Il 23 luglio del 1996 Kerri Strug aveva diciotto anni e una vita di sacrifici, dolore e rimpianti alle spalle. Quattro anni prima, non si era qualificata per partecipare al concorso individuale delle Olimpiadi di Barcellona, poi si è strappata un muscolo dello stomaco ed è caduta sulla schiena durante un esercizio alle parallele asimmetriche. «La carriera di una ginnasta è piuttosto corta, la maggior parte raggiunge il proprio picco tra i quindici e i sedici anni», aveva detto quando di anni ne aveva quattordici. E parlando delle rinunce che accompagnava la sua passione: «Ho il resto della mia vita per le altre cose. Questo conta troppo per me». Nonostante le difficoltà era entrata nella squadra olimpica di Atlanta e si era qualificata per competere nell’individuale. Prima, però, doveva compiere l’ultimo volteggio nella gare a squadre. Le ginnaste americane, che verrano ricordate come le Magnifiche Sette, erano incredibilmente avanti nel punteggio complessivo alle russe (che dominavano dagli anni ‘50, con l’eccezione dei Giochi di Los Angeles che l’Unione Sovietica aveva boicottato). Dominique Monceau, quattordici anni, aveva avuto l’occasione di vincere matematicamente l’oro olimpico – il primo a squadre nella storia americana – al volteggio, ma era caduta entrambe le volte, così toccava a Strug.
Il resto, come si dice, è storia. Almeno per gli Stati Uniti i due volteggi di Strug sono tra i momenti più iconici della storia dei Giochi Olimpici. Come Monceau, anche Strug atterra male la prima volta, il suo corpo ruota troppo lentamente rispetto alla velocità di caduta e i suoi talloni arrivano sul materassino con un angolo acuto. Sembra che qualcuno le abbia alzato il pavimento mentre era in aria e, dirà in seguito Strug, atterrando ha sentito uno “snap” nella caviglia. Zoppicando arriva verso il suo allenatore, Bela Karoly, che insieme alla moglie Martha aveva allenato Nadia Comaneci (la prima ginnasta ad ottenere un 10 nella storia dei Giochi Olimpici) e, dopo essere fuggito dalla Romania, Mary Lou Retton, la prima americana a vincere il concorso individuale ai Giochi Olimpici di Los Angeles. Strug si era slogata la caviglia, rompendo il legamento mediale e laterale, ma in quel momento non era la cosa più importante. «Ne abbiamo bisogno?», chiede a Karolyi, intendendo se fosse necessario saltare di nuovo, in quelle condizioni. Aveva trenta secondi per decidere. A posteriori no, non ce ne sarebbe stato bisogno (la squadra russa stava completando gli esercizi a corpo libero proprio in quei momenti e la loro ultima ginnasta avrebbe steccato l’esercizio subito dopo il secondo salto di Strug) ma non potevano saperlo.
«Puoi farcela», dice Karolyi, e subito dopo: «Devi farcela». Spinta anche dai trentacinquemila tifosi americani del Georgia Dom, Kerri Strug seppellisce il dolore sotto strati di concentrazione e adrenalina, visualizza l’obiettivo, come si dice, e tiene gli occhi solo su quello fino alla fine del secondo salto, eseguito correttamente, e solo dopo essere atterrata su entrambi i piedi si ricorda di avere una caviglia rotta, e la alza.
Così, una ragazza alta un metro e quaranta con la voce di una bambina di sei anni (che avrebbe conservato anche a trenta e quarant’anni) è diventata simbolo di caparbietà e resistenza, di una capacità di spingersi oltre i propri limiti fisici quasi sovraumana. È quello che cerchiamo in tutti gli sport, in fondo, condensato in un singolo momento drammatico. Sembra una di quelle storie in cui una normale madre di famiglia, vittima di un’incidente d’auto, solleva un’automobile per tirare fuori il proprio figlio prima che esploda. È un momento che ha fatto diventare Kerri Strug popolare al punto da finire sulle scatole di creali, ospite nei talk show serali e in copertina di Sports Illustrated. È apparsa in una puntata di Beverly Hills 90210 ed è stata invitata al cinquantesimo compleanno di Bill Clinton, dove la figlia adolescente del presidente degli Stati Uniti, Chelsea, le ha consigliato di restare «umile» e nel dubbio di salutare sorridendo.
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Al tempo stesso le immagini di Bela Karolyi per nulla interessato alla natura dell’infortunio (come Strug, che non si è resa conto neanche dopo il secondo salto della gravità e pensava di poter ancor competere due giorni dopo: e invece quella è stata la sua ultima competizione in assoluto) e che poi porta Strug in braccio sul podio, con la gamba più o meno ingessata, come fosse una bambola di pezza, o le immagini delle sue lacrime mentre le persone intorno a lei erano in festa, hanno sollevato critiche fin dall’inizio.
