Ci sono partite perfette, partite in cui ti senti bene. Sei intenso, le gambe girano, sei solido ma brillante, concentrato ma creativo. Entrano i colpi difficili e quelli facili, sai sempre cosa fare e per qualche ragione sai in anticipo dove colpirà il tuo avversario. Ti muovi prima, la palla sembra venirti incontro, la colpisci coi piedi fermi, il braccio attraversa l’aria e si richiude verso la spalla. Sei esattamente dove dovresti essere. In quei momenti ti sembra di toccare la perfezione.
Si possono perdere partite anche così, quando si ha l'impressione di giocare il miglior tennis possibile?
La perfezione, nel tennis, non è esiste ma è sempre stata una chimera da inseguire, almeno per alcuni grandi campioni. Giocatori che sono entrati troppo in profondità nelle viscere del gioco, e si sono ritrovati a cercare di decriptare il mistero ultimo. Essere perfetti è stata l’ossessione di Bjorn Borg, di John McEnroe e di pochi altri ancora. Ciascuno di loro è riuscito a sfiorare la perfezione, e nessuno come loro ha frequentato così spesso quei territori. In molti hanno finito per bruciarsi, diventando pazzi dietro a quell’ossessione.
Provare a essere perfetti per giocatori più normali di questi, significa provare a sperimentare la leggerezza di una giornata di grazia. Per questi giocatori, però, la fallibilità è dietro l’angolo. Sul 3-2 del quarto set, dentro un tiebreak duro, Berrettini ha perso la sua grazia solo per un istante, nel quale il suo corpo si è scomposto, e ha perso i riferimenti automatici costruiti con pazienza per tutta la vita. La sua prima di servizio era tornata nel suo campo per l'ennesimo miracolo di quello dall’altra parte. Berrettini ha fatto due passi laterali per andare sul suo dritto, una sentenza in quella partita. Il campo era aperto, Sinner era corso a coprire l’angolo del dritto, e allora Berrettini ha cambiato direzione all’ultimo, cercando il controtempo. Il suo corpo, però, si è disfatto, il braccio è andato per conto suo e la palla è finita larga. La perfezione, lo sappiamo, non esiste.
Sinner si è così portato 4-2 nel tiebreak decisivo del quarto set, marcando un divario a quel punto incolmabile. È stato crudele vedere Berrettini perdere la partita per un paio di sbavature. Quella appena descritta è simile a un altro errore di dritto, col campo aperto, commesso al tiebreak del primo set. Berrettini è stato quasi perfetto, ma per vincere la partita aveva bisogno di essere perfetto. Sinner no, non aveva bisogno di esserlo.
Forse niente descrive l’intera partita meglio dell’ultimo tiebreak. Berrettini è riuscito a tenere un rendimento eccezionale al servizio: ha servito 6 prime, di cui 2 ace, 2 prime vincenti e una prima quasi vincente, quella appunto su cui Sinner ha fatto un miracolo rimandando la palla di là e invitando Berrettini a quell’errore doloroso. La sesta prima di servizio è quella sul match point: Sinner ha risposto col dritto in anticipo, profondo sui piedi di Berrettini, che si è trovato la palla tra i piedi e ha iniziato a camminare verso la rete quasi ancor prima di colpirla. Una risposta alla Djokovic, si dice in questi casi, che è stata forse la vera differenza tattica di una partita magnifica tra questi due tennisti.
Sinner è riuscito a vincere il tiebreak pur senza quasi finestre di gioco disponibili. Gli è servito alzare il livello, affinando al massimo la sua intensità mentale, economizzando il tennis alla sua essenza.
È stato così per tutto il match. Le migliori versioni di Berrettini infilano le partite su un crinale strettissimo. Due motociclisti a cento chilometri orari tra tornanti da paura con sotto il precipizio. Si gioca a velocità folli, e ai primi errori, alle prime imperfezioni, si cade giù. Il servizio di Berrettini, su erba, è quasi inattaccabile. Le possibilità di entrare nello scambio sono poche. Una volta entrati, poi, bisogna evitare il suo dritto. Da quel lato, soprattutto quando riesce a girare attorno al rovescio, dall’angolo sinistro, può essere letale anche quando non è messo bene con i piedi, o gli angoli sono stretti, o la palla è difficile da spingere. Il suo tennis non si prende pause: quando può spingere, spinge, quando non può spingere, pure. Nelle giornate migliori, come quella di ieri, la palla entra sempre. Però c’è d’altra parte anche una versione oscura di Berrettini, quando non è lui l’aggressore ma l’aggredito, e allora l’eccellenza del suo gioco si sgretola.
