Dopo sei minuti di recupero in cui era successo di tutto, non ultimo il fatto che l’Inter era tornata a qualificarsi ai quarti di finale di Champions League per la prima volta dopo 12 anni, Simone Inzaghi era pronto a regolare davanti ai microfoni il proprio conto personale. «Io 18 mesi fa sono stato richiamato per portare l'Inter agli ottavi che mancavano da dodici anni», ha dichiarato «Questi ragazzi questa sera hanno dimostrato che sono capaci di tutto. E non dimentichiamo che l'Inter è seconda in campionato». Senza troppa eleganza, insomma, Inzaghi ha messo sul tavolo i traguardi raggiunti, e al netto dello stile aveva le sue ragioni per farlo. Solo tre giorni prima la sua squadra era incappata in una di quelle sconfitte incomprensibili che sembra non riuscire a fare a meno di evitare, contro lo Spezia, e i toni avevano assunto sfumature apocalittiche.
Su Twitter erano iniziati a spuntare hashtag che ne chiedevano la testa già la sera stessa mentre la mattina successiva la Gazzetta dello Sport scriveva che sarebbe stato essenziale superare il turno di Champions League contro il Porto, altrimenti non sarebbe stato da scartare nemmeno l’esonero immediato. Non sorprende, quindi, che Inzaghi abbia iniziato ad assumere quei toni paranoici che gli allenatori utilizzano quando sentono vicina la propria fine. Prima della trasferta di Champions League Inzaghi aveva dichiarato di sapere «come funziona il calcio, chi muove le critiche e perché lo fa», mentre subito dopo, in conferenza stampa, ha rincarato la dose parlando di se stesso in terza persona: «È facile parlare di Simone Inzaghi perché a volte l’educazione e l’intelligenza vengono confuse». Non è facile capire a chi si riferisca Inzaghi quando getta queste frecciate nel buio, anche se sarebbe necessario per fare luce sul quadro che lo circonda, ma si può comunque comprendere perché lo faccia.
Di questo tema abbiamo parlato nel nuovo podcast riservato agli abbonati, Uno contro uno, insieme ad Angelo Pisani e Francesco Lisanti.
Fin dall’inizio della stagione la posizione dell’allenatore piacentino è stata costantemente messa in discussione (anche qui sull’Ultimo Uomo già il 29 settembre discutevamo di “cosa non sta funzionando nell’Inter”), anche se i motivi per cui questo è stato fatto sono radicalmente cambiati nel corso dell’anno. Prima della pausa per i Mondiali l’Inter era una squadra con un andamento costante ma che non riusciva a vincere, anzi, che non riusciva a non perdere contro le teste di serie (prima della pausa, cominciata per l’Inter il 13 novembre, i nerazzurri hanno vinto tutte le partite di campionato tranne quelle contro Lazio, Milan, Udinese, Roma e Juventus, tutte squadre con cui hanno perso). Dopo la pausa la situazione si è ribaltata: l’Inter ha vinto contro il Napoli, contro il Milan (due volte, se consideriamo anche il trionfo in Supercoppa) ma ha iniziato a perdere punti preziosi contro squadre come Monza, Empoli, Bologna e Spezia. In tutti e due i casi, comunque, il problema è sempre sembrato essere l’allenatore (come quasi sempre accade): prima per aver messo con il proprio gioco una gabbia che non permetteva alla squadra di andare oltre i propri limiti, oggi al contrario per non essere riuscito a dare un’impronta abbastanza forte da infonderle la sufficiente continuità di risultati. Da come se ne parla, sembra che l’inconsistenza della retorica di Inzaghi abbia finito per contagiare l’atteggiamento dell’Inter sul campo. È significativo da questo punto di vista che la sua paranoia, nella conferenza pre-partita della sfida contro il Porto, sia scattata alla domanda: quando legge che non c’è presa da parte dell’allenatore cosa pensa?
