Da piccola tre volte a settimana accompagnavo mia madre e mio padre in una sala pesi a Catania, in un garage sotterraneo di via Torino. Uno stanzone dall’aria densa a cui si accedeva da una saracinesca, dove i macchinari ti lasciavano l’odore metallico sui palmi della mano per giorni, anche se avevi undici anni e per emulazione avevi solo sfiorato un manubrio a corda completamente scarico di peso.
Era una sala in cui si parlava poco, dove le frasi spezzettate in catanese si troncavano improvvisamente ogni volta che incombeva il tonfo di un bilanciere troppo carico mollato a mani aperte sul pavimento. Poi, a volte, sospiri di disfatta, gemiti acuti, persino qualche mala parola. Ma soprattutto tanto respiro. Fiato inalato, fiato esalato.
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È stato quel contesto che mi ha insegnato il galateo del sollevamento pesi. Si parla poco, si sta concentrate, e bisogna ricordarsi di respirare durante ogni esercizio. Come un metronomo è il fiato che scandisce il ritmo. Dentro a una palestra il respiro ha un suono e una sua consistenza. Si immette aria nei polmoni mentre si scende per caricare un esercizio, si soffia forte fuori quando si solleva il peso con forza e allora un’immaginaria nuvoletta di fiato fluttua per aria come in certe rappresentazioni iconografiche di Eolo che soffia il vento dalla bocca.
Ciò a cui, fuori da lì, il corpo umano tende per natura – respirare, avvizzire per la naturale tendenza che hanno i muscoli a inflaccidirsi –, dentro a una palestra viene rimesso in discussione.
Non sono mai stata una patita del sollevamento pesi. L’ho fatto per vari anni della mia vita, ma sempre in maniera strumentale, per sistemare gli ammanchi che gli sport che ho praticato hanno lasciato in eredità al mio corpo. Da adolescente ho rafforzato il tricipite quando il mio ruolo era quello di ala tiratrice intorno al perimetro da tre in un campo da pallacanestro. Poi ho rifinito qualche sbavatura che dieci anni di kick-boxing hanno lasciato qua e là in un fisico che mi sono costruita sempre più solido con lo scopo di poter combattere con i maschi a pari livello. Ho affinato i muscoli pettorali per rendere il jab più rapido e allo stesso tempo leggero. Toccare con decisione e tornare con rapidità, come se al posto del guantone si avesse la punta di un fioretto, è un gesto tecnico che ha bisogno di molta più muscolatura e forza di quanto si possa immaginare.
Ho fatto anche lunghe pause. Quando pensavo che fosse noioso andare in palestra; oppure l’anno in cui ho deciso di fare la contadina e pacciamare il terreno mi era sembrata un’attività fisica abbastanza allenante per le braccia e le spalle. I pesi: lunghe frequentazioni, pause lunghe altrettanto. Ma il nostro rapporto è solido adesso. So bene cosa voglio quando vado in palestra. Il profilo delle spalle voglio che curvi in ogni dettaglio come una catena collinare. Le mie gambe devono essere capaci di sorreggermi se voglio ballare tutta la mattina di domenica e poter continuare fino a sera inoltrata senza crampi. E non conosco un modo migliore per prevenire il mal di schiena che mi piega in due quando smetto di allenarmi per quindici giorni di fila.
Poco più di un anno fa sono tornata in palestra dopo aver smesso con la kickboxing. E con l’ibuprofene prima di addormentarmi. Ho fatto kick per diverso tempo, finché provare dolore ai quadricipiti femorali alla fine di cinque round di sparring era ancora un sentimento che mi esaltava. Non è stata una separazione facile. Per un po’ sono pure stata in dubbio se iniziare uno sport nuovo ma poi mi sono resa conto che non me la sentivo di tornare a essere principiante per l’ennesima volta nella mia vita. E così sono tornata a quello che conoscevo. Sono tornata a sollevare pesi dentro a una palestra. Ho persino portato con me un’amica all’inizio. Era neofita, ha mollato dopo tre mesi. E io ho continuato ad andare da sola.
