Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Sonny Vaccaro, l’esploratore
03 mag 2018
Quando si parla di basket collegiale e dell’influenza dell’industria dello sportswear, non si può che partire da Sonny Vaccaro.
(articolo)
20 min
Dark mode
(ON)

Springfield, 8 settembre 2017. Tracy McGrady sale sul palcoscenico. È l’ora del suo ingresso nella Hall of Fame. È il defining moment nella carriera di molte leggende, che spesso quando salgono su quel palco si ritrovano a dimostrare al mondo tutta la propria fragilità ed emotività.

Ma McGrady, per l’ennesima volta, sembra restare impassibile. Parte con i classici ringraziamenti ad allenatori e compagni, racconta un aneddoto con la moglie, sorride alla famiglia in prima fila. L’incantesimo di Springfield sembra non funzionare su di lui. Poi quelle parole: «…Sonny and Pam Vaccaro…».

L’espressività e la mimica facciale di McGrady cambiano all’improvviso. Si gira, cerca con lo sguardo la coppia che ha appena menzionato. È visibilmente commosso. «Essere stato l’ultimo ad entrare al [ABCD] camp… Quando mi avete dato quella divisa, la numero 175…».

Si allontana dal podium. In lacrime. Poi torna per chiudere il suo racconto.

«Nessuno aveva la più pallida idea di chi fosse Tracy McGrady. Mi avete dato un’opportunità, e io ho potuto competere contro i migliori giocatori del mondo a quel momento. E ho lasciato il camp da giocatore numero uno della nazione».

Always about the next thing

È un sabato mattina a Palm Springs, in California. Sonny Vaccaro, che ora ha 78 anni, mi risponde al telefono entusiasta, dimostrando una gran voglia di conoscermi, prima che di raccontarmi di sé. E partiamo da T-Mac, da quell’8 settembre 2017. «Quel momento è la quintessenza della nostra vita, mia e di Pam. Abbiamo avuto rapporti molto stretti con tantissimi giocatori, ma con nessuno c’è mai stato quello che c’è con Tracy«. Mi dice che è in contatto costante con lui, e che «io e Pam siamo orgogliosissimi di come sta crescendo i suoi figli e di tutto ciò che fa».

Su Tracy e su quell’edizione del 1996 dell’ABCD camp poi mi dirà altro, così come delle sue vicissitudini con Michael Jordan, Kobe Bryant, LeBron James e tanti altri. Adesso però “Sole Man” si è scaldato: «Is your typing machine ready, son? Let’s go, we gotta talk!» (È pronta la tua macchina da scrivere, figliolo? Andiamo, dobbiamo parlare!).

La storia di John Paul “Sonny” Vaccaro, originario di Trafford, Pennsylvania, parte in salita: è un giovane giocatore di football americano e tanti atenei della nazione mettono gli occhi su di lui. Sonny però soffre un grave infortunio, e la sua carriera da running back sembra già ai titoli di coda. Dike Breede, coach per il college di Youngstown State, in Ohio, vuole dargli una chance. In Sonny deve ancora esserci un po’ di quel gran giocatore visto all’high school. Nulla di fatto. «Era finita. Non potevo correre, non potevo più giocare. Per me il football era un capitolo chiuso».

Youngstown però diventa una tappa cruciale nella sua vita. Breede e soprattutto coach Dom Rosselli colgono l’entusiasmo di Sonny e vogliono dargli una chance, affidandogli un ruolo per la squadra di pallacanestro del college. Non si fa ritorno a Trafford, quindi. «Dom Rosselli è stato una figura fondamentale per me. Mi ha insegnato tanto sul basket e mi ha dato una chance. Il suo record da allenatore di college la dice lunga su quanto fosse in gamba». Rosselli ha vinto 589 delle 977 partite di basket allenate, oltre ad essere stato per 31 anni l’allenatore della squadra di baseball e per più di 20 l’assistente di Breede nel football.

Youngstown State gli garantisce una borsa di studio di quattro anni e così inizia il suo percorso nel basket: si occupa di recruiting e allena la squadra nei tornei estivi quando serve decidere il roster per la stagione successiva.

