“No!”.
“Mai”.
“Non ci provare neanche”.
Ho appena chiesto a Shea Serrano se potevo usare l’aggettivo “serranesque” per definire i suoi lavori, e diciamo che la sua risposta non è stata tra le più entusiastiche. Poco male. Anche senza trasformarlo in un aggettivo, Shea rimane una delle penne più riconoscibili nelle quali potete imbattervi quando volete assolutamente sapere cosa sarebbe successo nella stagione 1996-97 se Karl Malone fosse stato sostituito da un orso bruno o in che forma ci si presenterebbe l’NBA oggi se Nick Anderson non avesse sbagliato quei maledetti tiri liberi nel finale di Gara-1 delle Finals 1995. Questi pressanti interrogativi riempiono due dei 33 capitoli che compongono Basketball (And Other Things), la seconda fatica su carta stampata di Shea Serrano (se escludiamo il meraviglioso color book sul rap creato insieme a Bun B.) uscito lo scorso 10 ottobre e che ha venduto oltre 30.000 copie nella settimana d’esordio, raggiungendo la cima dei bestseller del “New York Times”. Un successo tanto assurdo quanto impronosticabile.
Shea (And Other Things)
Serrano solo qualche anno fa era un insegnante di scienze in una scuola comunale nei sobborghi di Houston; poi, per cause di forza maggiore, si è lanciato in improbabili report dalla scena Southern Rap texana e in cervellotici crossover tra sport americani, cultura pop e Vin Diesel. Un giorno ha spedito a Molly Lambert, una delle editor di Grantland, un pezzo in cui si immaginava di andare a fare regali con 2Chainz e Future. È piaciuto talmente tanto che la prima volta che Zach Lowe lo ha incrociato nei corridoi gli ha chiesto se fosse lui il messicano che scriveva quei pezzi che lo facevano ridere tanto. Era lui.
Anche se è saltato solamente in corsa sulla rivista più pazza del mondo, Serrano è diventato in pochissimo tempo uno dei beniamini di Grantland, incarnando il lato fieramente nerd della creatura di Bill Simmons. In tutti i suoi pezzi si avverte la necessità bulimica di mangiarsi la galassia del pop come fosse un barattolone di Haagen Dazs, per poi risputarla sotto forma di articoli forsennati in cui si rincorrono esperimenti scientifici sui fan di J. Cole, infinite discussioni su quale sia il miglior giocatore di finzione di sempre ed episodi di Un Giorno in Pretura con protagonisti Allen Iverson e Dwyane Wade. “Ti devo fermare qui: nessuno mi ha mai definito bulimico in un’intervista, ora devo andare di là a vomitare” mi scrive via mail.
Ho capito che Shea non ama addentrarsi troppo dentro la sua scrittura e liquida ogni mio tentativo di tirargli fuori ogni considerazione sul suo personalissimo modo di lavorare davanti pc con risposte in bilico tra la parodia e il no-sense. Shea risponde alle mail esattamente come replica ai tweet: con l’entusiasmo di chi sta aprendo una bustina di figurine quando te ne manca solo una per finire l’album e il sospetto di chi è cresciuto su Internet e sa bene che bisogna vestirsi a layers.
Non che fossi il primo a porgli una domanda del genere: l’ossessione di Shea per trasformare in listoni qualsiasi categoria esistente (e a volte inventata di sana pianta) è ormai di pubblico dominio, tanto che quando è stato ospite dei The Starters è stato introdotto come “The Ranker” e gli hanno fatto mettere in fila ogni tipo di cosa gli passasse in quel momento per la testa. C’è addirittura un momento nel libro nel quale cede alla sua ingordigia e riempie un capitolo solo di liste (si chiama “Dovremo fare un capitolo che è fatto solo da liste?” e la mia preferita è “Quali sono i 10 giocatori che portavano meglio i calzini alti”). È una cosa tipo Alta Fedeltà se al posto di John Cusack ci fosse un messicano pelato che gira solo in sweatpants (lo so che c’è anche un libro, ma nel libro non c’è Lisa Bonet) e al posto dei dischi ci fossero solo attori di disaster movies.
La puntata da ospite con J.E. Skeets, Tas Melas e i The Starters su NBA TV.
