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Il Six Kings Slam è un incubo persino peggiore di quanto pensassimo
17 ott 2024
17 ott 2024
In Arabia Saudita lo sport sta mostrando la sua faccia più noiosa.
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Jannik Sinner è un principe del rinascimento megalomane. Indossa abiti sfarzosi e, in piedi in una sala piena di marmi, scolpisce una statua di se stesso tirandoci sopra una pallina da tennis. Carlos Alcaraz è un fremen del deserto; un soldato che combatte in tuta metallica, il suo strumento è una racchetta senza corde ma con un’intelaiatura al neon. È costretto a sfidare statue di vetro che hanno preso vita da un dipinto di De Chirico; quando i suoi colpi le perforano cadono a terra in mille pezzi. Holger Rune ha il trucco pesante e comanda un Drakkar vichingo. La sua racchetta manda scariche elettriche. Daniil Medvedev gioca a tennis sul dorso di un Grizzly; Rafael Nadal è un uomo gigante di terracotta; Novak Djokovic è un eremita pazzo che vive tra i lupi nella taiga russa come quelli raccontati da Herzog in Happy People. Tutti si lanciano palline da tennis elettriche o infuocate, che poi convergono su un campo da tennis in cui le righe sono incendiate.

Questo grossolano film Marvel creato da un’intelligenza artificiale era il pomposo trailer del Six Kings Slam, il grande torneo di tennis organizzato dall’Arabia Saudita e dal fondo PIF. La mossa con cui la monarchia del golfo vuole entrare in modo deciso nel tennis, uno degli sport in cui la sua avanzata è stata più faticosa - nel grande progetto Saudi Vision 2030. Un’interesse recente e in ritardo rispetto ad altri paesi del Golfo in cui ci sono già tornei ATP e WTA importanti. Un’interesse che ha uno scopo ormai palese e diventato banale ai nostri occhi, quello dello sportwashing. Uno di quei termini che continuiamo a maneggiare senza più fare caso a cosa significhino.

L’idea dell’Arabia Saudita - così come quella del Qatar - non è quella di mostrare un’immagine pulita e avanzata, che riesca a coprire le macchie dei propri regimi illiberali. L’interesse è l’esibizione del proprio potere; dimostrare che i propri soldi possono comprare più o meno tutto, e quindi bisogna ascoltarli. L’Arabia Saudita può manomettere una delle grandi ossessioni occidentali, lo sport, disfarne il calendario, minacciarne la dimensione che più dà allo sport occidentale il suo senso, ovvero la sua storia. Per il tennis, stiamo parlando di uno dei circuiti più conservatori ed esclusivi nel panorama dello sport mondiale.

Per ironia, l’Arabia Saudita è riuscita a vincere l’assegnazione delle WTA Finals, l’evento di fine anno del tennis femminile che già non gode di buona salute e che ora verrà organizzato in uno dei Paesi che meno rispetta i diritti delle donne. Martina Navratilova e Chris Evert hanno scritto una lettera al Washington Post per opporsi a questa assegnazione. È proprio attraverso questa contraddizione che il messaggio è passato: con i nostri soldi possiamo comprare tutto, anche un torneo femminile che vedrà protagoniste atlete che si sono esposte per i diritti delle donne - come Coco Gauff o Danielle Collins. Come riportato dal Telegraph, l’Arabia Saudita avrebbe fatto un’offerta per sponsorizzare un circuito unificato tra uomini e donne.

Sul versante maschile ci sono state le Next Gen ATP Finals (un laboratorio della ATP in cui i giovani vengono usati come cavie), si attende il 2027 per un Master 1000 e si punta allo Slam.

Per ora la monarchia si è dovuta accontentare di organizzare da sé il proprio Slam, lo Slam “dei 6 re”, che sarebbe quello che stiamo vedendo in questi giorni. Mentre è in corso il torneo di Anversa e quello di Stoccolma, nell’elegante stagione indoor dell’autunno europeo, l’Arabia Saudita ha convinto i sei migliori giocatori al mondo - diciamo cinque più Rune - ad andare a giocare al proprio evento. Il modo in cui ci è riuscita non è molto sottile: un assegno minimo di 1,4 milioni di euro per la sola partecipazione. Un premio di 5,5 milioni di euro riservato al vincitore. Calcolando che si tratta di un torneo a sei, i giocatori sono stati ingaggiati per un massimo di tre partite due set su tre. Per fare un confronto, agli Australian Open Jannik Sinner ha dovuto giocare e vincere 7 partite 3 set su 5 per ricevere un assegno di due milioni, solo seicentomila in più di quelli che riceverà Holger Rune dopo aver giocato un’oretta contro Alcaraz. Daniil Medvedev, che ha perso in 68 minuti da Sinner, ha guadagnato 21mila dollari al minuto.