Alla Civic Arena, c’era un personaggio con la capigliatura simil-afro a tenere le redini dell’evento.

Era l’inizio degli anni ’60 e non esisteva il McDonald’s Open o un vero e proprio ritrovo dei migliori giocatori di high school della nazione. «Mi sono guardato in giro e ho pensato: ma perchè non organizzare un’occasione in cui gli All-American si sfidano sullo stesso campo?!», mi dice. A me sembra un’idea geniale per fare recruiting per una realtà piccola come Youngstown, in fondo. «No no, Youngstown con il Roundball Classic non centrava niente. Ero io che mi ero accorto che mancava questa cosa, e l’ho voluta creare. Il mio intento non era quello di reclutare per il mio college, ma mi sentivo un esploratore, come in tutta la mia vita. Ho sempre voluto fare the next thing».

Ed ecco che entra in scena un altro cognome italiano, quello di Pat DiCesare. È stato proprio lui, insieme a Sonny, a dare vita al Dapper Dan Roundball Classic, il primo All-Star Game per giocatori liceali nella storia degli Stati Uniti, che alla sua prima edizione alla Civic Arena di Pittsburgh, il 26 marzo del 1965, ha registrato 10.333 presenze sugli spalti. «Alla fine Pat e io ce la siamo cavata piuttosto bene, direi!».

Come dargli torto? Pat DiCesare è poi diventato uno dei promoter musicali più potenti d’America, una carriera che aveva già svoltato pochi mesi prima, esattamente il 14 settembre 1964, quando Pat organizzò la data a Pittsburgh del primo tour USA dei Beatles. Un evento reso possibile solo dalla pazzia e dall’entusiasmo sconfinato di DiCesare, che arrivò a convincere il padre a ipotecare la casa, pur di ottenere i 5.000 dollari che servivano per versare la caparra.

Stupisce poco che due personalità del genere si siano trovate allo stesso tavolo. «Con il Dapper Dan Roundball Classic ero ufficialmente sulla mappa del basket USA, è stato fondamentale per il mio percorso». Non c’era alcuna pianificazione dei successivi passi nella carriera di Sonny, più che altro perché non gli interessava. Voleva esplorare, costruire relazioni, e lasciare un segno. E aveva deciso di farlo partendo dalla Civic Arena di Pittsburgh.

«I just wanted to make 5 bucks!»

Fast-forward al 1977: quello è l’anno in cui avviene il primo incontro fra Sonny e il management di Nike, a quel momento un’azienda che fatturava 28 milioni di dollari l’anno. Entra nella stanza coi “pezzi grossi” con una proposta che arrivava dai giocatori conosciuti al RoundBall Classic: realizzare una calzatura in gomma per l’estate. Sonny conosceva molto bene il calzolaio Bobby DiRinaldo, anche lui di Trafford, che gli realizzò 89 diverse variazioni di questo sandalo. «Non ero minimamente appassionato di calzature, né volevo coinvolgerli in altre attività» dice. «Tu oggi vedi Russell Westbrook con le sue scarpe colorate: a quei tempi le scarpe dei cestisti erano le Converse, ma nessuno ci prestava attenzione. Io volevo solo guadagnarci 5 dollari!».

Con la sua valigetta, Vaccaro fece la sua prima conoscenza con Phil Knight, fondatore del brand, e Rob Strasser, direttore del marketing. I sandali erano stati considerati un’idea pessima, ma la passione e la personalità di Sonny colpiscono moltissimo gli interlocutori, specialmente Strasser. Nike in quel momento, nel basket, aveva solo degli accordi con alcuni giocatori NBA a cui venivano elargiti al massimo 8.000 dollari l’anno per indossare le scarpe con l’iconico swoosh. Nessuna presenza nel college basketball, né tantomeno nelle high school. Strasser stimola Vaccaro su questi argomenti, chiedendo se avesse consigli per penetrare questo segmento strategico. «Cosa gli dissi? Che li aspettavo al Dapper Dan Roundball Classic!»

