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Il segreto dei gol di Shevchenko
19 ago 2020
Le reti dell'ucraino avevano qualcosa di speciale.
(articolo)
8 min
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Non sono un grande amante delle compilation che contengono tutti i gol di un calciatore. Una sequenza così lunga e serrata di tiri, reti gonfie ed esultanze finiscono quasi sempre per darmi la nausea. A farmi sembrare il gol qualcosa di vano e senza senso. Un riflesso automatico di certe persone, che non ha niente di speciale. Ci sono delle eccezioni. L’altra sera, per esempio, sono capitato sulla compilation che Sky ha dedicato a tutti i gol di Andriy Shevchenko con la maglia del Milan. Non ho provato nessuna nausea, piuttosto una specie di profonda ipnosi. Ho iniziato a vederlo dicendomi che avrei visto solo quelli delle prime due stagioni e invece sono rimasto con gli occhi spiritati davanti al televisore per un’ora. Per certi attaccanti il gol non ha niente di frugale e spicciolo. Sheva nel gol riusciva a concentrare qualcosa di essenziale di sé stesso, che coincideva con qualcosa di essenziale nel gioco del calcio in generale.

Non lo ricordavo così forte. Lo so che è assurdo da dire, ma abbiamo sempre un’idea abbozzata dei calciatori visti da ragazzini. Da tifoso della Roma ricordo quel gol di Sheva segnato in un gelido giorno dell’epifania del 2004. La mia squadra era in una di quelle stagioni in cui ha combattuto per lo Scudetto finché non è arrivata seconda. Quella partita era lo scontro diretto in cui le cose dovevano cambiare, ma Sheva - con la maglia un po’ oversize e le maniche lunghe - l’ha piegato con semplicità dalla parte della squadra più forte. Potrei sbagliarmi, ma ricordo che la Roma - che del resto aveva bisogno di vincere - aveva chiuso in difesa una squadra piena di leggende. Al Milan, che quella sera battezzò lo schema ad albero di natale, però bastava lanciare Shevchenko, il suo soldato perfetto, solo contro la nostra difesa per spaventarci. Questo era Sheva al suo prime: il più forte in una squadra che conteneva anche Rui Costa, Seedorf, Maldini, Nesta, Pirlo, Cafu, Costacurta, Dida.

A fine primo tempo Seedorf fa uno di quei lanci tagliati che viaggiano sospesi per aria come frisbee verso il petto di Sheva. Lui la stoppa, ha Chivu che gli sta venendo addosso scoordinato; tutti gli attaccanti in quella situazione avrebbero protetto palla dall’arrivo del difensore precipitoso, e avrebbero tirato col destro a incrociare - o magari si sarebbero accontentati con malizia di un calcio di rigore. Lui, invece, ha calciato con un paradossale esterno sinistro; quasi non era neanche un calcio, piuttosto una lieve sbucciatura al pallone, con cui ha preso in controtempo tutti, primo fra tutti Pellizzoli, che si è piegato con la teatralità dei portieri che sembrano non poterci fare proprio niente. «Morrrrrbido…. come un guanto di visone!» ha contrappuntato la voce stridula di Pellegatti.

Per la cronaca: la Roma pareggerà con Cassano - la sua esultanza quella di un gol alla fine della storia -, poi Sheva, con la massima tranquillità, incrocerà il tiro del 2-1.

All’epoca avevo ancora visto troppo poco calcio per accorgermi dell’eccezionalità di un gol del genere, e Shevchenko mi sembrava solo la puntuale manifestazione della giustizia divina nel calcio - che valeva solo per chi tifava Milan o Juve. Non capivo perché ne erano tutti così innamorati, e negli anni ho trovato esagerati quei tifosi rossoneri che dicevano di tenerlo nello stesso spazio del cuore con Marco van Basten, fra quei giocatori su cui ci piace proiettare l’essenza stessa del club per cui tifiamo. Dentro cui vogliamo specchiarci in un’immagine ideale di grazia, misura ed eleganza.

Solo guardando i suoi più di 100 gol in sequenza ho capito in che senso Shevchenko può stare nella stessa classe di attaccanti di Marco van Basten. Non aveva la sua eleganza da stambecco, né la sua genialità. Certi gol di van Basten avevano qualcosa di metafisico. Se l’olandese era un artista, un genio, Sheva era un artigiano. Ma uno di quegli artigiani - come i soffiatori di vetro di Murano - la cui opera si avvicina all’arte, se non fosse per la facilità con cui riescono a riprodurla.

Guardando quei 100 gol ho capito che ciò che rendeva speciale Sheva era la sua preparazione al tiro, una delle qualità che più spesso dimentichiamo, tra quelle fondamentali di un centravanti.

Visto che vi ho già raccontato del gol alla Roma parliamo subito del suo controllo di petto. Perché io non credo sia mai esistito un giocatore più bravo di Sheva a controllare la palla col petto. Prendiamo un gol segnato contro l’Ajax nel 2003. Riceve un cross di Cafu che scavalca il difensore; ma è un cross lungo perché si stava muovendo sul primo palo. Riesce però a coordinarsi con dei passi laterali, leggermente all’indietro, per prenderla col petto. Se avesse provato a portarsela avanti, sul destro, avrebbe dovuto cambiare traiettoria di corsa e avrebbe perso il passo, per questo la accompagna verso l’esterno: così si chiude un po’ l’angolo di tiro, se la sposta sul piede debole, ma rimane sempre perfettamente coordinato. E col sinistro Sheva, ovviamente, sapeva calciare solo poco peggio che col destro.