C’è un Berrettini che attacca e uno che subisce, uno che domina il gioco in scioltezza e uno tutto impacciato e goffo che cerca di contenere gli attacchi sul proprio lato sinistro. È tutto un gioco mentale, per lui, offrire la propria versione migliore e riuscire nel trucco di nascondere la peggiore. Sa che è insidioso per lui, ma lo è anche per i suoi avversari. Nelle giornate migliori, come quella di ieri, l’intensità mentale gli permette di essere più presente degli avversari. Avere di fronte un giocatore così sbilanciato tra pregi e difetti costringe a stare sempre sul pezzo.
Forse queste cose su Berrettini le sapete già, ma oggi vale la pena ripeterle perché non le vedevamo da un po’, da un anno almeno, da quando cioè, nella scorsa edizione di Wimbledon, aveva bombardato i prati ed estromesso Zverev dal torneo.
E così è venuta fuori questa partita di incredibile vigore, equilibratissima oltre ogni nostra aspettativa. E forse anche oltre l’aspettativa di Sinner. Dopo il primo set, tirato ma vinto in modo convincente, la partita sembrava indirizzata. All’inizio del secondo Sinner ha avuto subito due palle break che somigliavano a una spallata decisiva. Berrettini è riuscito ad annullarle col servizio e col coraggio di attaccare per primo, e ha poi ottenuto un break poco più avanti, che ha spaventato Sinner e gli ha dato la fiducia di cui aveva bisogno: stava giocando col numero uno del mondo, ma le gambe funzionavano, il servizio pure, e su erba lui può giocare alla pari anche col numero uno del mondo.
Per la prima volta nel match, allora, Sinner è stato costretto ad alzare il livello. È diventato più attivo e rapido con i piedi, ha cercato di colpire la palla ancora prima, con ancora maggiore aggressività. Ha ottenuto il controbreak, ha trascinato di nuovo il set al tiebreak, e lì ha alzato ulteriormente il livello.
Ad Halle lo avevano rimproverato per aver perso due tiebreak consecutivi, con Griekspoor e Struff. Come può pensare di vincere Wimbledon se non vince i tiebreak, si diceva. Da quel momento ne ha vinti 7 di fila.
A quel punto, davvero, pensavamo che sarebbe finita. Pensavamo, persino, consolatori, che Berrettini poteva dirsi soddisfatto per aver dato filo da torcere a Sinner per quei due set così tirati. Lui ha fatto di più e ha vinto il terzo in poco più di mezz’ora, ottenendo due break, trovando una brillantezza impossibile da immaginare; esaltandosi di fronte al calo dell’avversario, in scia sul punteggio, giocando un tennis breve e fulminante. Stava succedendo una specie di miracolo: il tempo passava e le gambe di Berrettini non si stavano sciogliendo, come temevamo, ma erano al contrario sempre più fresche. Vinceva gli scambi più lunghi. Riusciva a girarsi sul lato del dritto, appena possibile, una biscia alta due metri.
Si stava facendo tardi. Il quarto set sarebbe stato probabilmente l’ultimo della giornata in ogni caso. Nel caso in cui Berrettini fosse riuscito a equilibrare il punteggio, si sarebbe andati al giorno dopo. Sarebbe stato un tormento per Sinner: tornare a giocare, sull’erba, un set secco contro un Berrettini confortato da una notte di riposo. Doveva chiuderla subito.
Berrettini ha ottenuto un break precoce, in un game in cui il suo dritto sembrava andare a fuoco. In un passante arpionato per passare Sinner a rete, ha esultato appena la pallina ha lasciato la sua racchetta.
Sinner era sotto pressione. Non riusciva a venire a capo dell’enigma Berrettini. Rispondeva bene, ma nello scambio, dove avrebbe dovuto controllare, non riusciva davvero a creare il proprio contesto. Doveva muovere Berrettini, essere aggressivo sul suo lato sinistro, e poi accelerare in modo decisivo sul campo aperto dall’altro lato. Non trovava mai il modo e il tempo per farlo. Berrettini ha giocato una partita notevole di rovescio, relativamente alle sue possibilità, soprattutto in top, giocando bene alcuni punti decisivi. Il dritto era quello delle giornate migliori: ha sbagliato poco, per il margine di rischio preso, e ha commesso errori comunque accettabili, che continuavano a mettere Sinner sotto pressione. Si è vista anche un’altra caratteristica tipica del miglior Berrettini, ovvero la concentrazione nei momenti decisivi. Esclusi i tiebreak, dove Sinner ha giocato da campione, nell’andamento dei game Berrettini ha giocato bene le palle break e i pressure point (cioè i punti giocati in situazioni di 30 pari o 40 pari). Ha convertito il 60% delle sue palle break, contro il 20% di Sinner.