Strug aveva veramente scelta?, si è chiesto qualcuno. Da una parte aveva diciotto anni e, come ha detto lei stessa dopo, avrebbe saltato anche senza l’esortazione di Karolyi. Dall’altra come non tenere conto del fatto che si trattava di una ragazza che non aveva avuto un’infanzia e un’adolescenza “normali”, o comuni, cresciuta in un contesto ipercompetitivo in cui gli allenatori esercitano un controllo totale sui corpi e le menti delle ginnaste fino ad abusarne?
Quasi esattamente venticinque anni dopo, il 27 luglio 2021, Simone Biles, da molti considerata la più grande ginnasta di sempre, cinque volte campionessa del mondo (con diciannove medaglie d’oro ai Campionati del Mondo), vincitrice di quattro medaglie d’oro ai Giochi di Rio del 2016 e, inutile dirlo, grande favorita del concorso individuale di Tokyo 2021, si è ritirata durante la competizione a squadre.
Dopo aver sbagliato un primo volteggio, in cui avrebbe dovuto eseguire due torsioni e mezzo e invece è atterrata facendone solo una e mezzo, quasi seduta sul materasso, ha preferito non compromettere la possibilità della sua squadra di vincere una medaglia. Alla fine la squadra americana – che non perdeva una competizione internazionale dal 2010 – è arrivata seconda, proprio dietro a quella russa, e poco dopo si è saputo che Simone Biles non avrebbe partecipato al concorso individuale di giovedì.
«Mentre ero in aria non mi rendevo conto di dove ero, avrei potuto farmi male», ha detto. Nei giorni passati aveva già detto di sentire il peso dei suoi successi – «Simone Biles aveva fretta che arrivassero i Giochi Olimpici», ha scritto il New York Times, «non che cominciassero, ma che finissero», e a dir la verità già quando i Giochi erano stati rimandati aveva mostrato poca voglia di allenarsi per un altro anno intero – e dopo il ritiro di martedì, in una conferenza in cui non aveva per niente l’aria fragile, o debole, che alcuni giornali hanno provato a proiettarle addosso, ha aggiunto di soffrire per il contesto in cui si svolgono questi Giochi (dopo un anno complicato, con gli stadi vuoti), e di voler proteggere il proprio corpo e la propria mente, non solo «fare quello che gli altri vogliono che faccia».
A questo punto devo dire che non sono il solo ad aver pensato a Kerrie Strug. Il contrasto tra i due momenti è fortissimo e se per alcuni media la sua performance di Atlanta è stata tirata in ballo come un atto di perseveranza da contrapporre a Simone Biles, per altri invece si tratta di un buon esempio per far capire quanto il gesto di Biles sia di rottura all’interno di un sistema in cui le ginnaste sono educate a soffrire in silenzio e il fine giustifica ogni mezzo.
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È una questione complicata, anzitutto perché Simone Biles ha ventiquattro anni e aveva già parlato di un possibile ritiro dalle competizioni dopo i Giochi di Tokyo. Non solo Simone Biles può permettersi di scegliere a quale gara partecipare – per il momento ha detto che vedrà giorno per giorno, il prossimo evento in caso sarà domenica – ma ha già ampiamente dimostrato la propria forza fisica e mentale, oltre che le proprie motivazioni. Parliamo di una ginnasta che ha vinto tutti i concorsi individuali (la competizione in cui il punteggio finale è dato dalla somma dei punteggio a tutti e quattro gli eventi singoli: corpo libero, volteggio, parallele asimmetriche e trave) a cui ha partecipato dal2013, da quando aveva sedici anni, cioè.
Che ha quattro salti che portano il suo nome e un potenziale quinto, se lo eseguisse a Tokyo. Un salto così difficile e pericoloso – un salto triplo all’indietro con le gambe tese – che solo lei può eseguire e a cui i giudici della Federazione Internazionale di Ginnastica danno un voto basso in proporzione alla difficoltà per non spingere altre atlete a provarlo mettendo a rischio la loro sicurezza. L’ultima volta che lo ha eseguito è lo scorso maggio e prima che iniziassero questi Giochi la domanda non era se avrebbe vinto l’individuale, ma se in quale gara avrebbe provato lo “Yurchenko double pick”.
