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La situazione paradossale del calcio in Venezuela
05 feb 2019
Come si sono mischiati calcio e politica in Venezuela negli ultimi anni, fino al Sudamericano Sub20 di questi giorni in Cile.
(articolo)
14 min
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Mancano pochi minuti alla fine della partita tra Cile e Venezuela, seconda giornata del Sudamericano Sub20, e la “Vinotinto” è in vantaggio per 2-1. Il cileno Nicolás Díaz affonda sulla fascia sinistra e sta per crossare, quando Pablo Bonilla, il laterale basso venezuelano, con un tackle deciso, senza esitazione, gli sradica il pallone mandandolo in calcio d’angolo. Mentre retrocede verso il centro dell’area, Bonilla non sembra provocare Díaz in nessun modo: eppure il cileno ha una fiammata di rabbia incomprensibile, viscerale; gli grida «muerto de hambre», morto di fame, due volte. Bonilla non risponde. Incassa il colpo, con l’espressione di chi pensa a come potertela rendere, alla prima occasione possibile.

Il fatto in sé non sarebbe poi così eclatante: stiamo parlando di giovani sotto i vent’anni, istintivi e immaturi. In effetti, come tale viene elaborato l'episodio sia da Díaz, che all’indomani si scusa, che da Bonilla, che metabolizza quelle scuse con una naturalezza che a molti sembra signorilità o addirittura umiltà. A gonfiarne la portata, a rendere necessario che le scuse di Díaz vengano veicolate anche dai social della Federazione cilena, è ovviamente il contesto politico: il Venezuela è un Paese al collasso, alle prese, da due anni in maniera più cruda, con iperinflazione e aumento vorticoso del numero di cittadini che vivono al di sotto della soglia di povertà.

Un insulto come «morto di fame», in questo contesto, pesa molto di più di quel che significa letteralmente.

La crisi del Venezuela non è solo economica ma anche umanitaria: negli ultimi tre anni un milione e mezzo di cittadini venezuelani sono stati costretti ad emigrare, per via delle difficoltà economiche o della repressione del regime di Maduro, diventando una tematica - quando non un problema - anche per gli stati confinanti e non, incluso ovviamente anche il Cile.

Il primo sentimento che trova terreno fertile in questo humus è di conseguenza quello della xenofobia, e le parole di Díaz dimostrano quanto poco basti per andare in quella direzione.

Parallelismi

Giocare a calcio in un Paese così in difficoltà è complicatissimo, e lo è ancor di più concentrarsi sulla programmazione e lo sviluppo dei settori giovanili. Le infrastrutture sono inesistenti, e sarebbe anche il minimo dei problemi: manca proprio il cibo. Per questo la migrazione viene spesso vista come l’unica navicella che permette di risalire la scala sociale. Talenti promettenti, a quattordici, quindici anni si vedono costretti a lasciare il Venezuela per andare a lavorare, non sempre a fare i calciatori, ammesso che un lavoro lo trovino.

Eppure, paradossalmente, il calcio giovanile venezuelano sta vivendo in questo periodo storico una specie di età dell’oro. Guidati da Rafael Dudamel, figura quasi mitica della “Vinotinto” - uno dei calciatori più importanti della sua storia e da tre anni tecnico sia della Nazionale maggiore che dell’Under 20 - i venezuelani sono arrivati a un passo dal titolo Mondiale, nel 2017, sconfitti in finale dall’Inghilterra, e sono oggi impegnati nel Sudamericano dove, un po’ a sorpresa, hanno dominato il loro girone, davanti alle più quotate Brasile e Colombia.

A memoria non si ricorda un Sudamericano Sub20 così politicizzato. Già nella seconda partita, Bolivia contro Cile, il giovane boliviano Ramiro Vaca ha esultato per il suo gol mimando il gesto di un nuotatore, rinfocolando le fiamme di una querelle che dura da due secoli, cioè da quando il Cile vinse la cosiddetta Guerra del Pacifico dopo la quale la Bolivia perse definitivamente il suo unico sbocco al mare. Un gesto politico che si è guadagnato l’endorsement anche del presidente boliviano Evo Morales.

Più in generale, sembra esserci una strana contiguità tra le vicessitudini che riguardano la “Vinotinto” più giovane e l’instabile vita politica attuale del Venezuela, un legame che si acuisce nei momenti di maggior successo calcistico, o viceversa di crisi politica più profonda.

Il 16 Gennaio, cinque giorni dopo l’inizio del secondo mandato di Maduro come presidente del Venezuela e dodici ore prima dell’inizio del Sudamericano Sub20, un gruppo di militari dissidenti ha dato vita a un tentativo abbozzato di colpo di stato.