Mettere in classifica qualsiasi cosa non è una posa millennial: ogni posizione è discussa, dibattuta e decostruita non solo attraverso categorie di giudizio oggettive, ma soprattutto usando le proprie esperienze personali come filtro. Anzi, forse sarebbe meglio dire che non esiste un filtro nella mente di Shea: le statistiche avanzate sono un modo come un altro per parlare di lupi mannari e i B-Movies hanno la stessa dignità degli Insider ESPN. Non esiste un alto e un basso, un profondo e un superficiale, è come mondo finisse per caso dentro un gigantesco Arcade a 16-bit e noi avessimo un’infinita scorta di gettoni nelle tasche dei pantaloni.
Quando gli chiedo se si sarebbe mai aspettato di diventare una specie di rockstar del giornalismo mi risponde che no, non avrebbe mai pensato di riuscire a sopravvivere solo scrivendo cose che gli passavano per la testa, ma che allo stesso tempo non si sente la guida spirituale di una generazione cresciuta a blockbuster, superstar NBA e barre rap come bio di Twitter. Invece, in qualche modo, BAOT ha colpito lo zeitgeist di un target di persone che usano disinvoltamente termini come zeitgeist e target ma hanno serie difficoltà a trovare il quarto per fare l’abbonamento a Netflix.
Se potessimo scegliere, il nostro quarto sarebbe sempre Shea. Il miglior modo per conoscerlo non è attraverso delle mail scambiate in mezzo alla notte a qualche migliaia di chilometri di distanza, ma sfogliando le 233 coloratissime pagine che hanno conquistato anche Barack Obama, che lo ha inserito come “Bonus per malati di basket” nella sua lista dei dieci libri del 2017 insieme a Coach Wooden and Me di Kareem Abdul-Jabbar.
Anche perché Shea si racconta molto più nelle righe stampate che in quelle della mia cartella inbox. Quando vuole capire quanto il nome di un giocatore abbia influito sulla sua legacy mette in parole un surreale dialogo avuto con i suoi (meravigliosi) figli su Eric B. & Rakim durante un viaggio in macchina; il capitolo termina con un poster di John Harden, attore di polizieschi di serie B. Per introdurre un capitolo nel quale cerca di elencare quali giocatori vengono ricordati per il motivo sbagliato, inizia descrivendo minuziosamente un tipo con i denti giallissimi che frequentava la sua stessa scuola media. Non sappiamo quali di queste cose siano realmente accadute, se davvero i suoi figli credevano che Rakim si chiamasse Rodney o se il suo compagno avesse davvero i denti di un X-Men, ma ci crediamo e gli vogliamo credere: la cosa bellissima della sua scrittura è quanto riesce a creare immediatamente un senso di complicità col lettore, come se tutti i capitoli fossero sussurrati dal tuo compagno di banco durante una lezione di chimica prima che entrambi veniate cacciati dal preside per aver tentato un alley-oop con le boccette dei reagenti.
Sarà una di quelle storie che vi terrete da parte nel caso qualcuno un giorno volesse sapere qual è stato il vostro idolo prima di raggiungere l’età della ragione (quello di Zach Lowe era Antoine Walker e questa cosa mi fa molto ridere) e voi potete dire che era JaVale McGee solo perché funziona perfettamente così. Non so se avete presente quella storia che non bisogna mai rovinare una bella bugia con la verità, ma Shea ce l’ha presente di sicuro. Anzi, a volte ribaltare la realtà è l’unico modo per ripristinare il giusto corso degli eventi. Leggendolo dovete prepararvi mentalmente a considerare anelli che cambiano padrone, tiri che valgono il quadruplo del loro valore effettivo e personaggi di fantasia che entrano in campo per salvare la Terra, in particolare Air Bud e il suo “incomparabile dominio in tutti gli sport esistenti”. Se le 33 domande che compongono Basketball (And Other Things) vi sembravano ridicole, pretestuose o il superfluo del superfluo, preparatevi a passare notti insonni cercando di mettere insieme il quintetto perfetto per sopravvivere durante un’invasione zombie.
È un “Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere”, ma invece di avere Woody Allen travestito da spermatozoo ha Scottie Pippen in trench di pelle che sotterra ciò che rimane di Pat Ewing nella schiacciata più irrispettosa di tutti i tempi, l’unica a raggiungere il perfect score del 100 su 100. È un grido di liberazione che si fa strada tra la retorica da processo di beatificazione e la grigia, ineluttabile razionalità dei numeri. Una oasi gommosa nella quale i giocatori sono figurine oleografiche da appiccicare sopra ogni scenario la nostra fantasia sia in grado di immaginare, dalle esplosioni di Fast and Furious ai pigiama party di Mean Girls. Nulla resiste al suo frullatore impazzito, e al lettore non resta che farsi cullare dalle sue continue invenzioni anche grazie alle meravigliose illustrazioni di Arturo Torres.
