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Il rapporto tra un atleta e il suo corpo è sacro e dannato: la parte di un’anima, quella incollata al pavimento – che per tutta la vita ci ricordano di non idolatrare perché destinata a decadere più velocemente della personalità o dell’intelligenza – è anche quella che porta “soldi, ragazze, casinò”. In cambio, al diavolo bisogna donare la gioventù, senza certezze di risultati splendenti.
Inevitabilmente, la fine arriva: gli arti non replicano più gli schemi provati, né inventano con l’istinto soluzioni che il cervello non ha tempo di immaginare. Il corpo diventa così quello che è per tutti gli altri, un contenitore imperfetto di cui prendersi cura nella seconda fase della vita.
È arrivato il momento anche per il corpo di Simona Halep: martedì, dopo la sconfitta da Lucia Bronzetti, ha annunciato l’addio al tennis al torneo di Cluj-Napoca, davanti al pubblico adorante di casa sua.
Era da un po’ che la rumena, ex numero uno del mondo, faceva allusioni a un prossimo ritiro nelle interviste. Nel tennis però di solito gli addii sono lunghi: si dà una scadenza lontana per dare tempo a tutti di prepararsi al momento e costruire il pathos nell’attesa (e magari anche di fare un giro di chiamate per avere qualche videomessaggio di auguri da Roger Federer e Billie Jean King e tutti gli altri eccellenti pensionati e non).
Per questo, la notizia è arrivata a sorpresa per molti. Forse per tutti tranne i presenti, che hanno custodito il segreto fino alla fine del match. SuperTennis, che aveva la copertura della partita in Italia, ha tagliato il collegamento perché l’intervista era in rumeno. Probabilmente non immaginavano la gravità delle parole che stavano per essere pronunciate, anche se in una lingua sconosciuta al commentatore: «Questa sera… Non so se è con tristezza o gioia, penso entrambi i sentimenti mi stanno mettendo alla prova, però sto prendendo questa decisione con la mia anima in pace e sono sempre stata realista con me stessa e con il mio corpo. È molto difficile arrivare dove ero, so cosa significa farlo. È per questo che volevo arrivare qui oggi a Cluj per giocare davanti a voi e dire addio sul campo da tennis. Anche se la mia performance non è stata molto buona, è stata comunque la mia anima».
In effetti, quella vista contro Bronzetti non è nemmeno un ricordo della giocatrice che fu. Il campo sembra enorme quando rincorre la pallina e poi subito dopo minuscolo, corto e stretto, quando la rimanda dall’altra parte. Però quando la rumena vince un punto c’è elettricità, quando vince un game – due volte in tutta la partita – lo stadio esplode, pugni all’aria. Ogni tanto riesce ad arrivare al momento giusto, ad appoggiarsi alla palla di Bronzetti, a tirare un vincente lungolinea dalla difesa. Eccola l’anima di Halep.
La ex numero uno al mondo era tornata nel circuito a marzo 2024 dopo una lunga battaglia legale per un complicatissimo caso di doping. A fine agosto 2022 era stata trovata positiva al Roxadustat, un farmaco per l’anemia che stimola la produzione di emoglobina e globuli rossi. Parallelamente, era stata trovata un’anomalia anche nel suo passaporto biologico – cioè c’erano dei valori diversi negli ultimi campioni di sangue mandati. L’ITIA, l’associazione internazionale perla salvaguardia dell’integrità nel tennis, di comune accordo con la sportiva, aveva deciso di unire i due procedimenti e per questo non erano riusciti a fissare un’udienza prima di giugno 2023, a quasi nove mesi dall’inizio della sospensione preventiva.
La tesi difensiva di Halep era che la fonte della sostanza proibita, e insieme delle anomalie nel sangue, fosse in un integratore contaminato. La prima sentenza fu di condanna a quattro anni di squalifica per doping, la pena capitale per la carriera della tennista allora trentunenne. Immediatamente era partito il ricorso al TAS (tribunale arbitrale dello sport) e a marzo 2024, a diciassette mesi dall’inizio della sospensione, era arrivata la nuova sentenza: condanna ridotta a nove mesi di squalifica (già scontati). Era stata riconosciuta la contaminazione e le si imputava “utilizzo incauto” dell’integratore contaminato, datole dalla sua fisioterapista, ritenuta dal tribunale non competente a consigliare l’assunzione di supplementi.
