Da bambino ho avuto un sogno ricorrente, come tutti. Anzi, era un incubo, di quelli che si trovano – scritti benissimo – nei racconti di Michele Mari. Mi giravo e cadevo dal letto, ma non toccavo terra: il pavimento spariva. Per non precipitare, correvo. Si aprivano buche, fossi, voragini. Sparivano le mattonelle, spariva il marmo delle scale. Saltando, arrivavo in strada ed ecco sparire il marciapiede, via le strisce pedonali, via l’asfalto. Precipitavo, mi arrendevo al vuoto, mi svegliavo esausto. Dev’essere per questo che per un sacco di anni non ho sognato più nulla, anzi, non ho ricordato più i sogni, li temevo. Di recente, ho sognato mio padre che correva in tuta blu, una cosa bella che non ha mai fatto in vita sua.
Ci sono però due parti della mia vita in cui sono stati molto presenti i sogni intorno al pallone (strano, no?), due fasi importanti entrambe collegate, manco a dirlo, a Maradona. Scusate, sono una persona banale, che sogna cose banali. La prima fase di quei sogni riguarda gli anni Ottanta, quelli migliori di Diego nel Napoli, la seconda – più recente – riguarda quest’ultimo anno. Come se la cosa sognata, riguardante me e Diego, fosse sparita quando è andato via da Napoli e ritornata, richiamata dalla sua morte. I sogni degli anni Ottanta reclamavano partecipazione, mi vedevano in campo a giocare al San Paolo, artefice del gioco e delle vittorie. I sogni di questi ultimi mesi vengono a colmare un’assenza, sanno di una malinconia che di giorno sarebbe difficile da spiegare. Sanno di preghiera.
È il 1987, il Napoli sta per scendere in campo contro il Milan, è una partita molto importante. Il ricordo è un po’ confuso ma dovremmo essere a metà del girone di ritorno. Bianchi mi convoca dalla Primavera: in prima squadra ci sono troppi infortunati. Alla fine del primo tempo, il Milan è in vantaggio per 2-1 al San Paolo. La partita fino a quel punto è stata bella e combattuta, aspra (col suono della voce di un radiocronista del tempo), Giordano si è infortunato e non può rientrare. Bianchi mi guarda, mi dice che tocca a me. Mi tremano le gambe, cado sulla panca degli spogliatoi, non riesco a muovermi. Maradona mi si siede accanto e mi dice: «Qual è la cosa bella che ti ricordi?» Io lo guardo e dico: «La cosa bella è un sogno che ho fatto in cui tu scarti due avversari sulla fascia sinistra, fai una giravolta e poi di tacco me la passi al centro dell’area. A quel punto chiudo gli occhi e calcio forte, capisco che ho segnato dal boato del San Paolo». Diego sorride «È un bellissimo sogno, alzati che oggi lo facciamo uguale uguale. Muoviti che dobbiamo vincere». Mi alzo dalla panca suona la sveglia.
È la settimana scorsa, sogno di entrare alla Bombonera. Lo stadio è vuoto, c’è tutto il giallo e il blu che acceca la vista. Al centro del campo c’è un altare, sull’altare un pallone. Mi avvicino, lo sfioro, mi faccio coraggio e lo prendo con entrambe le mani. Sul pallone c’è scritto Diego ti protegge, rido è un sogno assurdo questo. Mi guardo di nuovo intorno, dagli altoparlanti esce la voce di Maradona che ripete il discorso fatto nella sua partita d’addio, poi prosegue. «Non ti ho mai lasciato niente, puoi prendere quel pallone. L’immaginazione non finisce, lo spazio non si restringe. Bisogna continuare a sperare. Prendi il pallone». Torna il silenzio, dagli spogliatoi esce un vecchio «Sono Bilardo», dice «prova a palleggiare», aggiunge. Ma io metto per terra il pallone, lo guardo, tiro fuori un rosario dalla tasca sinistra e gli faccio: «Preghiamo, mister, preghiamo». Ci inginocchiamo, suona la sveglia.