Ma cosa stiamo guardando? Il problema di questo tipo di operazioni, è che investimenti enormi finiscono per partorire spettacoli scadenti. Come era ampiamente immaginato, anche questo Six Kings Slam è un incubo. Un prodotto mediocre in un modo che va leggermente oltre le aspettative, e che sembra dire qualcosa su queste operazioni che stiamo vedendo sempre più spesso.

I giocatori entrano in un campo annegato nel buio. Una grande sala operatoria che si può osservare dietro un sipario tirato dall'oscurità, dove i due tennisti si operano a vicenda nella solitudine. Il campo in cui giocare per la propria sopravvivenza in uno Squid Game a tema tennis scritto dall’algoritmo di Netflix. L'ingresso dei giocatori è anticipato da grossi ologrammi di loro stessi. Se a fine partita uno dei due morisse non ci stupiremmo più di tanto. La pallina sulla racchetta rimanda un rumore gelido, il campo è di ghiaccio, velocissimo. La telecamera sale a volo d’uccello, schiacciando la prospettiva del campo. Tra la velocità e l’altezza, è praticamente impossibile vedere la pallina, bisogna intuirla. Se si cade per un attimo sovrappensiero, rischiamo di trovarci di fronte uno spettacolo simile alla partita di tennis immaginata nel finale di Blow Up. Tra un punto e l’altro, ogni tanto, si sente applaudire dall’oltremondo esterno al campo. Riusciamo a intravedere solo le raccattapalle con le gambe rigorosamente coperte, e alcuni sponsor così ricchi che non riusciamo nemmeno a riconoscerli - perché i soldi più calano dall’alto e meno sono riconoscibili. È uno spettacolo che ormai sembra poter fare direttamente a meno del pubblico, anche solo come contorno simbolico, anche solo come decorazione funzionale. È una piccola accelerazione del presente rispetto all’estetica già distopica delle ATP Finals.

Di questa inquadratura si sta parlando molto, perché in effetti non si vede niente, e ci sembra in qualche modo significativo, che sforzi finanziari così grandi possano essere compromessi da un errore così banale, la base: non saper inquadrare nemmeno un campo da tennis. Come se il regista fosse stato messo lì a riprendere una cosa che non aveva mai visto in vita sua, e quindi non sa rispettare nemmeno il canone minimo richiesto per rendere una partita fruibile. È sembrato il sintomo che i soldi possono comprare tutto, ma non la capacità minima di saper inquadrare un campo. In realtà mi pare sintomo soprattutto di un vago disinteresse che c’è stato nel creare uno spettacolo all’altezza. Forse perché non era quella la cosa importante; anzi, forse era proprio la meno importante.

L’impressione è che sulla promozione dell’evento sia stata messa più cura che non nella sua creazione e trasmissione, come se davvero fosse più importante dimostrare che l’evento c’era, che si stava tenendo, che poi l’evento in sé, di cui può non fregare niente a nessuno. Sono stati convinti a giocare i tennisti più di successo del pianeta come se fossero influencer, e probabilmente nel loro contratto c’era anche l’obbligo a parlare in modo positivo dell'esperienza. Non ci stupiremmo, visto che questo tipo di clausole esistono nei contratti dei calciatori trasferitisi in Saudi League. Ma non ci stupiremmo nemmeno del contrario: i tennisti sono profondamente allenati a tessere le lodi di chi li paga. E sono perfettamente a proprio agio nei non luoghi del pianeta; Federer definì Abu Dhabi "casa". Era sincero.

Dentro interviste più lunghe delle partite stesse, abbiamo ascoltato Alcaraz dire: «Mi sono goduto ogni secondo passato su questo campo» e Sinner, ancora più politico: «Avevo voglia di venire qua, è un posto speciale» e poi «Tutte le persone sono molto amabili, l’atmosfera è stata fantastica». Niente di non convenzionale, ma è stato comunque un po’ strano parlare di grande atmosfera per quel campo gelido, così plastificato che Medvedev non è riuscito nemmeno a romperci la racchetta sopra. A fine partita magari voleva dimostrare che ci teneva veramente, a quel match che stava perdendo senza opporre alcuna resistenza.

Non voglio parlare di motivazioni, perché sono un argomento fragile. Quanta voglia avevano questi tennisti di giocare queste partite, quanto ci tengano, non possiamo davvero saperlo. Possiamo dare per scontato che a quei livelli non vuoi mai perdere una partita contro avversari così importanti, perché c’è un pubblico che ti guarda e perché non sei disposto a concedere alcun vantaggio psicologico per un’eventuale vittoria. In più c’è il discorso economico, che sta alla base di tutto.

La prospettiva va girata dalla nostra parte: quanta voglia avevamo noi di guardare queste partite?

