Jannik Sinner, pur con un punto meno di Djokovic, ha vinto il primo set della finale di Shanghai. Un set difficile, teso, vicino, di margini esigui. Un set nel quale, per diversi aspetti, Djokovic ha giocato meglio di Sinner.
Un set quindi, che nell'economia di una partita di tennis, finisce per pesare più di un set. Vinto quel tiebreak del primo, Djokovic si è sgretolato, mentre Sinner ha marciato sereno verso la vittoria del suo terzo Master 1000 del 2024.
Non è una provocazione dire che Sinner ha fatto a Djokovic il "trattamento Djokovic". Quella specie di tortura di guerra con cui Nole vinceva partite dando l'impressione di poterle perdere; quell'esercizio di ipnosi psichica per cui riusciva a vincere solo i punti che valeva la pena vincere - né più né meno.
Sinner ha vinto una partita nel modo in cui un tempo la vinceva Djokovic, e che oggi è diventato il suo modo. Ha vinto una partita senza punti memorabili, in fuga dagli highlights: applicando soltanto ciò che è la più pura efficienza possibile. Ha vinto dando l'impressione di essere niente meno che impenetrabile. Ha innestato nella testa di Djokovic l'idea malata che Djokovic innestava nella testa degli altri: l’idea di non poter sbagliare nulla, perché al minimo calo di tensione la partita sfugge via come le foglie d'autunno, come la giovinezza, come se la vita ci concedesse finestre veramente minuscole per ottenere ciò che vogliamo. Un momento prima la giochi punto a punto, un momento dopo sei sotto la doccia. Lo sa bene Tomas Machac, brillantissimo tennista ceco che ha giocato contro Sinner una splendida semifinale. Poi si è distratto due volte e si è risvegliato sotto al getto d’acqua a ripensare ai due errori che gli hanno fatto perdere la partita. Che dire errori, imperfezioni piuttosto.
L’imperfezione di Djokovic, quella forse più pesante, quella che per convenzione possiamo dire essere stata decisiva, è arrivata al tiebreak del primo set, mentre era sotto per 5-3. Sembrava aver rimesso in carreggiata un tiebreak iniziato male; una prima centrale gli era tornata corta. Su quella palla da attaccare con tutta la decisione possibile, Djokovic ci è andato con una strana mancanza d’energie. Ha incrociato il dritto provando a piazzarlo, fidandosi forse troppo della propria copertura della rete. Sinner, con la massima calma, non ha provato a passarlo: si è limitato a restituirgli un palla violenta su cui era facile sbagliare. E quello, infatti, ha sbagliato.
E così il set è scivolato nelle mani di Sinner. Un set piuttosto noioso, in cui si è giocato poco, a fatica dentro i pochi spiragli concessi dai due servizi. Djokovic ha fatto quello che gli toccava fare: mettere più prime possibili, mettere pressione al suo avversario subito a inizio scambio. Non lasciarsi trascinare in un tennis fisicamente più esigente. Ha giocato con una qualità a tratti davvero eccezionale, miracolosa. Sinner, però, è in quello stato mentale che abitano solo i grandi campioni di tennis, maestri dell'arte zen di lasciar andare ciò che non possono davvero controllare. Ha lasciato che Djokovic facesse i suoi punti, e si è concentrato su ciò che poteva davvero controllare: i propri turni di servizio.
Se servi bene arrivi al tiebreak, che è storicamente il territorio di Djokovic e che oggi è il suo territorio: 15 tiebreak vinti su 21 nel 2024. E poi al tiebreak Nole è sembrato tristemente a corto di fiato. Ha messo poche prime in campo, è stato opaco nei punti di inizio scambio; come se il livello tenuto in quel set lo avesse mandato a giocare il tiebreak in apnea. Dall’altra parte invece Sinner ci è arrivato con ancora il serbatoio di energie mentali pieno, e si è potuto permettere di salire. Di affilare il proprio tennis in alcuni punti importanti, come il dritto vincente lungo linea improvviso che gli ha dato un mini-break probabilmente decisivo. Uno dei pochi punti davvero spettacolari della sua partita, che per il resto è stato un angosciante esercizio di solidità. Di quanti punti spettacolari ha bisogno Sinner per vincere una finale con Djokovic? Uno.