My friend Arturo
“Non potrei immaginare di lavorare con nessun altro. A volte mi passa i suoi lavori e sono tipo ‘Dio questo tipo è un genio’”.
Quando Shea Serrano e Arturo Torres si sono casualmente conosciuti poco prima della deadline per The Rap Year Book, è scoppiata immediatamente la proverbiale scintilla, formando quel tandem di supereroi messicani che il mondo aspettava da tempo. Da allora i due lavorano in simbiosi: insieme hanno creato una newsletter che regalava dei segnalibri fantastici (ovviamente solo negli States *sad/grrr reaction*) e ormai ogni volta che leggo una storia di Shea la mia mente disegna con i tratti della matita di Arturo. “Mi piace usare le illustrazioni perché mi aiutano a dare vita alle immagini che ho in testa e credo che aiutino anche il lettore ad immergersi nelle cose più strane che scrivo”, scrive via mail.
In effetti in un’epoca in cui i contenuti multimediali sono parte integrante di ogni tipo di scrittura digitale, la carta stampata ha dovuto rimediare a questo gap e Shea ha pensato bene di riempire le pagine di illustrazioni, grafici, note a piè di pagina e diagrammi di flusso (mi ero riproposto di non usare più questo termine dopo la quinta elementare, invece eccoci qui). Basketball (And Other Things) è insieme modernissimo e rassicurante: è una lettura lisergica, scombinata, che procede per accumulazioni come il suo predecessore sulle migliori canzoni del rap anno dopo anno. I momenti che preferisco sono quelli dove le frasi si rincorrono, si aggrovigliano come le onomatopee in grassetto dei fumetti, saltando da uno scenario a un altro come in un livello di Donkey Kong. Come quando deve illustrare il poster del Barone su Andrei Kirilenko nei playoff 2007 e lo fa con queste parole: “Baron Davis, attaccando il ferro con la stessa ferocia con la quale i vichinghi assaltavano le spiaggie, saltando conficca un’ascia nel pieno petto di Kirilenko, e poi, nel delirio collettivo che segue, si alza la maglia per mostrare a Kirilenko il suo petto nudo. Mostrare i capezzoli al tizio a cui hai appena schiacciato in testa è un comportamento da maschio alfa élite”. Con delle minuscole pennellate riesce a creare un mondo fantastico che corre un millimetro sospeso sopra quello vero senza caderci mai sopra.
Il piccolo miracolo di Shea è di aver trasformato un sentimento in una comunità, una necessità che serpeggiava da anni dietro le tastiere di mezzo mondo e che nei 33 capitoli di Basketball (And Other Things) ha trovato una consacrazione in nero su bianco. Per quanto possa sembrare quasi ridicolo dire che un libro in cui Chauncey Billups si lancia in un karaoke guardato a distanza da Rasheed Wallace o Dominique Wilkins schiaccia su Gesù (quel Gesù) sia in qualche modo il punto di arrivo di un percorso che ha inizio in uno dei posti più belli della Terra, in qualche modo è così. No, non sto parlando della Monument Valley, né delle coste di corallo di Bora Bora, ma della ormai ex sede di Grantland a Los Angeles.
Presentando BAOT insieme a Jason Conception, Zach Lowe e Rembert Browne.
Grantland vive
Sono passati ormai più di due anni dalla chiusura del sito fondato da Bill Simmons, che è una delle ragioni per le quali voi ora state leggendo quest’articolo e una delle ragioni per le quali io l’ho scritto, e la stessa cosa credo si possa dire per molti degli articoli che quotidianamente compaiono su l’Ultimo Uomo. Come ricorda ancora il messaggio d’addio impresso in homepage, quello di Grantland “è stato un bel viaggio” in compagnia non soltanto di scrittori straordinari, capaci di superare quelle barriere dentro le quali a volte i progetti editoriali si autoghettizzano, ma di persone con le quali volevi andare a prendere una birra e parlare di sport, musica e film tutta la notte.