Succede spesso, dev’essere per questo motivo che in molte cose che ho scritto ho fatto sì che Maradona entrasse nei sogni degli altri, o che sognasse lui stesso. Ho fatto sì che lo sognasse Gianni Rivera, che lo sognasse Iniesta, che sognasse lui stesso in una storia su Mario Kempes. Maradona è una cosa talmente meravigliosa che a volte mi pare davvero d’averla solo sognata. Di recente il regista Paolo Sorrentino ha affermato: «Maradona non è arrivato a Napoli, è apparso». E io sono d’accordo, ma allora se qualcuno appare, perché non deve continuare a farlo. In questo mio sognare forse non faccio altro che prolungare il mio personale mistero della fede alla notte, nel mondo onirico, laggiù dove tutto è possibile. Quando dormo Maradona è vivo, perché chi è apparso non può morire.
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Negli anni di quell’adolescenza ho segnato gol degni di Careca, di van Basten. Rovesciate che nemmeno alla Playstation. Sempre e soltanto, rigorosamente, su assist di Maradona. In fondo quei sogni erano la cosa più vicina ai desideri. Da quando sono nato ho sempre voluto fare il calciatore, nel periodo in cui Maradona ha giocato a Napoli, dai miei tredici ai vent’anni, più o meno, ho capito che non avrei mai potuto andare molto più in là del calcetto con gli amici. Allora ho scelto un altro campo da gioco, quello della pagina da riempire, sempre di un rettangolo stiamo parlando, anche scrivendo occorre inventiva, fantasia, rigore, essenzialità, visione, speranza. Scrivere però è cominciato dopo. Scrivere poesie poi non è stato per inseguire chissà quale amore devastante, è stato perché non ero abbastanza bravo a pallone, è stato perché stavo guardando con i miei occhi – da sveglio – Maradona giocare. Scrivi su, che forse te la cavi meglio, che forse non ti devi vergognare per un rigore sbagliato in Coppa Italia, per essere finito in panchina per un campionato intero.
«Mi sono stancato di così tante cose che un tempo mi incantavano, sono stanco di guardare l’ombra delle nuvole passare sull’erba illuminata dal sole, di vedere i cigni che scorrono avanti e indietro sul lago, di scrutare nel buio, sperando di trovare l’immagine di un sé ancora non nato» scrive Mark Stand a un certo punto di Quasi Invisibile (Mondadori, trad. D. Abeni), ed è vero, ci si stanca di tante cose, perfino dell’incanto guardarle, di immaginarle. Di Maradona non mi stanco, continuo a cercarlo, a guardare i gol, i video, gli assist. Cercandolo, però, nei sogni o con l’immaginazione, non faccio che ricondurmi indietro, all’infanzia e all’adolescenza, dalle parti di quel sé ancora non nato, caro a Strand. Diego mi riporta nel tempo della possibilità aumentata, della vita giovane, del futuro da espandere, a me non pare poco, ma proprio per niente.
È quest’estate che ho sognato i funerali di Maradona. Io che seguo il fiume di folla che si snoda lungo Plaza de Mayo, io che aspetto paziente, piango e rido in mezzo a questi argentini: donne, uomini, vecchi e bambini. Vedo in diretta l’abbraccio del tifoso del Boca e di quello del River. Nelle lacrime disperate di quei due risiede tutta la passione del mondo, tutto il gioco del calcio. Dopo ore o pochi secondi, sotto l’azzurro di Baires arrivo alla bara, che è aperta, mi avvicino ma al suo interno non c’è il corpo di Diego, è vuoto. Mi guardo intorno, chiedo a quello che mi sembra un addetto che mi risponde: «Sei arrivato tardi, il corpo di Diego è già stato cremato, oppure è risorto», e poi ride, ma subito dopo piange. Mi avvicino e gli metto al collo la sciarpa del Napoli e poi, con le mie consuete difficoltà nel trovare il sud, l’est o altro, cerco la direzione de La Boca, e realizzo che se è risorto ora si trova nel quartiere della Bombonera, e aspetta che qualcuno gli apra le porte dello stadio. La coda intanto è sempre più lunga. Scorgo Valdano, Kempes, Daniel Bertoni, Peppe Bruscolotti, Vincenzo (mio cognato), Roberto Baggio, le figlie di Diego, Evita, Neil Young (a sorpresa, ma che ci fai qui, Neil?), Borges, Ricardo Piglia, Silvina Ocampo. Non è più una fila, è un treno dei desideri, è un cammino di anime sognanti, è un murales vivente, è l’immaginario che si fa reale. Mi avvicino a Silvina, ma mentre provo a parlarle suona la sveglia.