Negligente, quindi, non dopata. La sentenza aveva acceso la speranza di un ritorno di Halep al tennis d'elite. Ma gli anni di uno sportivo valgono come quelli dei cani nelle credenze popolari e i diciassette mesi di battaglie legali le avevano risucchiato tutta la vita e lo spirito, velocizzando anche il processo di invecchiamento.
Aveva fatto della lotta la sua cifra e aveva bisogno – più di altre almeno – di avere il pieno controllo dei muscoli. Ogni partita, anche se il risultato poteva sembrare netto in termini di punteggio, era una piccola guerra che combatteva senza mai peccare di tracotanza. Per i più prosaici, una pallettara – termine che spero usino ancora come insulto solo i cinquantenni al circolo e Adriano Panatta. Il pallettarismo di Halep poi non era solo un approccio al gioco, la definiva come persona. Nella grande commedia dell’arte che era il circuito WTA Duemiladieci, la sua maschera era quella dell’eterna sottovalutata. In un’intervista del 2017 a Sports Illustrated il giornalista chiese ad Halep se si rivedesse nella definizione di “spiritual underdog”. Un appellativo strano per una che era all’epoca numero uno del mondo (anche se non aveva ancora vinto un titolo Slam). Lei dal canto suo aveva risposto che sì, forse potevano vederla così: non serviva bene come le altre e non vinceva punti facili perché non è molto alta, «ma sento anche che ho un buon gioco per essere il più possibile veloce e aggressiva. E poi la mia difesa è molto buona. Posso correre molto».
Il corpo di Simona Halep per anni è stato una macchina che lei ha saputo perfezionare, massimizzando gli strumenti ereditati. Ne ha accettato i limiti – a partire dalla già citata statura, solo centosessantotto centimetri – e lo ha modificato. Nel 2009, ad appena diciotto anni, si sottopose a una mastoplastica riduttiva, un intervento che definì poi il più grande sacrificio fatto solo per il tennis. Un sacrificio, sì, non un rimpianto. Nella stessa intervista del 2017 concludeva che «forse averlo fatto è stato molto importante per essere numero uno oggi», quindi va bene così.
Per sette stagioni consecutive, dal 2014 al 2020, era rimasta nelle prime quattro posizioni del ranking. Sessantaquattro settimane, tra 2017 e 2018, da numero uno. Ventiquattro titoli vinti. Cinque finali Slam, due vinte. Roland Garros 2018, contro Sloane Stephens (3-6, 6-4, 6-1): il coronamento della carriera sulla sua superficie migliore. Wimbledon 2019, contro Serena Williams (6-2, 6-2): la partita più importante della carriera e anche la più perfetta – commise tre errori non forzati in tutto, un record in una finale Slam. Ma nella narrativa da migliore sfavorita, sono forse ancora più importanti le tre sconfitte consecutive nelle prime finali Slam: tutte in lotta, finite al set decisivo. La più dolorosa è anche l’ultima, al Roland Garros nel 2017 contro la ventenne emergente Jeļena Ostapenko. La rumena si era fatta rimontare nello sgomento generale da set e break di vantaggio, nel secondo e poi di nuovo nel terzo set. La lettone quel pomeriggio parigino mise a segno cinquantaquattro vincenti. «Mi sono sentita come una spettatrice», aveva detto Halep dopo la finale. «Penso ci sia stata un po’ di fortuna in qualche punto, tutte le linee, tutti i nastri… non lo so. Penso che oggi tutto fosse dalla sua». Se si tiene a mente questo momento, l’appellativo di “spiritual underdog” diventa crudele, sembra un’allusione alla sua incapacità cronica di vincere una finale così importante che deriva direttamente dal suo tennis.
Nessun gesto nel gioco di Halep era senza fatica, tutto era pregno del suo lavoro, della sua corsa instancabile da sinistra a destra. L’approccio difensivo è intrinsecamente anche umile e la rumena lo era moltissimo. Una delle immagini che mi resteranno per sempre impresse di Halep non la vede nel campo da tennis. C’è lei, dopo la vittoria perfetta contro Williams, abbracciata all’enorme piatto da portata che è la versione femminile del trofeo di Wimbledon che sale in questa stanza dove tutti sono nobili, puliti e vestiti bene. Kate Middleton le viene incontro come una principessa stereotipata e Halep, come una cafona stereotipata, le dà la mano e poi si inchina in modo goffo, incerta su cosa prevedesse l’etichetta. In che casta sta la vincitrice di Wimbledon nella piramide sociale britannica? Quando l’avevo visto in diretta, la suggestione data dall’immedesimazione me l’aveva fatta sembrare molto piccola. Pochi istanti dopo esce sul balcone e mostra il femmineo piatto alla folla adorante che grida il suo nome e io ancora ero un pochino dentro di lei, piena di orgoglio per tutte le cafone del mondo.
