Simone Biles era serena prima di cominciare il suo esercizio al corpo libero. Faceva bene ad esserlo, alla sua squadra – gli Stati Uniti, se non fosse chiaro dal body scintillante a stelle e strisce – bastava un punteggio di 9,50 per vincere l’oro olimpico. Per chi non si intende di punteggi nella ginnastica artistica, sono molto pochi. Tutte le altre ginnaste avevano già terminato il programma della finale, restava solo lei. Ce la siamo potuta godere, tutti quanti. Anche noi che fino a pochi secondi prima stavamo ancora soffrendo prima di vedere praticamente ufficializzata la storica medaglia d’argento della squadra italiana. Les jeux sont fait, e il mondo si è fermato per guardare.
Nella storia del genere umano sono sempre esistite delle persone straordinarie, talmente diverse dalle altre che si sente il bisogno di registrare la loro esistenza, perché tutti e tutte sappiano che cosa abbiamo visto. Oggi che viviamo in un’era ultradocumentata e vittima dell’hype può sembrare difficile discernere chi siano queste persone, navigare tra i titoli roboanti dei giornali e le biografie nelle librerie. Pesare l’eccezionalità.
Non è vero, in realtà è facilissimo. In questo preciso istante, mentre scrivo le due parole Simone Biles, c’è elettricità nell’aria e nelle mie dita. Se una persona ha una nozione anche solo vaga di cosa sia la ginnastica artistica, i Giochi Olimpici, lo sport come gesto che si spinge oltre il gioco, ha sentito il nome di Biles. È la ginnasta più medagliata della storia: il suo palmares (ancora parziale) è di trenta medaglie mondiali, di cui ventitré del metallo più prezioso, e otto olimpiche, cinque d’oro. L’ultima, quella della finale a squadre, vinta ieri, è stata suggellata dal suo esercizio a corpo libero.
Non sono le vittorie di Biles a dare una misura alla sua grandezza, sono solo un sintomo, come la febbre. Per capire, basta guardare. Biles gareggia da sola, contro sé stessa: sembra una frase vuota, che ripetiamo spesso per i campioni sportivi, ma probabilmente non è vero per nessuno come lo è per lei. Non esiste ginnasta che sappia fare quello che fa lei: il suo sembra un altro sport. Lo ha dimostrato per l’ennesima volta ieri, proprio nell’ultimo elemento della finale: a ogni diagonale sembrava andare sempre più in alto, ruotare in aria sempre più veloce. Per due volte è finita fuori dalla pedana, un’infrazione che comporta una deduzione di 0,1 dal punteggio finale. Ha accolto gli errori con un sorriso: non importa, potrebbe uscire dalla pedana ancora dieci volte, tutte le penalità dell’universo non basterebbero.
Dopo l’esercizio al corpo libero, mentre aspettava il punteggio era circondata dai fotografi e dalle telecamere di tutto il mondo. In quei secondi era lei il centro della Terra. Il tabellone ha segnato 14,666: eccola qui la prima medaglia dell’ultima Olimpiade di Simone Biles.
Sul podio le ginnaste statunitensi si sono sistemate le medaglie a vicenda, con la premura delle sorelle. Simone Biles, Sunisa Lee, Jordan Chiles, Jade Carey e Hezly Rivera: quattro su cinque erano insieme alle Olimpiadi di Tokyo, tre anni fa. L’unica che non c’era, Rivera, è anche la sola a non essere stata schierata in nessun elemento della finale. Il metallo profuma di redenzione.
Facciamo un salto indietro. Nel 2021 la squadra di ginnastica statunitense arrivava in Giappone destinata a vincere la terza medaglia d’oro consecutiva. L’allora ventiquattrenne Simone Biles era all’apice della sua carriera e sentiva che era il momento giusto per vincere tutto un’ultima volta e poi smettere, almeno con le Olimpiadi. Ventisette anni sono tanti, se si è una ginnasta: il corpo umano non è progettato per resistere troppo a lungo a quel livello di stress, fisico e psicologico. «Avete presente quella statua di quell’uomo che tiene quella roba sulle spalle? Era così che mi facevano sentire le aspettative», ha raccontato Biles in Rising, il documentario Netflix che racconta il suo percorso verso Parigi 2024. Immagino si riferisse a una delle varie statue di Atlante, il titano costretto da Zeus a sostenere il peso del mondo sulle spalle per punizione.