Per anni nei laboratori di scrittura abbiamo usato l’attacco di una poesia di Grace Paley, il primo verso soltanto: «Ho invitato mia madre e mio padre in un sogno» (Fedeltà, minimum fax, trad. Brambilla, Cognetti), da quel verso bisognava partire e scrivere un racconto, venivano fuori sempre cose molto interessanti. In fondo, io sostituisco la madre e il padre di Paley e, dentro i sogni, invito Maradona e poi invento una storia. Ci palleggio in salotto, ci cammino per strada, gli racconto i fatti, gli parlo degli altri sogni. Una notte gli ho chiesto cosa ne pensasse di Politano. Ha sorriso, ha scosso la testa.
Nell’ultimo anno ho seguito, soprattutto su Instagram, la continua evoluzione ed espansione in ogni parte del mondo di murales dedicati a Maradona. Sono disegni fatti da professionisti e da dilettanti. Si trovano davanti agli stadi, sui muri delle case, delle chiese, tra due finestre, due porte, visibili appena dietro un cancello. Sono belli, bellissimi, qualcuno pacchiano, qualcuno grezzo. Nessuno è brutto. La rappresentazione grafica su scala mondiale del più forte calciatore di sempre. Diego che fuma il sigaro, che solleva la coppa, che accarezza dei bambini. Diego con l’aureola, Diego avvolto nella bandiera cubana. Diego a Dubai, a Buenos Aires, a San Paolo, a Dublino, a Londra, a Varsavia. Diego a Mosca, Diego a Napoli. I miei preferiti sono quelli che lo riproducono in azioni da gioco, riporto sempre tutto al campo, anche quando immagino, ricordo, sogno. In ogni parte del pianeta c’è almeno un muro scrostato con l’immagine di Diego. Di recente sono ripassato davanti al murale storico, quello di via de Deo, con Maradona che pare uscire dal palazzo, dalle finestre, è diventato un santuario, ed è uno dei posti più fotografati di Napoli. Lo si visita con la stessa curiosità con cui si va alla Cappella San Severo. L’altare di Diego vale Santa Chiara, vale il Duomo, vale i Quartieri.
Questi sogni che faccio non mi spiegano se mi manchi Maradona oppure no. Mi pare più probabile che mi manchi la parte giovane di me, la parte che aveva più cose da aspettare: nessuna tristezza, verranno tante cose ancora, ma la capacità di desiderare si è ridotta. Si dice che invecchiando ci si rimpicciolisca, di sicuro ci si ridimensiona. L’ultimo sogno che ho fatto è capitato nella notte dell’anniversario della morte di Maradona, la vera chiusura del 2021. Ed è una poesia, che viene da un sogno ma è reale, come sempre dovrebbero essere le poesie e le partite di calcio.
Sgraniamo rosari davanti ai murales
fatti di schegge di cuoio, di materia
strappata all’erba, al sogno, al futuro:
abbiamo un anno in più, Diego
stiamo nel tempo che ci rimane
tu invece vai all’indietro, non puoi
invecchiare, questo non accadrà.
Esiste solo il passato, così
il nostro campo si restringe
ci attendono molte meno cose
scendiamo di nuovo in quel cortile
calciando forte verso il garage
qualche volta piangiamo
scrivo rapido nel libro di Onetti appena
sotto la dedica a Idea Villariño
ma non sono addii e conosciamo il tuo nome.
A Fuorigrotta non si sente il vento
né si vede il mare.
Avrò 11 anni meno di te per sempre
un battito mancato, la giovinezza sfumata
accade, semplicemente, l’immaginario
si riduce, e laggiù nel bagliore
ti scorgiamo: all’Azteca, al Camp Nou
fino ai due stadi che da questa Baires
all’altra portano il tuo nome.