Gli highlights dell'ultima incredibile sconfitta contro lo Spezia, che secondo Simone Inzaghi può capitare «giocando così una volta ogni 500 partite».
Ora, è innegabile che l’Inter abbia diversi problemi tattici, e da fuori, nei suoi momenti peggiori, l’impressione è proprio quella di una squadra leggera, in balia delle onde. Esattamente il contrario, cioè, della solidità granitica, della sicurezza che restituiva l’Inter scudettata di Conte. Inzaghi già alla Lazio aveva dimostrato di essere un allenatore che puntava su una moltitudine di identità, che cercava la forza nell’adattamento all’avversario, alla partita e soprattutto ai suoi giocatori. Che insomma sapeva adottare più registri al fine ultimo di vincere le partite. Dopo lo scudetto perso drammaticamente nella scorsa stagione, in cui l’Inter sembrava essere una delle squadre più definite tatticamente del campionato, questa sua caratteristica ha iniziato però ad essere vista come una debolezza più che un punto di forza. E così oggi, per l’appunto, associamo la leggerezza all’Inter, una squadra che tiene molto il pallone ma senza l’ambizione di controllare la partita, che tiene un baricentro molto alto sul campo ma senza estremizzare il pressing sulla prima costruzione avversaria, che fa ricorso alle transizioni ma cercando di non allungarsi troppo sul campo, che accetta spesso anche di difendersi in area per lunghi tratti di partita nonostante non sembri troppo a proprio agio nel farlo.
La tendenza di Simone Inzaghi ad abbracciare tutte lo spettro della variabilità tattica sembra un altro riflesso della sua avversione al rischio, dei suoi tentativi di controllare l’imprevisto, di cui l’espressione più visibile (e quasi patologica) è il cambio immediato all’ammonizione dei suoi giocatori. L’Inter, com’è noto, è di gran lunga l’ultima squadra della Serie A per dribbling tentati (ne prova appena 8.63 a partita, secondo i dati StatsBomb, cioè più di due in meno della penultima, il Bologna) e, nonostante il suo gioco si sia fatto più diretto quest’anno (ci torneremo), rimane una delle squadre dal gioco di possesso più codificato della Serie A (è terza sia per possesso medio che per passaggi tentati). Tutto sembra fatto insomma per non lasciare il pallone all’avversario, o meglio, per non perderlo, e non può essere legato solo alle caratteristiche dei giocatori. Da questo punto di vista le ultime partite dell’Inter sembrano quegli incubi in cui, nonostante si cerchi di controllare qualsiasi cosa, alla fine tutto sfugge al controllo. In pochi giorni abbiamo avuto addirittura due esempi di fila, seppur con esiti diversi. Prima contro lo Spezia, in una partita che l’Inter è riuscita a perdere subendo due tiri in porta dopo aver segnato un solo gol a fronte di 3.4 Expected Goals e due rigori (dati di Alfredo Giacobbe), e poi contro il Porto, contro cui è andata a un soffio dal farsi recuperare per tre volte negli ultimi secondi di partita dopo 180 minuti di controllo quasi totale. Ma è una tendenza che va anche più indietro di queste due ultime partite. Se prendiamo le cinque in cui ha perso dei punti dall’inizio dell’anno, contro Sampdoria, Empoli, Monza, Bologna e Spezia, l’Inter ha preso sei gol da 5.1 Expected Goals subiti e ne ha segnati appena tre da 9.6 xG creati.