All’inizio del secondo set, poi, la marea di Sinner è montata. Proprio quando Djokovic ha provato a scoprire le ultime carte, Sinner è salito ancora. Ha dato l’impressione, dura, che non ci fosse proprio verso. Ha tirato un dritto vincente che è rimbalzato piuttosto centrale ma su cui Djokovic non si è nemmeno mosso. Una specie di cazzottone dato per far arrivare un messaggio.
Ha servito in modo impressionante, Jannik Sinner. Non lo avevamo mai visto servire così; e se questa frase la ripetiamo ormai in ogni torneo non è per recency bias, ma perché questi miglioramenti sono tangibili e progressivi davvero in ogni torneo. Lo storico problema della percentuali di prime, tamponato da una seconda sempre più robusta, in questo torneo ha visto un deciso miglioramento. Contro Taro Daniel ha servito quasi l’80% di prime e nel resto del torneo è rimasto sempre attorno al 70%. La sua media nel circuito è del 60%, del 61% nel 2024. Teniamo conto che nella finale tiratissima contro Alcaraz a Pechino ha avuto una percentuale del 57%. È il dato a cui Sinner deve guardare, dunque, e a cui sono costretti a guardare anche i suoi avversari. Perché se quella percentuale inizia ad alzarsi fatalmente, come successo in questo torneo, diventa un’impresa impossibile provare a essere competitivi contro di lui. Cominciano ad arrivare anche i punti diretti: 8 ace, 6 solo nel primo set.
Questo rendimento al servizio ha permesso a Sinner di giocare sempre in controllo, di non dover scivolare in un territorio di pugno a pugno che a lui non piace per niente - come dimostrano le recenti sconfitte con Alcaraz.
In questo torneo Sinner ha portato in parità i confronti diretti con una delle bestie nere del suo inizio carriera, Daniil Medvedev, battuto 7 volte nell’ultimo anno. In questa partita però porta in parità anche gli head to head con Djokovic (4-4). Tra i tanti dati che provano a raccontare l’eccezionalità di Sinner, questo è a mio parere quello che dobbiamo guardare meglio.
Nole ha un record positivo con praticamente tutti i tennisti affrontati in carriera. Ci sono undici giocatori che rompono questa regola, ma per la maggior parte di loro si può parlare di caso (Volandri, Evans, Veseli, Taro Daniel, Dupuis, Karlovic). Per altri si può trovare la spiegazione nella differenza generazionale (Roddick, Safin). Ora con Sinner è 4 pari, ma avendo perso 4 delle ultime 5 sfide, alcune molto pesanti - finale di Davis, semifinale Australian Open. Certo, bisogna riconoscere che anche in questo caso pesa la differenza generazionale, e non poco. Tra i due passano 14 anni di differenza e non stiamo facendo questo discorso per accampare chissà quale paragone assoluto. Anzi, questo dato - così come il 4-3 di vantaggio su Alcaraz - dicono più della grandezza di Nole che non il contrario. Però questo dato racconta, una volta per tutte, di questo passaggio generazionale - citato anche da Federer negli ultimi giorni. Per carità, non sto dicendo niente di sconvolgente, ce ne siamo accorti tutti. Però il passaggio generazionale tra Djokovic e Sinner è più interessante di quello tra Djokovic e Alcaraz. È più problematico, ha più implicazioni.
Cosa deve aver provato, a Shanghai, Novak Djokovic, a ricevere il trattamento che storicamente lui ha riservato agli altri? Cosa deve aver provato a guardare, dall’altra parte della rete, una versione di se stesso più giovane e in grado di spazzarlo via dal campo? Una versione leggermente differente, certo, ma un giocatore che ha scelto una via molto simile alla sua per dominare il circuito.
In certi cambi di ritmo lungolinea di Sinner, in certe gestioni astute del punto, in certe risposte al centro e profonde, tra i piedi, in un diffuso senso di impenetrabilità, nella ricerca della più pura efficacia, era possibile specchiare l’uno nell’altro. O meglio, una versione presente di Sinner con una passata di Djokovic. Quando ormai non aveva più nulla da perdere, Djokovic ha iniziato a colpire la pallina più forte possibile, cercando angoli sempre più esasperati. Sinner ha respinto questi attacchi senza dare l’impressione di sforzarsi davvero; li ha respinti senza troppa enfasi, con difese eccezionali mascherate dietro un’apparenza di normalità.