2021, finale olimpica a squadre, di nuovo. Biles si preparava al volteggio, la sua specialità insieme al corpo libero. Aveva corso, corso, corso, rondata sulla pedana, spinta con le braccia sul cavallo e avvitamento. Era atterrata con il solito passo all’indietro, quello che precede il sorriso. Questa volta c’era l’angoscia. Per i profani forse non era stato così chiaro, ma dal volteggio promesso mancava del tutto un giro.
Secondo il mito greco, Atlante riuscì brevemente a liberarsi della sua maledizione: lasciò il peso del mondo sulle spalle di Eracle, ingannandolo. Simone Biles ufficializzò poco dopo il suo ritiro dalla finale olimpica a squadre e da tutte le altre finali individuali in cui si era qualificata. Aveva detto di avere i twisties, un problema non fisico, ma psicologico – che comporta in ogni caso rischi concretissimi. Si perdeva in aria, durante le evoluzioni e gli avvitamenti le mancavano il senso dello spazio e il controllo del corpo. Che significa per chi non ha mai fatto ginnastica? Per un Paese intero che pretende l’oro? Come si spiega in conferenza stampa che probabilmente sarebbe meglio avere una gamba rotta? Non si può. Il mondo è crollato sulle spalle di Atlante.
La ginnastica è uno sport crudele. Ogni atleta è solo di fronte ai suoi sbagli. Il suo corpo è dissezionato in tanti piccoli pezzi, segmenti di un quadro che compone la posizione perfetta, che è sempre anche la meno naturale in assoluto. Ogni microscopica distanza da quell’immagine è un errore, più o meno grande e penalizzante.
Non solo, bisogna anche farlo sembrare semplice, armonioso, scontato. Forse questa è l’ingiustizia peggiore: non si può dare a vedere lo sforzo del gesto, la pericolosità. Si deve essere così convincenti in ogni frammento aereo, da far sembrare ogni gesto naturale e appropriato per un corpo umano. Come se non rischiassero di morire a ogni evoluzione. Nascosta dai lustrini, dalla musica divertente e i sorrisi bianchissimi, dai body tutti colorati e gli scrunchies nei capelli, c’è la mortalità dell’essere umano. Non importano le ore di allenamento, quante volte un esercizio è riuscito. Quelle formano solo la memoria muscolare degli arti, che sanno come posizionarsi in ogni frazione di secondo. Resta comunque un esercizio mortale.
I ginnasti vivono una piccola vita dentro un’altra, e il loro corpo è uno strumento unico. Un oggetto, o un attrezzo, che va allenato a compiere gesti anti-conservativi. Per anni – e in parte ancora oggi – il corpo delle ginnaste è stato alla mercé totale del giudizio, di arbitri, commentatori, giornalisti e spettatori. Bambine costrette da un sistema di adulti a sottoporsi a una manipolazione estrema, dalla palestra, alla dieta, in completa soggezione. Serve della perfezione.
Gli Stati Uniti non sono sempre stati una potenza della ginnastica artistica femminile: prima degli ori a squadre di Londra 2012 e Rio 2016, c’era stato solo quello di Atlanta 1996, l’Olimpiade di casa. Lì, con il volteggio di Kerri Strug si era scritta un’importante pagina di epica della ginnastica artistica. La diciottenne si era infortunata una caviglia durante l’atterraggio al primo salto. Ne serviva un altro per l’oro, o sarebbe andato alla Russia, niente meno. Allora Strug aveva corso, corso, corso, rondata sulla pedana, spinta con le braccia sul cavallo e avvitamento. Stop a terra con un piede solo, sorriso, saluto ai giudici, al pubblico, al coach. Crollo. Le telecamere hanno ripreso tutto il dramma, tramandato come un atto eroico, un “miracolo commovente”, una scelta di abnegazione e amor patrio. Il coach, Béla Károlyi, lo stesso di Nadia Comăneci, noto per il suo stile di allenamento fondato sull’abuso e la privazione di cibo, in mondovisione le ripeteva solo «you can do it». Lo stadio era in visibilio, puro cinema. Di solito i martiri scelgono di morire: la diciottenne Strug ha mai avuto l’opportunità di abiurare?