Nel suo primo gol con la maglia del Chelsea, durante il Community Shield, addomestica un lancio lungo col petto e quando la palla cade per terra smette di rimbalzare, rimane ferma sul prato come dopo uno stop morbido col collo del piede. In una rete al Watford usa il petto per saltare il portiere e concludere a porta vuota. Sheva usava il petto con una sensibilità innaturale per una parte del corpo così poco prensile.

Alto 1,80, fisico asciutto e compatto, portava palla con una tecnica sobria e pulitissima, senza un briciolo di sensualità. Dava l’idea di una macchina, ed era stato preparato come tale. Cresciuto nella Dinamo Kiev del Colonnello Lobanovski, il suo corpo era stato modellato sulle “salite della morte”: ripetute in salita con una pendenza al 16%. Il padre del resto gli aveva permesso di giocare a calcio solo per prepararlo alla guerra: «Gli dissi che il calcio l’avrebbe irrobustito e aiutato per la carriera militare». Dopo i gol si nascondeva la testa nella maglia e sfoggiava un torso duro e austero, senza né massa grassa né muscoli definiti.

Questo per dire che Shevchenko era innanzitutto un atleta eccezionale, ma non era la cosa che più mi colpiva. L’approccio iper-razionalista della scuola sovietica non è visibile solo nel culto per il corpo; il modo in cui preparava la conclusione era freddo e scientifico. Sapeva segnare in tutti i modi, su punizione, di testa, da lontano e con tagli repentini sul primo palo. Ma era un attaccante autosufficiente, a cui potevi dare il pallone a 25 metri dalla porta e star sicuro che avrebbe trovato una strada per infilarsi in area e concludere. In queste situazioni il più delle volte preferiva l’intelligenza alla potenza. In alcuni gol conciliava le due cose, come in quello al Bari, dove parte dalla propria metà campo.

Fa impressione il modo in cui tira giù Garzya in campo aperto, che non riesce neanche a fargli fallo; ma la cosa che preferisco del gol è quella finta di corpo con cui sbilancia l’ultimo difensore tra sé e la porta, che gli permette di avere uno specchio più ampio in cui segnare, anche con un tiro fiacco col piede debole.

È affascinante osservare la lucidità delle scelte di Sheva quando c’è da concludere in porta. In un gol che segna all’Udinese è costretto a un controllo in mezzo al traffico che lo mette in una posizione difficile per segnare. Tira all’improvviso con l’esterno del piede un rasoterra che nessuno si sarebbe aspettato. È bello notare il momento in cui alza la testa, con gli stessi occhi massimamente concentrati che riconosciamo nel rigore a Buffon, per controllare la posizione del portiere.

Oppure un altro gol alla Roma, in cui prende il tempo a Panucci con un controllo di petto e poi supera Pellizzoli con un pallonetto di sinistro poco elegante: solo la soluzione più efficace per superare il portiere.

C’è intuizione in questo tipo di giocate, ma c’è soprattutto una forma di intelligenza pratica che era alla base del modo in cui manipolava il suo corpo e la sua tecnica. Un aspetto visibile anche in uno dei suoi gol più belli, in Champions contro l’Inter. La sterzata su Cordoba col sinistro e poi, in uno spazio inesistente, il tiro scavando la palla per superare Toldo in caduta.

Shevchenko era un maestro di questi cambi di direzione in area di rigore. In un gol al Lecce ne fa addirittura tre, con un tunnel in mezzo. Sapeva scegliere il momento in cui calciare, e gli altri parevano avere più fretta di lui, che si prendeva tutto il tempo per fare le cose per bene. Anche nelle giocate più sbilanciate, il suo corpo manteneva sempre una compostezza bio-meccanica impeccabile.

In un gol alla Dinamo Zagabria la preparazione al tiro è ancora una volta risolutissima. Si accorge subito del rinvio sbagliato dal difensore e gli si para davanti, ma nel proteggere palla si sta già ricavando lo spazio per la girata volante di destro. Una giocata simile a un’altra in cui manipola Alessandro Nesta in area di rigore per fare spazio al suo tiro.

Per Shevchenko la bellezza era soprattutto una forma d’ordine. Rispetto ad altri attaccanti eleganti della sua epoca - Henry, Trezeguet, Crespo - l’ucraino era più sobrio. In loro c’era sempre una specie di ostentazione, qualcosa di dimostrativo, inesistente nel gioco di Shevchenko. Non fatichiamo a capire perché sia l’idolo di Edin Dzeko, un altro attaccante dalla tecnica estremamente sobria e composta, che arriva fino al paradosso di non riuscire a segnare gol “sporchi”.

Anche nel calcio di oggi le qualità di Shevchenko continuerebbero a spiccare. Il calcio è andato nella sua direzione, quella di un atleta formidabile, di un attaccante universale capace di aiutare in tutte le fasi del gioco. E negli spazi sempre più congestionati, la sua freddezza e la sua tecnica continuerebbero a comporre grandi capolavori di razionalismo.

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