Sonny non ne aveva idea in quel momento, ma stava per cambiare per sempre il marketing sportivo nel mondo del basket. O meglio: lo stava proprio inventando. In un contesto come quello del college basketball, dove non era - e non è tutt’ora - possibile negoziare accordi con i singoli giocatori, come poteva Nike fare business?

«You gotta pay the coaches!», dovete pagare gli allenatori.

Boom.

In quattro mesi l’azienda di Portland grazie a Sonny firmò quasi tutti i più importanti allenatori della nazione. Incredibile a pensarci oggi, ma le negoziazioni furono molto semplici per Vaccaro: a coach Foster (Duke), McGuire (South Carolina), Lynam (St. Joseph), Driessel (Maryland) e tanti altri non sembrava vero di ricevere un assegno e una fornitura di scarpe da far indossare ai propri giocatori. Fino a quel momento, erano i college a pagare per ottenere le forniture.

Coach K e Roy Williams a lezione da Mr. Vaccaro, ABCD Camp del 1998.

Era un paradigma del tutto nuovo, che sembrava assurdo a molti e illegale a qualcun altro. Ma regole alla mano non lo era: si trattava semplicemente la next thing di Vaccaro l’esploratore, che aveva visto quell’unica breccia nel mondo collegiale e aveva reso Nike in brevissimo tempo un brand popolarissimo. Un settore dove, fino a quel pitch per le calzature estive, lo swoosh era del tutto assente.

«Andò esattamente così: Rob mi mise a disposizione un budget e io, con le relazioni che avevo maturato con gli allenatori, riuscii a rendere Nike una potenza del basket collegiale». Durante la March Madness del 2018, 44 delle 64 squadre impegnate calzavano scarpe Nike: gli effetti di quella chiacchierata del 1977 sono sotto i nostri occhi ancora oggi.

Air Jordan

Dean Smith, storico allenatore di North Carolina, aveva però scelto Converse. E per Smith, dal 1981 al 1984, ha giocato un certo Michael Jordan. Un profilo ritenuto interessante da Strasser, che poteva contare su una lunga amicizia con David Falk, lo storico agente di MJ.

Michael però, entrando nella NBA, non voleva vestire né Converse né Nike: voleva adidas. L’interesse dell’azienda tedesca, però, latitava. Ecco la breccia di cui Sonny aveva bisogno. Nel 1983, le revenues di Nike avevano toccato quota 867 milioni di dollari annuali: era il momento di cercare l’home-run. E le risorse economiche per farlo c’erano.

Per questo Strasser decise che era arrivato il momento di investire su modelli signature, ovvero scarpe con la firma del singolo giocatore. La rosa dei nomi tra cui scegliere, nel Draft del 1984, era piuttosto ampia, ma gli occhi erano puntati principalmente su John Stockton, Hakeem Olajuwon e Charles Barkley.

Venne interpellato Sonny. Per lui non c’era discussione: era Jordan l’uomo giusto su cui fare la big bet. A nulla serviva diversificare su più giocatori, bisognava convincere a tutti i costi MJ a rinunciare alla sua passione per adidas e diventare il primo signature athlete dello swoosh. «È stata una mia decisione. È stata una mia scommessa». Come dire: ci tiene a precisarlo, e ci mancherebbe.

“Adidas non è male, è vero, ma non ti va di fare degli spot con Spike Lee?”

Il budget era di 500.000 dollari, una cifra astronomica e mai vista prima. Ma quello era Sonny, l’esploratore, l’uomo delle cose mai viste prima. Convinto il board di Nike, ora serve un contatto diretto con Michael, che non era mai passato dal Dapper Dan Roundball Classic.