Si potrebbero individuare le ragioni più superficiali di questa nuova fragilità nei limiti dei giocatori a disposizione dell’Inter. In uno sport a basso punteggio come il calcio, per esempio, di sicuro non aiuta il fatto che Inzaghi non possa fare affidamento su attaccanti particolarmente lucidi sotto porta. Né Lautaro né Dzeko né Lukaku stanno vivendo una stagione esaltante da un punto di vista realizzativo, per usare un eufemismo, e alcuni loro errori sotto porta si sono rivelati decisivi nei risultati delle partite più sfortunate. Tra loro, solo l’attaccante argentino è in leggera overperformance rispetto agli xG avuti a disposizione (0.54 gol segnati per 90 minuti, esclusi i rigori, a fronte di 0.47 xG; dati StatsBomb), ma al di là di questo anche i suoi numeri rimangono abbastanza pallidi. La conversione dei tiri in gol per esempio è al 14% per Lautaro, all’11% per Dzeko e addirittura al 6% per Lukaku: tutti e tre a distanza siderale dal primo posto detenuto da Boulaye Dia, al momento al 32%.
Anche i compagni, comunque, non stanno aiutando: contro il Bologna, poco prima del salvataggio in area piccola di Darmian sul tiro di Soriano, Calhanoglu spara alto un tiro da dentro l'area a porta vuota.
Dall’altra parte del campo le cose non vanno particolarmente meglio. Nonostante le ultime buone prestazioni in Champions (che alla fine sono valse di fatto il passaggio del turno), Onana in campionato non sta rendendo come forse ci si aspettava a inizio stagione, almeno per la sua reattività tra i pali. Il portiere camerunese è uno degli ultimi della Serie A per differenza tra post-shot Expected Goals e gol effettivamente subiti (-2.95), meglio solo di Handanovic, Rui Patricio, Tatarusanu e Consigli. Un dato che in parte spiega la scarsa efficienza difensiva dell’Inter, che subisce più xG a partita solo del Napoli ma che al momento ha la sesta difesa del campionato a pari merito con Atalanta e Udinese.
Certo, si potrebbe dire che sulle prestazioni incide in primo luogo il lavoro dell’allenatore, e non c’è dubbio che tatticamente l’Inter sia una squadra meno ricca rispetto allo scorso anno. Come detto, il suo gioco di posizione si è notevolmente asciugato e questo senza essere diventata una squadra davvero diretta e verticale. L’Inter prova sempre a superare le linee di pressione avversaria con il possesso ma lo fa in maniera più prevedibile, muovendo in maniera meno creativa i giocatori tra di loro. La sua circolazione palla è più scolastica e questo l’ha costretta a fare un affidamento eccessivo sulle catene laterali, soprattutto contro squadre chiuse che abbassano il baricentro fin davanti la propria area. L’Inter in queste situazioni si abbandona a un possesso perimetrale e di conseguenza usa eccessivamente il cross come arma offensiva, nonostante sia notoriamente poco efficace da un punto di vista statistico. La squadra di Inzaghi è di gran lunga prima in Serie A per cross tentati (12.08 a partita, quasi uno in più della seconda, la Fiorentina, a 11.31) ed è seconda solo a Juventus, Lecce e Salernitana per percentuale di cross rispetto al totale dei passaggi in area tentati (35%).
Difensivamente l’Inter è più disposta rispetto all’anno scorso a concedere il possesso e a abbassarsi fin dentro la propria area, ma non sembra mai troppo sicura quando accetta queste lunghe fasi di sofferenza. Anche nelle marcature preventive, quando cerca di recuperare in avanti il pallone perso nella trequarti offensiva, sembra meno in palla, e su questo è possibile abbia coinciso il contemporaneo declino di de Vrij con le ultime assenze di Skriniar.
A proposito di declino di de Vrij: contro l'Empoli, ancora prima dell'espulsione che lascerà l'Inter in 10, il centrale olandese al 17' prima si allarga per seguire l'inserimento di Cambiaghi, poi cerca di anticipare la linea di passaggio per Caputo, che riceverà da solo in area nello spazio da lui liberato andando vicino al gol. Dopo questa partita de Vrij ha giocato solo 135 minuti, contro Sampdoria e Bologna.