Il fatto di non tornare a una squadra o a un gruppo ha alcune influenze sul ritmo del mio allenamento. L’idea di non dover dare spiegazioni a nessuno quando non ho voglia di andare ad allenarmi è un deterrente che devo aggirare imbrogliando me stessa. Nel corso del tempo ho affinato diverse strategie come quella di sincronizzare il mio allenamento con quello di altri amici, anche se si allenano in un’altra palestra. Se loro vanno, mi dico, allora devo andare anche io. Oppure preparo la borsa di mattina e me la porto a lavoro. Puntuale, intorno alle diciassette, si manifesta la voce interiore che mi sussurra che se per un giorno salto non se la prende nessuno. Ma quando il turno è finito mi metto in cammino verso la palestra, provando lo stesso senso di inesorabilità che provo certe mattine quando devo andare a lavorare. In quei casi è sempre una proiezione nel futuro che mi aiuta: so che dopo l’allenamento starò bene; so che vedere altre ragazze, altre donne, allenarsi, sarà quanto basta per avere voglia di farlo. C’è un meandro del cervello dove il divertimento che provo quando mi alleno va a nascondersi ogni volta che torno alla vita normale. Andare in un posto in cui mi eserciterò da sempre è accompagnato da una ritrosia iniziale che non so spiegarmi. Non so spiegarmi per quale motivo il mio corpo ogni volta un po’ si oppone a raggiungere il posto in cui si sente al suo meglio.
Ho una serie di playlist dedicate interamente alla palestra. La più recente l’ho intitolata new shape of myself. Il sollevamento pesi è una disciplina che ha molto a che fare con la forma di un corpo: quello che abbiamo in partenza e quello che vogliamo raggiungere allenamento dopo allenamento. Il corpo lo costruiamo come se fosse un giocattolo Lego: più spalle, più petto, meno fianchi, rinforzare i polpacci. Un corpo on demand. È intestardirsi, andare in direzione diversa rispetto a quella che ci è stata messa a disposizione della nostra biologia e dalle nostre abitudini passate. Con un po’ di costanza i cambiamenti non tardano a farsi vedere, e questa è una delle illusioni che almeno inizialmente tiene legata alla palestra tantissima gente che arriva, resta per un po’, poi si annoia e se ne va.
Il sollevamento dei pesi è una pratica difficile a cui abituarsi fino al punto da farsela piacere. È ripetitiva e l’impiego della forza che ci vuole a volte – e soprattutto agli inizi – sembra fine a se stessa. Non c’è la dimensione ludica degli altri sport, quelli in cui mentre ti muovi per “giocare”, senza quasi accorgertene ti arriva in eredità un corpo atletico. A nessuno verrebbe in mente di dire che il sollevamento pesi è un gioco.
Con il tempo ho imparato che un’indole volta all’introspezione non guasta. La maggior parte del tempo la trascorro immersa in me stessa. Mentre mi alleno non parlo. Non penso. Cerco di lasciare tutto fuori dal tornello all’ingresso. Scelgo il manubrio, lo sollevo dieci volte, a volte dodici, fissando allo specchio il mio bicipite. Conto. Penso: ricordati di respirare. La decima ripetizione a volte è dura. Sputo fuori l’aria, bestemmio, lascio cadere il manubrio davanti alle mie scarpe nuove di pacca. Passo i sessanta secondi di pausa a guardarmi il bicipite allo specchio, così bello tutto rigonfio dallo sforzo a cui l’ho sottoposto. Se mi sento bene, se mi vedo bella, mi faccio una foto e poi me la riguardo sdraiata sul letto anche mesi dopo. Ci sono versioni di me che ho costruito in palestra che esistono solo in una foto, solo in un istante. Quando le guardo mi dico: non pensavo che avrei potuto essere anche così.
Vale a dire: forte, muscolosa, in tiro, padrona dello spazio che occupo all’interno delle stanza che frequento. Lavorare sulla forza, per una come me che per tutti gli anni della scuola dell’obbligo è stata messa all’ultimo banco perché troppo alta, e che per un tempo ingiustamente infinito ha comprato scarpe di una misura e mezzo più piccola perché quella giusta non era presente sul mercato (la mia misura: 41 o 41,5 di piede) non è stato un processo immediato. Capita che gli uomini mi dicano che incuto loro timore: per le mie spalle larghe, per le mie gambe lunghe 111cm, per il mio corpo che si prende un sacco di spazio ovunque vada.
Quando sono entrata in palestra a volte ci sono andata con il desiderio di rimpicciolirmi, di smussare centimetri dove possibile, nel grasso sulla pancia o nell’interno coscia. Solo in un secondo momento ho capito la nuova forma che volevo che il mio corpo prendesse. Ci sono arrivata tardi, ci sono arrivata con lo studio. Ci sono arrivata sottoponendo il mio corpo alle pareti specchiate della palestra fino a provare uno strano senso di fierezza quando aggiungo un altro disco al bilanciere che mi piazzo dietro al collo quando eseguo gli squat. Ma fuori da lì il senso di essere grande ancora persiste. Non è una sensazione che mi ammorba da dentro, è piuttosto una restituzione continua dalla persone che incontrano il mio corpo e non possono davvero fare a meno di commentarlo.