Le difese di Sinner non hanno l’esuberanza atletica di Alcaraz; non ricercano ostinatamente il contrattacco, non cavalcano l’onda del ritmo ascendente. Sinner in difesa cerca di riassorbire, di riequilibrare lo scambio subdolamente, di cambiare la postazione di comando. Sinner è impercettibilmente veloce, è invisibilmente intelligente. Sembra sapere in anticipo dove colpirà il suo avversario. E quasi nemmeno ce ne accorgiamo, quando rintuzza gli attacchi altrui, ridimensiona la portata del tennis avversario. Ci sono tante lezioni di Novak Djokovic, in questa efficacia platealmente anti-spettacolare. «Too strong. Too fast», «Troppo forte, troppo veloce», ha detto Nole a fine partita in riferimento a Sinner.
Non è stata una grande partita, come del resto gli altri confronti Sinner-Djokovic più recenti. Da quando l’inerzia della rivalità è cambiata, Nole non sembra più trovare il modo di esprimere ad alti livelli se stesso contro Sinner. In Coppa Davis, agli Australian Open, è sembrato smarrito e spento. Stranamente senza risposte.
C’è qualcosa di molto profondo, in questo; perché è il contrario di quanto gli succede con Alcaraz. Se gli scontri con lo spagnolo sembrano ringiovanirlo, al contrario le partite con Sinner lo fanno invecchiare di ere geologiche. Il tennis di Alcaraz lucida delle corde di Djokovic che forse, lui, sentiva sopite. Si gode il cortocircuito stilistico, ama la battaglia di tennis all around che viene fuori - e che abbiamo ammirato da spettatori a Londra, a Cincinnati, a Parigi. Un classico arrivato fuori tempo massimo. Quelle partite lo fanno sentire vivo, lo fanno sentire ancora attuale.
Le recenti partite con Sinner invece mostrano l’invecchiamento di Djokovic, la sua obsolescenza. Si trova di fronte il muro di gomma che sul campo da tennis ha inventato lui. Sinner lo costringe a giocare non col tennis brillante e completo che Djokovic ha imparato a fine carriera, ma con quello brutale e autoritario con cui lui ha dominato il circuito per anni. Il tennis solido, efficiente, maligno, con cui lui ha vinto le rivalità con Nadal, con Federer, con Murray. Il tennis su cui ha innalzato la sua serie di record immani e spaventosi. Il tennis con cui è diventato il più grande della storia. Un tennis di controllo, edificato sull’impenetrabilità nello scambio da fondo campo. Un tennis con cui ci sembra barare, o che ci sembra fondato su un trucco - perché tutta la sua forza è nascosta delle pieghe, lontane dagli occhi. Un tennis dell'economia pura, che non concede niente di niente al superfluo.
Non un sorriso ma una lieve increspatura dei muscoli facciali per Ivan Drago.
Alcaraz sta nobilitando il fine carriera di Djokovic. Gli ha permesso di giocare match che hanno rafforzato la sua legacy. Sinner invece glielo sta guastando un pochino. Cosa c’è di più mortificante, che vedere una versione di sé più giovane riuscire in cose che a noi non riescono più? Niente ci restituisce meglio l’idea del tempo che passa, che il mondo ci sopravviverà. Nel 2024 Djokovic ha giocato 6 set contro Sinner, e non è riuscito a ottenere nemmeno una palla break.
Durante la premiazione di Shanghai, Djokovic ha interpellato Federer, seduto in tribuna nelle ormai vesti di ambasciatore del capitalismo globale: «È la prima volta che gioco con te presente nel pubblico e non in campo». Pochi giorni fa si è ritirato il più grande rivale di Djokovic, Rafael Nadal, con cui ha condiviso il campo 60 volte. «Se ne è andato un pezzo di me», ha commentato Nole, e bisogna credergli nel senso più profondo. Col ritiro di Rafa, non può essere più la stessa persona. Nel tennis si è fatti dei pezzi degli altri giocatori. In Australia Nole andrà alla caccia del suo centesimo titolo, a Wimbledon proverà a scrivere ancora la storia, con un tutore al ginocchio sempre più vistoso, venendo a capo di una fatica crescente nei movimenti, di una lucidità mentale sempre più appannata.
Dovrà scavare ancora più in profondità per trovare ciò che è davvero irriducibile del suo talento tennistico, ormai ultimo fantasma rimasto di un tempo passato.