Sonny chiama il suo grande amico George Raveling, che nell’estate del 1984 era assistente allenatore della nazionale USA ai Giochi Olimpici di Los Angeles. L’occasione di avvicinare MJ, che si apprestava a vincere il suo primo oro olimpico, era troppo ghiotta. E anche l’offerta era troppo ghiotta, a dirla tutta: ben presto Vaccaro, Falk e Strasser si ritrovano all’Hermitage Hotel di Beverly Hills per mettere le firme sul contratto che ha rivoluzionato il rapporto fra atleti e brand. Non solo perché Jordan oggi è un marchio che continua a generare attenzione e ricavi altissimi, ma anche per quanto la possibilità di avere un modello firmato sia diventata un fattore determinante nelle negoziazioni (leggi Giannis Antetokoumpo, per citare l’ultimo esempio).

Nasceva così “Air Jordan”, con i primi iconici modelli e gli spot con Spike Lee diventati un culto mondiale anche al di là delle evoluzioni e le vittorie in campo di “His Airness”. Sonny, intanto, continuava a lasciare un segno tangibile sul basket: fino a quel momento quell’impronta aveva la forma di un baffo, ma a breve non sarebbe stato più così.

The Nike Neutralizer

I rapporti con Nike si interrompono bruscamente nel 1991. Vaccaro voleva più influenza sul business, e Nike si era ormai legittimata una posizione per la quale lui era diventato più un ingombro che una risorsa.

«You’re not firing me, I quit!». Non siete voi che mi licenziate, sono io che me ne vado. È la famosa risposta riportata da Sonny nel documentario “Sole Man” della collana ESPN 30 for 30. Per oltre un anno e mezzo Vaccaro abbandona l’industria delle sneakers e lavora come intermediario per diverse negoziazioni. D’altronde, le relazioni che aveva costruito nel mondo della pallacanestro gli garantivano di poter intraprendere pressoché qualsiasi percorso professionale. Era questa la sua next thing?

No, perché riceve la telefonata di Rob Strasser. Ha lasciato Nike e ha comprato la divisione Nord America del brand adidas. Chiama Sonny per uno e un solo motivo: “Vuoi diventare the Nike neutralizer”?

Sonny controlla le operazioni al ABCD Camp del 1991, ultima edizione sponsorizzata da Nike.

La sfida era troppo stimolante: dalle parole di Vaccaro, l’obiettivo diventa quello di contrastare l’azienda con cui aveva ottenuto degli impensabili successi. Ma forse è più corretto dire questo: la volontà è sempre stata, dalla Civic Arena in poi, quella di lasciare il proprio segno. Che poi quel segno avesse la forma di un baffo, o di tre strisce, o di Reebok (per cui lavorerà per 4 anni successivamente), poco importa: John Paul Vaccaro voleva lasciare la propria impronta.

Ben presto il confronto con Nike si fa personale, quando Phil Knight assume proprio l’amico George Raveling come consulente per il “summer basketball”. Il rapporto con George, che era stato testimone di nozze al secondo matrimonio di Sonny con l’attuale compagna Pam, si era del tutto deteriorato. Allenatore per University of South California, Raveling aveva chiesto a Vaccaro di aiutarlo a convincere uno dei migliori prospetti, Ed O’Bannon, a scegliere i Trojans invece dei rivali di UCLA. Ma lui si rifiutò di farlo e O’Bannon, un altro personaggio centrale in questa storia, finì ai Bruins dove vinse da protagonista il titolo NCAA del 1995.

Non è un caso che sia Falk che lo stesso Jordan nel corso del tempo abbiano screditato il ruolo di Vaccaro nelle contrattazioni del 1984, e che né Knight né Jordan abbiano voluto rendersi disponibili alla realizzazione del documentario “Sole Man”. Jordan addirittura è arrivato a dire che fu proprio Raveling a convincerlo a firmare con Nike, più di Sonny. Con Nike era davvero finita, e la damnatio memoriae del suo ruolo nella creazione della Jordan ne è l’ennesima prova.

Italian Connection

Ormai chiunque entrasse in contatto con Sonny vedeva in lui un’espressione del brand Nike. Perciò bisognava trovare il modo per allontanare questa associazione immediata.

