fare la riserva”. Frasi di circostanza dalle quali però trasuda rispetto. Umiltà. Ho sentito dire che l’umiltà è una qualità molto apprezzata proprio perché sa come celare in maniera stilosa l’ambizione.

La qualità del video è discutbile, ma è l’unico in rete in cui si vede tutta l’azione del secondo goal della Roma. Keita riceve palla da Torosidis: si spinge verso la linea laterale, trascinandosi tre avversari. Potrebbe temporeggiare, o cercare di guadagnare una rimessa. Invece – paulatino ma inesorabile, con una giocata che è cloridrato di classe, esperienza e intelligenza – tocca di tacco per Pjanić, il quale serve con un filtrante Nainggolan libero a sua volta di innescare Gervinho. È la rete che chiude la partita.

A voler giocare con le immagini, con le suggestioni, dietro quel numero 20 con le braccia tese e le mani aperte che attira a sé in maniera messianica il pallone ci sarebbe tutto l’apparato metaforico del leone lanciato nell’arena per combattere non già più contro, ma al fianco dei gladiatori.

Più pragmaticamente, però, l’impressione – almeno quella che ho avuto io nel vederlo giocare una partita perfetta in Champions League contro il CSKA – è che con Seydou Keita, a Roma, e nel calcio italiano, sia arrivato qualcosa di enorme, di molto più grande di un semplice calembour.

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