Sono quasi sempre stata la più alta ovunque, eccetto nella mia squadra di basket. Per dodici anni della mia vita mi sono sentita a casa in un posto anche perché c’era qualcuna che a rimbalzo era capace di spazzarmi via con una spallata proprio come capitava di fare a me, involontariamente, con le persone più “piccole” che mi gravitavano intorno. Ho chiesto scusa molte più volte del dovuto, e la maggior parte delle volte le persone non riuscivano nemmeno a capire perché.
I corpi grandi, i corpi forti e muscolosi, i corpi che non si possono perfettamente inserire in quel modello asfissiante che la società ha inventato per noi – gracili, esili, piccole, e quindi sovrastabili – non sono un’opzione scontata. Il corpo di una donna che sborda rispetto a quello che ci si aspetta dalla femminilità non è mai esente da un commento che viene da fuori. In senso negativo il più delle volte, e basta seguire un qualsiasi profilo Instagram costruito intorno al mondo della palestra per vedere quanto un corpo muscoloso femminile possa ancora repellere tante persone. Fai schifo, sei un uomo, sei inguardabile.
Le donne muscolose e forti attentano con il loro corpo al principio per cui il corpo forte e muscoloso appartiene solo agli uomini. La loro esistenza minaccia ad un livello inconscio l’identità maschile stessa. Il fastidio che provano gli uomini che commentano in un certo modo parla più di una paura di perdere un baluardo che non di un senso di disprezzo estetico. Per alcuni essere attratti da donne muscolose viene considerato ancora oggi come spia di una possibile omosessualità. Il cortocircuito che porta a provocare questa paura è la conferma che la sovrapposizione fra muscolo e mascolinità, e la conseguente separazione fra muscolo e femminilità, sono un cruccio che si basa più su questioni identitarie che non estetiche.
La prima volta che ho visto la foto di Kathy Acker in palestra scattata nel 1984, con il suo guantino bianco, la spalla in primo piano decorata da quella tigre opaca che sembra un trasferello, l’eye-liner scuro leggermente colato, tutto quello che pensavo di sapere sull’aspetto fisico di una scrittrice è completamente saltato. Nel mondo intellettuale femminile il corpo è al centro di moltissime riflessioni in tante declinazioni, ma raramente in quella sportiva. In parte si deve al fatto che le donne intellettuali di oggi non hanno avuto accesso, in passato, ad una versione sportiva del loro sé. Ma più in generale sport e intelletto, soprattutto nel mondo femminile, sono due sfere che raramente si sono sfiorate.
Acker ha rappresentato per me l’eccezione che ha aperto una prospettiva, ha spento la paura che tutto il tempo che stavo impiegando nella pratica di uno sport ne stesse pericolosamente sottraendo altrettanto ai libri che avrei dovuto leggere e che questo avrebbe attentato alla mia intelligenza o alla mia cultura. Col senno di poi mi sembra un’assurdità, ma è con la consapevolezza di oggi che riesco a ricostruire che cosa scatenasse quelle paure. Intorno a me, prima di Acker, non c’era nessuna scrittrice che aveva mostrato anche solo una possibilità in questa direzione.
A parte rare eccezioni, per le donne il corpo muscoloso non mi sembra ancora un’opzione che si può trasformare in fattezze costruite in palestra. È una possibilità che alcune di noi raramente abbracciano, mentre qualcuna inizia sempre più a osservarla da fuori, a inserirla almeno come un’opzione dello spettro dei modi in cui un corpo di una donna si può declinare. E questo, sebbene poca cosa, è già qualcosa.
Il 16 agosto 2024 Alice Bellandi compare sulla copertina digitale di Vanity Fair. Ha appena vinto un oro nel judo alle Olimpiadi di Parigi. Niente di strano che una delle donne più in vista nel paese in quel momento occupi la prima pagina di un femminile. L’assoluta novità, però, è l’iconografia con cui Bellandi viene rappresentata. L’atleta indossa i pantaloni di un judogi e sopra un top nero con lo scollo squadrato che lascia in vista la spaccatura dei muscoli pettorali, il collo forte e tenacemente allenato di chi pratica arti marziali. Fra le dita tiene la cintura nera, che scompare parzialmente dietro al suo corpo e riappare stretta nella mano destra. Il braccio è piegato in una posa di tensione. Sotto lo strato di pelle si stagliano netti il muscolo deltoide, il bicipite e il profilo esterno del gran pettorale. È perfetta nella sua maestosità.
Alice Bellandi mostra un corpo temprato in ogni centimetro, e sarebbe difficile immaginarselo diverso da così visto che è immortalata in un momento immediatamente vicino all’evento sportivo per cui si è allenata per quattro anni. È l’immagine della versione più forte possibile del suo corpo. Non sono solo i muscoli a dircelo, ma anche la medaglia che sappiamo che ha appena vinto e pure la sua espressione fiera, in quel sorriso accennato di chi sa che non ha bisogno di dire molto per spiegare tutto.