Il 12 settembre 2023, più di quattro anni dopo quel momento euforico, Serena Williams twittò “8 is a better number” (in riferimento al numero di titoli vinti a Wimbledon dall’americana, sette). Halep era appena stata condannata dal tribunale dell’ITIA a quattro anni di squalifica per doping. In un secondo tutto quello che era stato conquistato con lavoro e sacrificio non era più suo, a partire dal piatto d’argento che aveva sollevato sul balcone: ora la sconfitta sentiva che era suo di diritto. Il ventiquattresimo Slam che la più grande di sempre aveva cercato per anni dopo la maternità senza riuscirci, le era appena stato consegnato nello spirito (almeno secondo lei). Mentre la rumena, insieme a tutti i suoi trofei, erano stati risucchiati da un vortice di sospetto. La sua eredità, spazzata via in un istante.
Al rientro nel circuito, undici mesi fa, Simona Halep non c’era più. Nei diciassette mesi passati a preparare la difesa e poi il ricorso al TAS il suo corpo aveva ceduto e il suo spirito anche. È tornata acciaccata e amareggiata, ossessionata dalle cospirazioni in atto contro di lei. Il ritorno non è assomigliato per niente a quello di Maria Sharapova, circondata dai riflettori di tutto il mondo. La russa, in una delle prime partite dopo la sospensione nel 2017, aveva sconfitto proprio Halep (all’epoca testa di serie numero due) al primo turno agli Us Open. Lo aveva fatto in quasi tre ore, di sera sull’Arthur Ashe, ricoperta di brillantini nel suo completino Nike fatto su misura. Chissà se Halep aveva immaginato qualcosa del genere per se stessa, nei mesi di stop. Magari non un altro torneo, di sicuro non un altro piatto, ma almeno una vittoria importante, un ultimo momento di euforia.
Appena due settimane dopo la sentenza di riduzione della sospensione – e quindi dell’immediato rientro – la rumena aveva chiesto e ottenuto una wild card per il WTA 1000 di Miami. L’occasione di rivalsa andava colta subito, sulla spinta dell’entusiasmo per il reintegro insperato. Miami non è uno Slam, ma ci si poteva accontentare lo stesso, anche perché dall’altra parte della rete c’era Paula Badosa, un ottimo scalpo da provare a prendere per lanciare un messaggio. E Halep ci ha provato: ha stravinto il primo set per 6-1. Poi, come tante sconfitte dolorose del suo passato, la partita era finita al terzo set (1-6, 6-4, 6-3). Il livello della rumena era calato sempre di più con il passare dei game, ma i presagi erano buoni. Dopo la partita, aveva detto di aver «sentito di nuovo l’amore per il tennis» e che era pronta a tornare a casa per pianificare il suo futuro.
Invece, gli ultimi undici mesi di Halep nel tennis giocato sono volati via. Il ginocchio le ha permesso di scendere in campo per altre quattro partite nella stagione 2024. L’ultima, prima di quella dell’addio, risale a ottobre. Dopo Miami, non ha più calcato un campo importante.
In retrospettiva c’è stato il lungo addio, come si conviene ai tennisti forti, solo non lo sapevamo. Se si riguarda la partita con Badosa con la conoscenza del presente, non si può interpretare come una promessa non mantenuta o un’allucinazione collettiva: è un piccolo lascito di Halep al mondo. Alla vigilia del match era scesa dall’aereo senza preparazione specifica – non sapeva se e quando sarebbe tornata, quindi andava in palestra per tenersi in forma, ma non giocava a tennis –, del tutto disabituata a competere, con problemi fisici latenti che le avrebbero impedito di tornare in campo per altri due mesi. È riuscita a regalarsi un ultimo set, per fare pace con la cosa che è stata la sua vita da quando ha coscienza ad oggi.
La partita di Cluj-Napoca invece era un regalo per chi l’ha amata, per i presenti e per la Romania. Una piccola cerimonia privata, gli unici imbucati erano Lucia Bronzetti e il suo team. Halep, come ha detto – solo in rumeno e quindi solo per chi l’ha sempre capita – ha mostrato la sua anima, il suo tennis è la sua anima.