Le semifinali saranno Djokovic-Sinner e Nadal-Alcaraz, due partite insostenibili da guardare per motivi diversi. La prima perché i due hanno giocato pochi giorni fa, in un contesto decisamente più prestigioso come la finale di un Master 1000. La seconda perché uno scontro generazionale del genere, l’ultima sfida tra Alcaraz e Nadal, avrebbe bisogno di una cornice più nobile, in grado di far risuonare la partita in tutti i suoi significati. In un match in cui in ballo ci sono solo e soltanto i soldi, il loro confronto non solo perde di senso, ma diventa persino volgare.

Entrambi questi motivi ci parlano di alcune direzioni che sembra voler prendere lo sport in quest’epoca tardo-capitalistica. Da un lato il rischio di saturazione, a far incontrare troppo spesso i migliori tennisti del circuito questi perderanno la loro aura. Quello della saturazione è un rischio a cui il tennis va incontro per natura, e sempre di più con l'infoltimento del calendario, ma è un rischio da cui deve guardarsi bene per non mangiarsi dall’interno. Le grandi partite sono tali in quanto eventi.

Dall’altro lato il Six Kings Slam ci mostra che le partite di questi tennisti, prese da sole, non sono una garanzia di un intrattenimento d’alto livello. È ciò che sta intorno alle partite - la storia che le circonda, la posta in palio, i significati storici - a creare lo spettacolo. A rendere ciò che guardiamo qualcosa in più di una semplice partita di tennis. Uno sport così geloso della propria storia e dei propri riti dovrebbe saperlo bene. Quest'epoca d'oro dell'intrattenimento nasce dall'incontro felice tra sistema economico e tecnologico attuali, e la storia profonda di questi sport - che fa parte dell'appeal dei prodotti.

L'impressione però è che non ci si voglia fermare di fronte a questo equilibrio trovato miracolosamente. L'impressione è che nessuno si voglia fermare, a costo di sfasciare tutto.

Senza ipocrisie, accettiamo tutti che questi atleti vengano pagati molto per offrirci il loro spettacolo. C’è un punto oltre il quale, però, la componente economica diventa troppo visibile e finisce per inquinare il nostro sentimento. Tornei come il Six Kings Slam ce lo mostrano chiaramente.

Rafael Nadal giocherà non solo una delle ultime partite contro Alcaraz, ma si è impegnato come ambasciatore della federazione di tennis dell’Arabia Saudita. Un contratto che gli è costato diverse critiche in Spagna, soprattutto perché Nadal rappresenta certi valori che si presumeva non potessero essere negoziati. Nadal che una volta disse «noi giocatori siamo meno importanti dei tornei che giochiamo», una frase che sintetizza la nobile solennità con cui i tennisti professionisti guardano al proprio sport.

Accettiamo tutti che questi atleti già ricchi vogliano diventare sempre più ricchi, ma c’è un punto oltre il quale il loro desiderio di ricchezza diventa così sfrontato e ottuso da farci perdere parte del rispetto e della fascinazione che nutriamo verso di loro. Se Nadal è disposto a rischiare la propria reputazione per qualche milione in più - dopo aver guadagnato, solo di prize money, 135 milioni di dollari in carriera - allora torna a essere solamente un tennista. Rischiamo di arrivare a un punto di rottura del nostro rapporto con lo sport come forma d’intrattenimento e con gli sportivi come idoli. La ricerca della crescita finanziaria infinita, il minimizzare l’importanza di tutta la dimensione emotiva che dà carne allo spettacolo, rischia di far cadere la grande illusione che ci tiene attaccati allo sport.

Il Six Kings Slam vuole convincerci a provare emozioni di fronte a tennisti che si affrontano tra loro in un campo asettico eretto in un deserto post-apocalittico. Vuole convincerci che ci possiamo appassionare anche a un torneo progettato da un’intelligenza artificiale. Vuole sostenere che il tennis si potrebbe giocare anche su Marte, in un torneo organizzato nel giardino della villa marziana di Elon Musk. Vuole dirci che possiamo goderci lo spettacolo di esseri umani molto ricchi che si sfidano per diventare ancora più ricchi, e nulla più. Cowboy cinici alla fine della storia. O magari ci dice di credere ancora all’illusione che ci sia qualcosa dietro ai soldi, che tutto l’evento esibisce modo sfacciato; ci dice di non farci caso, di goderci lo show. Eppure non ce la facciamo.

Oppure il Six Kings Slam non vuole convincerci nemmeno di questo, e se ne infischia di cosa ci piace e di cosa non ci piace. Mette una telecamera come capita, butta i tennisti famosi su un campo tutto “smarmellato” e se non ci piace non è importante. Il piano è stato già compiuto, lo sport ha già servito i suoi scopi.

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