Nel 1984, proprio nell’estate in cui Jordan firmò con Nike, Sonny creò l’ABCD Camp (Academic Betterment and Career Development). Si teneva a Hackensack, New Jersey. C’erano tanti altri camp estivi in America, ma nessuno aveva la forza attrattiva dell’ABCD: lì si tenevano lezioni di matematica e di inglese, si davano indicazioni sui rischi dell’abuso di droghe e sull’AIDS. Lì passavano i migliori talenti della nazione, così come tutti i college più importanti, i media, gli agenti.

Curiosità: unico giocatore ad aver vinto l’MVP dell’ABCD Camp per tre volte? Bill Walker, sulla destra (insieme a Sonny, Kevin Love e OJ Mayo).

Era una property di Sonny, ma era stato sponsorizzato da Nike dal primo anno. Diventa, neanche a dirlo, un evento adidas. Ed è proprio lì che viene notato un tale di nome Kobe Bryant: «La firma di Kobe è stata la più elettrizzante della mia carriera, senza dubbio», mi dice.

The next thing: firmare un liceale offrendogli un milione di dollari l’anno. Di nuovo, qualcosa di mai visto prima. Nel rapporto con Kobe occorre fermarsi su alcuni dettagli. Joe Bryant, suo padre, era stato MVP del Dapper Dan Roundball Classic del 1972. Non solo: anche Chubby Cox era passata dalla Civic Arena, ben prima che la sorella Pam sposasse “Jellybean”.«Non avevo la più pallida idea, al tempo, che quei rapporti sarebbero potuti tornarmi utili in futuro. Costruivo relazioni forti, che poi sono diventate cruciali per il mio lavoro».

Identificato Kobe come uomo-chiave per l’ascesa di adidas, Sonny chiese e ottenne da Strasser la possibilità di stabilirsi a New York durante tutto l’anno in cui Bryant giocò alla Lower Merion High School della vicina Philadelphia. L’obiettivo era uno: rafforzare il rapporto con la famiglia, dimostrargli l’importanza che il brand dava a lui e alla sua carriera. «Ho fatto un’infinità di viaggi fino a Philadelphia per incontrare Joe e per andare a vedere Kobe. Ma non mi sono mai incontrato direttamente con lui in quei mesi a New York. Nessuno sapeva cosa facessi lì, perché nessuno pensava che si potessero investire certe somme su un ragazzino dell’high school».

E Sonny non solo convinse Kobe a firmare con adidas, ma divenne una parte importante nel dissuadere coach John Calipari e i New Jersey Nets dallo scegliere il futuro Black Mamba alla numero 8 del Draft NBA del 1996. La minaccia dell’entourage di Bryant di rifiutare la chiamata e andare a giocare in Europa è ormai storia.

Un reperto di storia, omaggio del giornalista ESPN Darren Rovell.

Nella Green Room del Draft al tavolo di Bryant sedeva anche Sonny Vaccaro. Come raccontato da Jonathan Abrams nell’imperdibile “Boys Among Men”, nel momento in cui David Stern annunciò la scelta dei Nets (Kerry Kittles) ci furono grandi applausi al tavolo di Kobe: il più rumoroso fu proprio Vaccaro che, ancora una volta, aveva lasciato il suo segno e voleva che tutti conoscessero la sua soddisfazione.

THAT dunk

È l’estate del 1996, di nuovo il momento dell’ABCD camp. Il modello adidas “Crazy 8”, la signature di Kobe Bryant, è già un ricordo per Sonny. Siamo già a the next thing.

In quell’edizione del camp i nomi più attesi erano Elton Brand, Quentin Richardson e Al Harrington. Alvis Smith, recruiter per Vaccaro in Florida, insistette perché Tracy McGrady fosse inserito nella lista dei partecipanti. Non si dicevano grandi cose di T-Mac, soprattutto fuori dal camp. All’ultimo, però, si decide di dargli questa possibilità: a Tracy viene affidata la già citata divisa numero 175, quella dell’ultimissimo arrivato.

A presentarsi al camp del 1996 è un T-Mac magrissimo e introverso, ma pronto a mettersi sulla mappa.