Il 23 Gennaio, poco prima che il Venezuela scendesse in campo per l’ultima partita del girone contro la Bolivia, Juan Guaidó, il Presidente del parlamento venezuelano, si è autoproclamato Presidente della Repubblica dopo una serie di imponenti manifestazioni di piazza, minando il potere costituito e innescando un effetto domino di riconoscimenti che potrebbe portare al definitivo collasso della crisi del paese.

Da quel momento in poi le due situazioni sono sembrate andare in parallelo, e adesso la “Vinotinto” è al quarto posto del girone finale (dopo la netta vittoria con il Brasile e l'altrettanto netta sconfitta con l'Argentina), con 4 punti e solo 3 di distanza dalla prima (l'Uruguay); mentre la crisi del regime di Maduro è arrivata al punto in cui si parla seriamente di un possibile intervento armato degli Stati Uniti. E non è la prima volta che i destini di calcio e politica, in Venezuela, si trovano così aggrovigliati.

Una favola senza lieto fine

Il momento di maggiore instabilità del governo Maduro, prima del 23 gennaio di quest’anno, è stata la primavera del 2017. In quel momento l’inflazione aveva raggiunto il 700%; il 70% della popolazione viveva con meno di due pasti al giorno e il tasso di mortalità infantile aveva raggiunto il 30%. Maduro, nel marzo di due anni fa, aveva fatto dichiarare alla Corte Suprema (guidata dai suoi sostenitori) che l’attività del Parlamento «disprezzava» le leggi dello Stato, e aveva indetto un’Assemblea Costituente per stendere il nuovo testo costituzionale. Alla minaccia da parte del Parlamento di indire un referendum contro il progetto della Costituente, gli scontri si erano fatti assai violenti. Alla fine dell’estate, si sarebbero contati 165 morti, e 15mila feriti.

Tra la fine di maggio e i primi di giugno 2017, il Venezuela Under 20 era in Corea del Sud per disputare il Mondiale di categoria. Qualche settimana prima, il dissenso si è affacciato anche sui campi di calcio. I giocatori del Deportivo Lara e del Deportivo Anzoátegui, nonostante il parere contrario della Federazione, hanno tributato un minuto di silenzio alle vittime della repressione governativa sui manifestanti.

«Queste persone sognano solo un paese diverso», ha dichiarato in quei giorni Vicente Suanno, calciatore del Caracas FC, «un paese dove l’attaccante la può anche pensare diversamente dal terzino destro, ma senza che venga compromessa la possibilità di mettere in mezzo il pallone migliore e fare gol per festeggiarlo tutti insieme», utilizzando una metafora calcistica (non sarà il solo).

I calciatori del Caracas FC invece hanno espresso il loro dissenso stendendo una bandiera venezuelana con la testa in giù.

Ovviamente, contro la repressione in atto nel Paese si sono schierati, con una forza acuita dalla lontananza (anche dalle possibili ripercussioni), tutti i calciatori espatriati, soprattutto quelli più famosi e di successo: Rosales, Vizcarrondo, Rondón e Miku hanno sottoscritto un appello, dal titolo abbastanza chiaro e netto: “Basta Ya”, cioè “Adesso basta”.

In questo senso, la traiettoria di quella selezione Sub20 nel Mondiale di categoria è quanto di più vicino a una favola, anche se senza il lieto fine, e senza l’atmosfera onirica di una favola. Mentre i giovani venezuelani sconfiggevano avversari più quotati, diversi loro coetanei morivano negli scontri di piazza. «Dio solo sa cosa succedeva mentre Sosa calciava quella punizione», ha detto José Rafael Hérnandez riferendosi alla punizione che ha regalato, a tempo scaduto, il pari nella semifinale con l’Uruguay (la “Vinotinto” avrebbe poi vinto ai rigori, accedendo alla prima finale della sua storia), pensando probabilmente al giovane Neomar Lander, diciassettenne proprio come Sosa, ucciso a Caracas nello stesso giorno durante una marcia di protesta.

«Questi ragazzi hanno conquistato il nostro cuore dimostrandoci cosa dovrebbe fare la gioventù: praticare uno sport, esprimersi in pace», aveva detto Maduro dopo questa vittoria epica, dimostrando di saper manipolare il linguaggio universale del calcio a fini politici.

Rafael Dudamel, prima che un tecnico preparato e carismatico, dà l’impressione di essere una persona di princìpi, oltre ad essere coerente e intelligente. Anziché abbracciare pieno d’orgoglio l’endorsement governativo, in quei momenti di grande soddisfazione ha avuto il polso di rispondere per le rime, lanciando un appello diretto alla conciliazione. «Presidente, riponiamo le armi. L’unica cosa che vogliono questi ragazzi che scendono in strada è un Venezuela migliore. Che rida, che sorrida, che sappia godersi la vita». «Oggi un ragazzo di 17 anni ci ha dato una gioia, ma ieri ne è morto uno della stessa età».