I muscoli di Bellandi eclissano tutto il resto: la scritta con i colori fluo, la cintura nera. Un corpo così sulla copertina di un giornale dedicato principalmente a un pubblico femminile rappresenta uno spartiacque.
Non è che prima di Bellandi questo genere di corpi non esistessero. Li vedevamo sul tatami, in palestra, e nella loro estremizzazione alle convention di body-building. Posti essenzialmente chiusi, completamente sottratti allo sguardo delle altre donne. E anche degli altri uomini. Come se ci fosse un contesto apposito, dove il muscolo in parte veniva tollerato come una inevitabile conseguenza di un’attività sportiva intensa.
Ma persino in questi contesti le donne troppo muscolose non sono state mai completamente esenti da commenti sessisti o offensivi. Allo stesso modo, immagino che la copertina con Bellandi qualche sopracciglio deve averlo sollevato. Ma nonostante questo a prevalere è l’importanza di un tipo di rappresentazione diversa, in un contesto in cui la femminilità di solito è fortemente caratterizzata in modo opposto - le bellezze delicate, fragili, quasi impalpabili e immateriali delle modelle e delle attrici. Che un corpo come questo sia stato finalmente messo in copertina rappresenta una specie di liberazione.
Durante il periodo in cui i miei frequentavano la palestra avevano appeso la foto di Pamela Anderson alla porta del frigorifero di casa, con una calamita. Un corpo fit dove il giusto equilibrio fra muscolatura e quelli che negli anni Novanta erano considerati immancabili attributi femminili (seno, fianchi, cosce, glutei) erano scolpiti al massimo della loro possibilità, in un mix perfetto di lavoro in palestra e luci di studio sapienti. La pagina centrale del mensile Max con il bordo zigzagato per lo strappo impreciso svolazzava ogni volta che aprivo il frigo per cercare qualcosa da mangiare.
I miei, mi dissero, l’avevano appesa lì come memento mori, perché la palestra da sola non porta da nessuna parte senza un’alimentazione adeguata. Potrebbe sembrare un mindset un po’ radicale per due culturisti amatoriali che si allenavano in un garage, ma a casa mia poche cose sono mai state prese sul serio come lo sport e lo studio.
Oltre ad avermi lasciato in eredità l’ovvietà di come si sta dentro a una palestra, i miei mi hanno dato in eredità anche un corpo. La mia stazza me l’ha lasciata soprattutto mia madre, che quando è arrivata dal nord Italia a Catania era la donna più alta di tutti, donne e uomini. Mi ha insegnato molto su come si abita un corpo grande e forte. Da piccola, quando mi dicevano che ero “troppo alta”, è stata lei ad insegnarmi che potevo provare a ribaltare la prospettiva e rispondere che magari erano gli altri ad essere bassi. A volte, quando guardo me allo specchio, vedo lei. Il modo in cui si vestiva che ho ritrovato in certe foto, alcuni tagli di capelli che lei aveva negli anni Ottanta e che io ho scoperto per me quasi quarant’anni dopo.
E con il corpo mi ha tramandando anche il suo personale rapporto con il dolore. Il suo esercizio più odiato era lo squat. Forse proprio per il fatto di essere così alta, il piegamento sulle gambe con un peso sulla schiena è sempre stato particolarmente ostico. Ricordo che il suo volto si contraeva in uno spasmo di dolore persino quando lo raccontava a cena fra amici, questo fantomatico squat. E allo stesso modo parlava del parto, un momento così doloroso per il suo corpo che non avrebbe mai più voluto rivivere. Infatti, sono figlia unica.
Non so se questo c’entri con il fatto che io ho il terrore persino all’idea di partorire e il giorno dedicato all’allenamento delle gambe è quello che odio di più. Lo squat, nel caso specifico, è il mio esercizio “nemesi”. Nell’eseguirlo mi sembra di espiare una colpa tramandatami per lignaggio familiare. Non ho ancora capito se questa fatica immane è dovuta alla mia conformazione fisica, alle mie anche, cioè, che sembrano legate come quelle di una Barbie, oppure al dolore, che da parola di mia madre si è fatto realtà solo perché un tempo a parlare è stata quella che per me era la fonte di ogni verità.
Ieri sera al telefono ho domandato a mia madre perché negli Anni Novanta avesse deciso di andare in palestra. Mi ha detto che non capiva la domanda. E così io ho dovuto specificare che a quel tempo, ancora meno di oggi, a quasi nessuna sarebbe venuto in mente di fare body-building per gonfiarsi i muscoli.
«Giorgia», mi ha risposto lei, «Io non ho mai fatto quello che facevano tutte le altre».