Mettere in contrapposizione Simone Inzaghi con i suoi giocatori, come se fossero uno un ostacolo alla libera espressione dell’altro, non aiuta però a capire perché l’Inter abbia impoverito il suo gioco rispetto allo scorso anno. Se l’obiettivo è capire se l’allenatore stia facendo meglio o peggio del previsto allora vale la pena chiedersi se si poteva fare altrimenti, sempre tenendo a mente che gli allenatori non sono artisti che esibiscono le proprie opere d’arte ma più ingegneri che cercano di far funzionare una macchina con gli strumenti che si ritrovano a casa. Per tirare fuori le radici di questo discorso bisogna tornare fin all’inizio dell’esperienza di Inzaghi sulla panchina dell’Inter. Al fatto che Antonio Conte abbia lasciato il posto con ogni probabilità per non aver avuto rassicurazione sul mercato che lo attendeva (che infatti vedrà le cessioni dei due giocatori migliori, Hakimi e Lukaku). E infine alla scelta dell’Inter di scegliere come suo sostituto proprio Inzaghi, e non un altro allenatore.
Si era già distinto alla Lazio per ottenere il massimo con quello che si aveva, facendo grande attenzione non sollevare alcuna polemica con una dirigenza molto rigida sul mercato. Inflessibile sulle cessioni, certo, ma anche di manica stretta sugli acquisti. All’Inter era chiamato a un compito ancora più difficile, perché la società, com’è noto, stava attraversando una fase difficile e non sarebbe potuta rimanere sulla difensiva come la Lazio di fronte alle offerte per i suoi giocatori migliori. Appena arrivato, Inzaghi è stato subito chiamato a trovare un modo per far rimanere l’Inter competitiva nonostante le partenze di Lukaku e Hakimi, e questo è di fatto rimasto il suo ruolo nelle due stagioni che sono seguite. Questo non significa che l’Inter non abbia tentato di assecondare qualche sua richiesta (com’è probabile per i casi di Correa, forse l’arrivo più contestato della sua gestione, e Acerbi), ma parliamo di giocatori, almeno inizialmente, di contorno.
All’inizio di questa stagione Inzaghi è stato chiamato a un compito solo apparentemente opposto, e cioè quello di reinserire Lukaku, l’attaccante che nell’anno dello scudetto quasi da solo riusciva a trascinare l’Inter in verticale fino dentro l’area avversaria, in una squadra che si era abituata a giocare senza. È possibile che l’allenatore nerazzurro abbia deciso di asciugare il suo gioco di posizione, di cui Dzeko era il perno più avanzato, per favorire il reinserimento dell’attaccante belga? Anche Dario Pergolizzi, nel suo pezzo del 29 settembre, scriveva che «il ritorno di Lukaku potrebbe dare un senso differente alla scelta di giocare un calcio più diretto». Questa scelta aveva un suo senso anche alla luce della perdita di uno dei vertici del triangolo attraverso cui l’Inter creava densità a sinistra, e cioè Perisic, un giocatore molto più dinamico senza palla di Dimarco, che invece preferisce ricevere da fermo per utilizzare il suo mancino celestiale.
È possibile insomma che Inzaghi abbia cercato di “giocare d’anticipo”, facendo evolvere il suo gioco per mascherare i successivi mutamenti della rosa. Questo spiegherebbe anche perché non abbia riabbracciato del tutto la sua vecchia identità nonostante la lunga assenza di Lukaku e il ritorno davanti di Dzeko. Nel frattempo Inzaghi ha perso anche Brozovic (che prima delle ultime partite in campionato non giocava da titolare addirittura dal 18 settembre), e di conseguenza un altro vertice di quella catena di sinistra con cui l’Inter costruiva il suo gioco la scorsa stagione, e cioè Calhanoglu, spostato con discreto successo in posizione da regista.