Sullo sfondo c’è la questione del nuovo regolamento (dal 2006 oltre all’esecuzione, il sistema classico che arrivava a 10, si valuta anche la difficoltà dei singoli elementi che compongono l’esercizio) e il fatto che oltre ad essere più oggettivo possa avvantaggiare le ginnaste più atletiche, cosa che non piace a tutte le federazioni nazionali. Per Biles, quello di dare un punteggio meno alto di quanto meriterebbero ai suoi elementi, è un tentativo nascosto di non allontanarla troppo dalle ginnaste che le sono dietro: «Ma è un problema loro, non mio». In realtà, fino a questi Giochi Olimpici, il suo vantaggio è sempre stato così consistente che non avrebbe bisogno di eseguire nuovi elementi. Quando le hanno chiesto perché farlo, allora, lei ha risposto: «Because I can». Perché posso, non perché devo.
Ma non va dimenticato che Simone Biles è passata attraverso i sacrifici e la durezza di tutte le ginnaste d’élite, mettendosi alle spalle un contesto familiare problematico, ignorando le offese e il razzismo che quasi automaticamente attira una delle poche ragazze con la pelle nera in uno sport a maggioranza bianco o asiatico. Come se non bastasse, durante la fine dell'infanzia e durante tutta la sua adolescenza è stata anche una delle centinaia di ragazze che hanno denunciato Larry Nassar, ex medico della Federazione americana (che ha provato a coprire quando lo scandalo è venuto in superficie), per abusi sessuali che gli sono costati una serie di condanne per un totale di anni di prigione sufficiente per coprire un paio di vite intere, tra i 125 e i 275 anni per la precisione.
Diciamo che con una storia del genere e dei risultati sportivi come i suoi alle spalle bisogna essere molto selettivi per dipingere Simone Biles come un’atleta fragile o debole, o peggio come un’egoista che ha semplicemente paura del fallimento. Quante volte si sarà allenata o avrà gareggiato contro voglia, quante gare avrà vinto da infortunata (due anni e mezzo fa parlando di questo ha detto di provare «una strana sensazione quando non provo dolore» e nel 2018 ha vinto un Campionato del Mondo coi calcoli renali)? Quante volte avrà trasformato il proprio corpo in un aereoplanino di carta mentre la sua testa era pesante come la pietra? Quante volte ha già fallito prima di arrivare al suo livello di eccellenza, quante volte deve spingersi oltre i propri limiti prima di soddisfare i nostri bisogni di spettatori?
Questo, senza neanche prendere in considerazione il paradosso per cui da una parte i suoi risultati sono stati sminuiti in virtù di una superiorità fisica eccessiva (come se non fosse merito suo, del lavoro svolto, ma tutto merito di Madre Natura, secondo il classico stereotipo applicato alle persone di pelle nera), una superiorità fisica che addirittura metterebbe in pericolo le altre ginnaste che volessero emularla, mentre dall’altra si finge di non sentire quando è lei stessa a temere di farsi male perché, in effetti, senza avere un controllo perfetto del proprio corpo la ginnastica è uno sport pericoloso. Un paio d’anni fa aveva confessato di andare in crisi a volte, e che le era già capitato di dimenticare come si ruota e si gira in aria.
La questione è complicata anche perché il confine tra il fare una cosa di propria volontà e il sentire di farlo per qualcun altro, tra il «puoi farcela» e il «devi farcela» di Karolyi a Strug, è sottile. Di sicuro nessuno può dire a Simone Biles cosa deve fare e anche a giudicare dal modo in cui è stata accolta la sua decisione dai media americani difficilmente subirà conseguenze negative di corto o lungo periodo. Al tempo stesso non è neanche una questione strettamente individuale.
Quando Strug è stata dipinta come una povera vittima di Bela Karolyi si è lamentata del doppio standard con cui la stavano giudicando, perché se fosse stato un uomo non l’avrebbero dipinta come un oggetto nelle mani del suo allenatore. È vero anche, però, che oggi sappiamo che Bela e Martha Karolyi facevano vivere le “loro” ginnaste in un regime di terrore – nella Romania di Caeusescu come nel ranch in Oklahoma in cui vivevano e allenavano la squadra nazionale americana – schiaffeggiandole fino a farle sanguinare dal naso, tirandogli contro delle sedie, punendole con esercizi fisici e umiliandole se prendevano anche solo poco peso, al punto che alcune di loro ancora in età matura vedono Karolyi nei loro incubi. In un recente libro che analizza i resoconti della Securitate, i servizi segreti rumeni, su Nadia Comaneci, è raccontato che in un’occasione i Karolyi l’hanno privata di cibo per tre giorni: «Sono successe troppe cose», ha detto lei sul suo ex allenatore, «oggi non riesco nemmeno a guardarlo in faccia».