Quando ne parlo con Shea (senza birra), per la prima volta si sbottona e mi rivela quanto entrare a far parte della famiglia di Grantland sia stato un game changer per la sua vita. “Ero ancora nella parte iniziale della mia carriera e stavo ancora cercando di capire cosa potessi fare, ma soprattutto cosa sapessi fare. Finire in un posto come Grantland, e ora The Ringer, è stata semplicemente una cosa fuori di testa: sono riviste in cui lo scrittore è messo in condizione di esprimersi al massimo, di spingersi in direzioni che non aveva mai sperimentato prima, provando ad essere la miglior versione di se stessi”.
Non faccio fatica a credergli considerando che ha passato anni a lavorare gomito a gomito con vari Premi Pulitzer e facendo le pause caffé con Jason Concepcion (fare le pause caffé con Jason Concepcion è l’unica cosa di cui sono davvero geloso, nonostante il caffè di L.A.). “È esattamente il tipo di posto in cui tutti sperano di finire a lavorare”. No shit, Shea.
Twitter Mexican Hero
Quando Grantland ha chiuso, Shea aveva appena firmato il suo primo contratto da full time writer e il suo primo libro era uscito una settimana prima. Per sua fortuna The Rap Year Book è stato un caso editoriale di dimensioni non previste (è notizia di questi giorni che diventerà una docu-serie prodotta dalla AMC) e quando Bill Simmons ha preso i soldi da HBO per il suo nuovo progetto, Shea è saltato a bordo immediatamente. “Personalmente, mi sento più coinvolto in The Ringer perché ho avuto l’opportunità di essere lì dall’inizio. Quando ho visto che le cose stavano cominciando a girare, ho incrociato le dita e ho sperato che mi chiamassero. Ed è successo. È una cosa di cui sono estremamente orgoglioso”.
Talmente orgoglioso da ricordare a tutti i suoi follower su Twitter ogni settimana da quante settimane lavora su The Ringer senza essere licenziato, ovviamente in caps lock. Perché Shea oltre ad essere uno stimato scrittore e un ottimo padre di famiglia è anche, o forse soprattutto, una Twitstar di livello assoluto. Ora so che il termine Twitstar assomiglia molto a Youtuber che a sua volta assomiglia molto a Influencer che a sua volta assomiglia ad un arma di distruzione di massa dal bottone extralarge, ma Shea è un raggio di luce nella buia galassia del web. Per capirci, è esattamente dall’altra parte dello spettro rispetto a Kevin Durant e i suoi alter ego.
I suoi tweet sono simili alla sua prosa: intimi, colloquiali, quasi infantili. Instaurano un dialogo orizzontale con i follower, lasciano la porta aperta sulla sua quotidianità: ci sono le canzoni che ascolta, le foto dei figli (Boy A, Boy B and The Baby) o del cane (Jeezy!), i racconti di vita minima con la moglie e soprattutto le costanti interazioni con la sua armata. Shea sembra stare su Twitter 24/7 anche se mi dice che è tutta una questione di organizzazione: “Quando è tempo di lavorare, lavoro. Quando non lo è, non lo faccio”. E probabilmente sta su Twitter. Anche perché il suo feed è diventato davvero un mondo a parte, una specie di Stato del Vaticano ma molto più simpatico, dove al posto delle Guardie Svizzere ci sta la FOH Army, ispirata da quello che Carmelo Anthony strilla dopo aver catturato un rimbalzo difensivo (“Fuck Outta Here”).
“È successo tutto per caso, ancora non riesco a capire bene io stesso”. Lo scorso 31 agosto, mentre stava tornando a Houston dopo il passaggio dell’uragano Harvey, ha tweettato dicendo di voler raccogliere soldi destinati alle vittime. In poche ore il suo Paypal è stato inondato da oltre 130.000 dollari, poi girati a chi di competenza. È stata solo una delle innumerevoli occasioni in cui Shea ha lanciato una raccolta fondi spontanea ed è stato prontamente seguito dalle sue Truppe del Bene. Serrano la definisce guerrilla philantropy e rappresenta la sua filosofia di vita: che sia per aiutare la comunità LGBTQ di San Antonio o cercar di capire se Ryan Reynolds o Ryan Gosling siano la stessa persona, tutto per Shea risponde allo stesso principio.
“Prova a fare più cose positive che cose negative. That’s it, ma è l’unica cosa che conta davvero. Ah e non leggete gli oroscopi, sono così ridicoli”.
Fate una cosa buona nel 2018: leggete Basketball (And Other Things).