Il centrocampista turco in quel ruolo è meno abile a muoversi senza palla per trovare le ricezioni di Brozovic e ha reso l’Inter ancora più diretta, eppure Simone Inzaghi non è sembrato avere troppa fretta per reinserire il numero 77 nell’undici titolare e nell’ultima decisiva partita contro il Porto lo ha fatto partire dalla panchina. Qui entriamo di nuovo nel campo delle ipotesi ma non è detto che Inzaghi non stia pensando di nuovo al futuro (proprio come fa quando sostituisce all’istante un giocatore ammonito), magari aspettandosi una cessione nei prossimi mesi di Brozovic, di cui d’altra parte da tempo si parla in ottica mercato. Lo stesso si potrebbe dire anche del riadattamento al centro della difesa di Darmian (una mossa provata già nel pre-campionato) e della rinnovata importanza di Acerbi alla luce del declino di de Vrij e soprattutto delle condizioni fisiche di Skriniar, anche lui con le valigie in mano da tempo (non so se vi ricordate, ma l’Inter sembrava già a un passo dal perderlo la scorsa estate).
Contro il Porto, l’Inter ha lasciato Brozovic, de Vrij, Skriniar e Lukaku in panchina ed è scesa in campo con Calhanoglu regista, Mkhitaryan mezzala sinistra, Darmian centrale di destra, Acerbi libero e Dzeko di nuovo accanto a Lautaro in attacco: chi si sarebbe aspettato una squadra così diversa a inizio stagione? Alla luce di tutti questi cambiamenti, è impressionante la continuità di risultati che è riuscita a tenere l’Inter. Dall’inizio del 2023 in campionato, nonostante gli inciampi con Monza, Sampdoria, Empoli, Bologna e Spezia, nessuno ha fatto più punti dell’Inter in campionato ad esclusione di Juventus (+3) e Napoli (+7). In Champions League fino ad adesso i nerazzurri hanno perso solo contro il Bayern Monaco. Ovviamente, per quanto Inzaghi possa ingegnarsi per rattoppare la sua rosa, questo non significa che l’Inter in questo processo non abbia perso qualcosa per strada. La sconfitta contro lo Spezia, per esempio, è stata innescata sul primo gol subito da un duello individuale perso malamente con Nzola da Acerbi, un giocatore che sta garantendo un buon rendimento ma che non può garantire la continuità di Skriniar e del miglior de Vrij. Allo stesso modo lo spostamento dell’asse creativo da sinistra a destra ha dato maggiori responsabilità a un giocatore istintivo come Barella, che a Oporto ha dimostrato di non essere sempre lucido nel dare l’ultimo passaggio, e a uno non a proprio agio col pallone come Dumfries. Un equilibrio che ha isolato dall’altra parte Bastoni, quest’anno mortificato in un compito più strettamente difensivo complice anche l’influenza da quel lato di Dimarco. Il calcio non è mai un gioco a somma zero.
L’Inter si affaccia a quest’ultima parte di stagione stretta un’altra volta tra l’eccitazione per il presente - la possibilità di giocarsi di nuovo un quarto di finale di Champions, di vincere un’altra Coppa Italia - e l’ansia per un futuro prossimo per lo meno incerto - inevitabilmente direi, visto che la società secondo il Financial Times è alla ricerca di un acquirente da almeno cinque mesi. Inzaghi sapeva benissimo a cosa andava incontro quando ha accettato la panchina nerazzurra, ma i colpi che nel frattempo gli ha inferto il caso (primo fra tutti il tragico Scudetto perso a favore del Milan, che forse non gli verrà mai perdonato) sembrano aver incrinato la sua fiducia nel poter assorbire sul campo senza colpo ferire le decisioni dolorose prese sul mercato dalla società.
Nella conferenza post-partita della sfida di Oporto, dopo aver elencato i suoi traguardi e promesso di parlare a fine stagione («perché lo devo a me stesso e ai miei familiari»), ha dichiarato in maniera sibillina che l’Inter negli ultimi 12 anni ha vinto un solo scudetto e soprattutto «ha provocato qualche problemino a livello economico». Dal tono e dalla faccia con cui l’ha detto non sembrava un’assoluzione verso le persone che, al contrario suo, non vedono dipendere da quei problemi economici il proprio lavoro.