La scena di Strug ai Giochi Olimpici del 1996 viene mostrata anche nel documentario del 2020 Athlete A in cui è raccontato lo scandalo che ha portato all’arresto di Larry Nassar, che lavorava proprio nel ranch di Karolyi. Nasser ha conquistato la fiducia delle ragazze che venivano letteralmente messe nelle sue mani anche grazie alla sua apparente gentilezza, trattandole bene e regalandole dei dolci. Al centro di Athlete A c’è la figura della ginnasta Maggie Nichols, la prima a denunciare gli abusi di Nassar alle sue allenatrici e al presidente della Federazione americana, Steve Penny (che però è accusato di aver provato a coprire la vicenda e adesso rischia dai due ai dieci anni di prigione) e che forse per questo, o anche per questo, è finita fuori dalla squadra olimpica selezionata per i Giochi di Rio un anno dopo.
In un scambio di mail in cui Penny e Nassar discutono di come mascherare la sua assenza, quando ormai è troppo tardi, c’è anche Martha Koralyi, che quindi sapeva ma non ha denunciato il medico alle autorità competenti. Ma il collegamento è soprattutto culturale: quelli di Nassar si inseriscono in un contesto di abusi quotidiani normalizzati, in cui le ginnaste, fin da bambine, sono implicitamente ed esplicitamente invitate al silenzio e alla sottomissione per non sembrare, appunto, troppo fragili per competere ad alto livello.
Una delle prime ginnaste a denunciare i metodi di Karolyi è stata Dominique Moceanu, la quattordicenne (la più giovane delle Magnifiche Sette) che aveva sbagliato i due salti prima di Strug, che ha partecipato a quei Giochi Olimpici con una frattura da stress alla tibia e che podo dopo essere caduta di testa durante l’esercizio alla trave ha eseguito l’esercizio a corpo libero. Dopo aver parlato del «trattamento inumano» che subivano le ginnaste nel ranch dei Karolyi, Monceanu ha perso opportunità e amicizie, finché la federazione stessa ha riformato il proprio sistema in seguito alle numerose altre denunce seguite alla sua.
In un contesto del genere la scelta di Simon Biles di fermarsi quando sente che la pressione è diventata troppa, rinunciare a competere in quelli che con grande probabilità sono i suoi ultimi Giochi Olimpici e prendere la parola per dire che non si sente in grado di farlo, è effettivamente una piccola rivoluzione.
Sullo sfondo c’è il discorso valido per tutti gli sportivi (sono sempre di più a parlare apertamente di depressione e altri problemi mentali) che competono per se stessi ma anche per noi, per le nostre proiezioni. E quell’idea implicita per cui ogni sofferenza, i fantasmi di qualsiasi passato, le ingiustizie sociali di qualsiasi tipo, la povertà, il razzismo, persino gli abusi sessuali, in fin dei conti siano delle prove che l’individuo deve superare per essere ricompensato con il nostro rispetto e i beni materiali. «Molti atleti vincono delle medaglie, ma è la storia che c’è dietro che le persone ricordano», ha detto Strug di quel suo ultimo salto. «Mi sarebbe piaciuto eseguire un volteggio che ispirasse qualcuno… ma senza infortunarmi così gravemente».
Qualsiasi sia l’intima motivazione di Simone Biles – problemi di salute mentale di cui non sappiamo praticamente niente e su cui sarebbe sbagliato speculare; semplice prudenza di un’atleta che non ha voglia di gettare il proprio corpo in una tromba d’aria senza sapere come uscirne – la sua rinuncia a competere è paradigmatica di un cambio di sensibilità avvenuto in questi ultimi anni (non a caso lei ha detto di aver pensato a Naomi Osaka e alla sua rinuncia al Roland Garros di qualche mese fa per le troppe pressioni mediatiche), per cui non è più accettabile sacrificare se stessi in nome delle proprie performance.
Sì, è possibile essere d’ispirazione senza rimetterci una gamba, sembra dirci Simone Biles. E se non è possibile, tanto peggio. Ci sarà qualcun altro ad ispirarvi al posto mio.
In fin dei conti quella di Simone Biles, prima ancora che coraggiosa, è stata una decisione normale, sana. E se siamo scioccati è solo perché non siamo abituati a questa normalità. Dopo il suo volteggio errato nella gara a squadre, prima che si ritirasse, i commentatori di Eurosport hanno detto: «Sembra che Simone Biles sia tornata coi piedi per terra». Piuttosto, direi, siamo noi ad essere tornati in contatto con la realtà delle cose, grazie a Simone Biles.