In questa epica americana di vittoria a ogni costo, Simone Biles, la ginnasta più forte di sempre, ha dovuto comunicare che non era più in controllo del suo corpo e che gareggiare era diventato pericoloso. O no, forse semplicemente non era davvero così forte come dicevano. Il dubbio aveva iniziato a strisciare nelle persone, perché è più facile negare l’ovvio piuttosto che ricordarci che dobbiamo morire.
Nessuna è come lei, nessuna sa fare quello che fa lei: i “Biles”. Un ginnasta, per avere il suo nome scritto nel codice dei punteggi, deve eseguire un elemento nuovo in una gara internazionale, quindi ai Mondiali o alle Olimpiadi. Simone lo ha fatto cinque volte: due al corpo libero, due al volteggio, una alla trave. La prima risale al 2013, ai suoi primi Mondiali ad Anversa in Belgio: il Biles I al corpo libero, la più facile delle sue mosse eponime. «L’unico Mondiale in cui ero l’underdog», lo ha definito. Aveva appena sedici anni, l’apparecchio ai denti e la voce squillante delle bambine mentre diceva quanto si divertiva a gareggiare. Biles ha vinto l’oro all around (la gara individuale in cui si presentano esercizi a tutti gli attrezzi) in tutti i Mondiali a cui ha partecipato.
L’ultima mossa, l’ha ufficializzata ai Mondiali del 2023, di nuovo ad Anversa dove tutto è cominciato. Il volteggio femminile più difficile in assoluto, il Yurchenko doppio carpiato. Il Biles II. «Farlo è spaventoso. Dalla prima volta che l’ho fatto, la sensazione non è migliorata», ha raccontato nel documentario. «La maggior parte delle volte cerco solo di non morire». Era la prima gara internazionale dopo le Olimpiadi di Tokyo. In quei due anni si era dovuta ricostruire, pezzo per pezzo. Era ripartita dalle basi, per capire cosa era ancora in grado di fare.Nel frattempo, grazie alla terapia era riuscita a capire l’origine del vuoto, che era in tutte le volte in cui non era stata in controllo del suo corpo. A partire dall’infanzia passata in affidamento, prima di essere adottata dal nonno biologico, fino agli abusi subiti dall’osteopata della nazionale statunitense, Larry Nassar. L’uomo è stato accusato di violenza sessuale da 256 ginnaste, molte delle quali erano bambine all’epoca dei fatti.
Eppure, la cosa che rende speciale la ginnastica di Simone, è proprio la sua capacità di controllo. Il modo in cui può pensare una variazione, aggiungere un’intera rotazione, e farlo. Quindi il controllo se lo è ripreso e il Biles II è la certificazione definitiva della sua immortalità. Un ciclo epico che è iniziato e si è concluso in una decade perfetta, tonda, come il punteggio massimo per l’esecuzione di un esercizio. A Parigi è atteso il sesto Biles, alle parallele asimmetriche, l’unica specialità che manca all’appello.
Tre anni fa, alla vigilia di Tokyo, probabilmente Simone si sarebbe immaginata da tutt’altra parte, a godersi una vita normale, nella sua nuova casa costruita con suo marito. Ma non poteva finire così. Non per la Federazione, che non l’aveva protetta, o gli Stati Uniti, che non avevano fatto altro che buttarle il mondo addosso. Per se stessa non poteva finire così. Ormai è una donna adulta che reclama la sua libertà di andare in palestra se e quando vuole. Di vincere come vuole, ai suoi termini, con la consapevolezza del rischio. E di sollevarsi, ancora, altissima e irraggiungibile.