Nel quarto set, sotto di un break, Sinner ha iniziato a tirare ancora più forte. Sembrava impossibile, ma così è stato. La partita ha raggiunto il proprio picco estetico. Soprattutto sulla diagonale di dritto, i due hanno cominciato a picchiarsi con una violenza quasi spaventosa da vedere da casa. Nello scambio più bello della partita, Sinner ha sollevato col dritto un back di Berrettini passato basso al lato del paletto riatterrato in campo. Fosse entrato il dritto di Berrettini?
Questa versione di Berrettini avrebbe sconfitto tutti i giocatori del circuito, esclusi appunto Sinner, Alcaraz e un Djokovic in buone condizioni. È la cosa che ci ripetiamo da ieri, forse per masochismo, ancora affranti da questo sorteggio maligno. Mettere di fronte questi due giocatori solo al secondo turno: l’amarezza si è acuita al termine della partita, vedendo questa versione di Berrettini, immaginando mondi alternativi in cui avrebbe potuto sbaragliare i cattivi del tabellone e arrivare, chissà, almeno in semifinale.
C’era poi il lato emotivo: come si fa a scegliere da che parte stare? Tifare per Sinner, che sta cullando il tennis italiano nella sua epoca d’oro, o Berrettini, che nell’epoca d’oro quasi ce l’ha trascinato. Il primo finalista italiano a Wimbledon della storia. Due amici, due personalità così diverse. Entrambi forti e saldi, ma più freddo e razionale uno, più vigoroso e coatto l’altro, che dopo i migliori punti ha il tic di tirarsi su la manica per sfoggiare bicipite e tatuaggio. L’impressione è che la maggior parte delle persone, prima della partita, avesse scelto di tifare Sinner. Anche solo perché era la nostra migliore possibilità di vincere il torneo, e non volevamo perderla al secondo turno. Eppure guardando la partita era difficile non immedesimarsi in Matteo, emozionarsi di fronte alla sua capacità di ritrovare sé stesso, la cosa che ama fare, dopo più di due anni di agonia e tormenti. Vederlo muoversi così sciolto, martellare in campo con servizio e dritto. Queste parabole di rinascita sono una delle metafore più pure e nobili che lo sport può offrirci.
Certo, è stato emozionante anche vedere un Sinner così consapevole, così capace di “gestire” (verbo da lui utilizzato) una partita così complicata, solo al secondo turno, con tutto da perdere. Non finiremo mai, forse, di stupirci del suo spessore agonistico; di quelle qualità sportive che, indipendentemente dalla disciplina, differenziano i campioni dagli altri. Ha vinto una partita su erba in cui l'altro ha servito 28 ace, spesso nei momenti chiave.
Sinner aveva tutto da perdere da questa partita, è vero, ma a pensarci bene era Berrettini ad avere di più in gioco. A 28 anni, con un corpo così precario, e con delle possibilità d’alto livello ormai ridotte solo alla stagione su erba, le soddisfazioni possibili sono sempre meno, per lui. Mancare una possibilità a Wimbledon, perdendo una partita così contro il numero uno al mondo, al secondo turno, è più doloroso perché il tempo continua a remare contro di lui e il suo corpo. La fragilità di Berrettini, una fragilità da Dio greco che nasconde la propria vulnerabilità dietro la propria forza, è uno degli aspetti più affascinanti del suo personaggio. Gli dà una sfumatura di malinconia, stonata e appropriata al contempo.
Lo sappiamo, deve essere un punto di partenza. Lo ha detto anche Berrettini: «Da qui sono ripartito». Bisogna fare lo sforzo di vedere il bicchiere mezzo pieno: «Considerando l'anno da cui arrivo, i mesi che ho passato non la considero una vittoria però è un tassello positivo. Voglio giocare partite così, tornei così ed essere continuo nella mia programmazione e so che arriveranno risultati e la classifica cambierà». Trovare continuità fisica, e quindi di risultati, ricostruire una classifica accettabile per evitare sorteggi come questi. Essere competitivi su terra e cemento, in Europa e in America, e poi tornare a Wimbledon con ancora più consapevolezza, dopo ieri, di poterlo vincere - prima o poi.