La finale non è andata bene: Peñaranda (ex Udinese, al momento al Watford) ha fallito il rigore del possibile pari e la “Vinotinto” è uscita sconfitta. Una disfatta non solo per il Venezuela Under 20 ma anche per gli attori politici della crisi del paese, a partire da Maduro, che probabilmente avrebbero utilizzato la portata simbolica della vittoria come un’arma a loro disposizione. D’altra parte, ogni politico che si rispetti sa che il calcio è uno strumento di unificazione ben al di là dell’accezione positiva dei valori che veicola. Che è una potente metafora, un meccanismo di semplificazione di concetti più complessi.

«Vi immaginate, ragazzi e ragazze, se nella squadra del Venezuela quattro giocatori facessero barricate (utilizza, in realtà, il termine “guarimba”, la tecnica di protesta non violenta più utilizzata dai dissidenti) e passassero il pallone alla squadra avversaria? È impensabile! Però provate a immaginare cosa potrebbe succedere se un gruppo si vendesse la partita e cominciasse a farsi autogol», dice Maduro all’indomani della sfortunata sconfitta della Vinotinto nella finale.

Per il momento del ritorno in patria, Maduro aveva concordato coi vertici federali una celebrazione al palazzo presidenziale di Miraflores. Ma i calciatori, Dudamel e il suo staff si sono rifiutati di posare con il presidente, ufficialmente per non asservire il loro successo alla propaganda del regime chavista.

Fútbol e chavismo

E dire che tra tutti i capi di stato populisti che si sono avvicendati in America Latina, forse Chávez, predecessore e mentore di Maduro, è quello che meno si è interessato al calcio, almeno inizialmente.

Amante del baseball, che in Venezuela è il vero sport nazionale, nondimeno ha capito subito che il calcio sarebbe stato il grimaldello con il quale penetrare nei cuori della popolazione, il potente strumento propagandistico che ha sempre dimostrato di essere altrove. Perché non avrebbe dovuto funzionare come mortaio per la Rivoluzione Bolivariana?

Foto di Daniel Garcia / Getty Images

Anche l’amicizia con Diego Armando Maradona può essere letta in quest'ottica. Farsi ritrarre al fianco di quello che da molti viene giudicato il miglior calciatore della storia, di certo una delle figure più iconiche di sempre, è stato forse più utile a Chávez di quanto non lo sia stato a Maradona: mentre Diego faceva sua una delle lotte anticapitaliste, anti-potere, portate avanti con sempre più convinzione - e meno lucidità - nell’ultimo decennio della sua vita, il leader ne guadagnava in consensi e carisma. Quando i due si sono incontrati per la prima volta, sembra che Chávez abbia detto a Maradona: «abbiamo qualcosa in comune, noi due. I giornalisti ci detestano».

Il capolavoro di commistione tra chavismo e fútbol, però, è stata l’organizzazione della Copa América 2007. Il governo quell’anno investì quasi duecento milioni di dollari nell’organizzazione dell’evento, costruendo tre nuovi stadi, migliorando i servizi di trasporto e comunicazione. Rifacendo, di fatto, il trucco al Paese. Non fu un’edizione memorabile, marcata da stadi quasi deserti; eppure, in quel momento, la “Vinotinto”, e il calcio tout court, divenne popolare.

Dal 1999, anno in cui ha preso il potere Hugo Chávez, il Venezuela ha scalato più di settanta posizioni nel ranking mondiale della FIFA. Solo un obiettivo non è mai stato alla portata del chavismo: riuscire ad assistere alla qualificazione a un Mondiale.

In compenso, il sostegno di Maradona non è mai venuto meno, neppure dopo il passaggio di consegne tra Chávez e Maduro, avvenuto dopo la morte del primo nel marzo del 2013.

Generazione Duemila

«Disgraziatamente il Venezuela continua a essere un paese sottosviluppato in quanto a formazione o educazione. Manca il processo», dice Richard Páez, DT della Vinotinto dal 2001 al 2007. «Non ci sono settori giovanili che lavorano di concordo, alcuni non sono neppure competenti». «Lavorare coordinati è già pensare in grande, ma bisognerebbe essere almeno al passo coi tempi, formati, preparati. E invece i giocatori migliori continuano a formarsi da soli».

Molti dei giovani che sono in squadra oggi nella Under 20, o che lo erano nel 2017, sono nati a cavallo degli anni 2000. Cioè negli anni in cui il calcio è diventato famoso in Venezuela, in cui le emittenti hanno cominciato a trasmetterlo in TV, in cui i ragazzini hanno iniziato a capire che se un Mondiale potevi vederlo, magari potevi anche sognare di giocarlo.

Molti hanno scelto di emigrare per formarsi, per provare a ricreare almeno i presupposti per diventare un calciatore. Nella “Vinotinto” che sta disputando il Sudamericano in Cile ci sono 8 giocatori che militano all’estero: il numero più alto, insieme all’Uruguay. Una statistica che se da una parte è eloquente dello stato in cui verte il calcio locale venezuelano, dall’altra lascia ben sperare per il futuro. Le loro sono storie di fughe, paura di tornare, voglia di aiutare chi non ce l’ha fatta ad andarsene.

Uno dei casi emblematici è quello di Samuel Sosa.

Cresciuto in un background di assoluta povertà, dopo aver esordito nella massima serie locale a 16 anni ha scelto di emigrare in Argentina un anno fa, appena compiuti diciotto anni, per accasarsi al Talleres di Córdoba. L’Argentina è una delle destinazioni principali del flusso migratorio venezuelano: negli ultimi tre anni 70mila persone hanno attraversato i confini rioplatensi, e nel primo semestre del 2018 sono cresciuti fino a costituire un quarto degli immigrati che risiedono in Argentina.

«Però non parlerò mai male della mia Nazione», dice Sosa oggi. «Perché il Venezuela andrà avanti. Io sono stato fortunato abbastanza da potermene andare, e ringrazio Dio per questo, ma c’è gente che mi è vicina, che non può venire via, che sta soffrendo».

Sempre Sosa: «Là ci sono ancora i miei genitori. Vivono nei dintorni di Tocuyito (dove ha sede uno dei penitenziari in cui vengono rinchiusi i dissidenti, nda), vivono una vita molto modesta: per adesso tirano avanti con i soldi che riesco a inviargli. Spero di potermeli portare qua, tra un paio di mesi».

In Argentina gioca anche Jan Hurtado, una delle sorprese più impressionanti, autore di una doppietta nella storica vittoria con il Brasile. Quando non ha rinnovato il suo contratto con il Deportivo Táchira, che lo pagava 40 dollari al mese, il club ha accusato suo padre di volerlo portare via dal Paese ancora minorenne. La Federazione ha preso in esame il caso, dato ragione al club, comminato al giocatore una sanzione di stop per un semestre. Terminato il quale, Hurtado è fuggito a La Plata, per giocare con il Gimnasia.

Chi questo Sudamericano invece non lo sta giocando, è Alejandro Marqués, uno dei prospetti più interessanti del calcio giovanile venezuelano, che si sta formando nella Masia del Barcellona. Il padre non gli ha permesso di tornare in Venezuela, temendo per la sua incolumità.

Testimoni e partecipi

Ciò che è certo è che mentre in Cile i giocatori della “Vinotinto” stanno scrivendo un’altra pagina di storia del calcio venezuelano, nel loro Paese il presente gli sta sfuggendo da sotto i piedi.

Lo scorso primo febbraio, all’indomani della vittoria contro il Brasile e nel ventennale della prima elezione di Chávez, nuove manifestazioni di piazza hanno riempito le vie della capitale e dei principali centri: i sostenitori di Maduro hanno sfilato contro i “golpisti”, quelli di Guaidó, per chiedere nuove elezioni. Elezioni che Maduro ha detto di essere intenzionato a indire: non per la presidenza, però, ma per rinnovare il Parlamento, cioè di fatto, l’organo principale che lo osteggia.

Nella conferenza stampa successiva alla partita del 23 Gennaio, alcuni giornalisti cileni hanno chiesto a Dudamel cosa ne pensasse di alcuni cori che sarebbero giunti dallo spogliatoio della “Vinotinto” dopo la vittoria con la Bolivia. Cori che recitavano «Va a caer, va a caer» (cioè «Sta per cadere, sta per cadere»), che molti hanno pensato fossero diretti al governo di Maduro.

Dudamel non si è esposto, preferendo mandare un messaggio ufficiale di conciliazione: «La situazione politica del paese è un impulso, per i nostri, perché vogliamo dare allegria ai venezuelani. Vogliamo che il paese sia unito, calmo, in pace. E quando gioca la Vinotinto è un buon momento per stare uniti».

Nella risposta, apparentemente molto democratica, che Dudamel rende al giornalista cileno sulla questione dei cori sembra quasi scorgere una vena di coinvolgimento emotivo, di certo non una condanna. «È una questione delicata. Se hai le registrazioni, però, ti invito a diffonderle. Mi sembra qualcosa di forte».

Appropriazioni trasversali.

Non sappiamo quanto lontano riuscirà a spingersi l’Under 20 venezuelano in questo Sudamericano. Però sappiamo che costituirà le fondamenta della “Vinotinto” che nel 2022 potrebbe giocare il suo primo Mondiale.

Chi sarà il presidente che gli consegnerà la bandiera a Palacio de Miraflores prima della partenza per il Qatar, oggi, è però la variabile più complicata da prevedere.

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