Giunto il momento della conclusiva “Outstanding Seniors Game”, il de facto All-Star Game dell’ABCD Camp, McGrady era in campo. Rubato un pallone a metà campo, si invola verso il canestro avversario, inseguito da James Felton, uno dei lunghi più quotati del lotto. «Tracy fece una giocata out-of-nowhere di un giocatore che proveniva out-of-nowhere. A mio modo di vedere, è stato il più incredibile one-play statement di sempre di un singolo giocatore».

T-Mac, non essendosi reso conto della presenza di Felton, va per la schiacciata a mulinello, la classica windmill. Felton salta per stopparlo, ma finisce in uno dei poster più famosi di cui non ci siano riprese. «Se fosse stata su YouTube, quella giocata avrebbe avuto miliardi di visualizzazioni!», chiude Sonny.

Finito quel camp, Tracy era diventato il prospetto n.1 d’America. La strada per firmare con Sonny e adidas (1,7 milioni all’anno) era stata tracciata, così come quella verso la commozione sul palco di Springfield.

Adidas’ kid to lose

A determinare la fine del rapporto tra John Paul Vaccaro e adidas fu la mancata firma di LeBron James. «Avessi firmato anche LBJ, ora sarei sul Mount Rushmore» ha dichiarato più volte Sonny. Non andò così. La competizione su LeBron era fortissima: non c’era niente da inventarsi, non era il momento dell’esploratore. Era una negoziazione economica, perché che LBJ fosse il miglior giocatore del paese c’erano pochissimi dubbi.

Vaccaro lo vide giocare ad un pick-up game a Oakland e ancora ricorda. «A quell’età, non ho mai visto un giocatore più forte di lui nella mia vita. Non c’è stato in me un singolo dubbio sul giocatore o sulla persona, come qualcuno ha poi scritto». Firmare LeBron è la priorità di adidas, così come di Nike. La preferenza di LeBron sembra andare verso le tre strisce, soprattutto quando Sonny gli promette un’offerta da 100 milioni di dollari per un decennale.

Sonny e LeBron insieme all’EA Sports Roundball Classic del 2003.

Il giocattolo però si rompe: quando viene presentata a “The Chosen One” l’offerta formale di adidas, la cifra annuale scenda da 10 a 7 milioni l’anno senza che a Vaccaro fosse data notizia della decisione. Reebok rilancia più in alto fin da subito e Nike al fotofinish risponde con 90 milioni su 7 anni più dieci di bonus in un’altra negoziazione rocambolesca, finendo per convincere il ragazzo a sposare lo swoosh del suo idolo Michael Jordan.

«Non dirò che offrendo la cifra che avevamo deciso LBJ avrebbe sicuramente firmato con adidas. So benissimo che Nike era disposta a fare una guerra su quel contratto, e che eventualmente avremmo potuto uscirne lo stesso sconfitti. Quello che ha reso quella trattativa il momento più deludente della mia carriera professionale è stato il mancato rispetto di accordi che avevamo preso precedentemente». Il tono di voce di Sonny è cambiato, si è comprensibilmente incupito. Fa ancora male.

Il nemico ha un nuovo nome

Dopo la chiusura del rapporto con adidas, seguiranno quattro anni di collaborazione con Reebok. Dal 2007 in poi, è uscito definitivamente dall’industria dello sportswear. C’era una nuova, stimolante, sfida: Sonny l’esploratore poteva tornare in azione, era il momento di combattere la NCAA.

Dai primi anni ‘70, quando è stato trasformato il sistema di borse di studio da quadriennali ad annuali rinnovabili, Sonny non ha mai nascosto il suo disprezzo per la NCAA. «Basta che una cosa ti vada male e ti abbandonano» ha dichiarato in passato. D’altronde è stata proprio la fiducia di Breede e Rosselli a Youngstown State e quella borsa di studio di quattro anni a dare una possibilità a un mancato running back.

Negli ultimi 10 anni però, la battaglia contro l’istituzione si è fatta accesa, con Vaccaro che ha organizzato lezioni, visite e interviste per raccontare quanto sia «patetico» imporre lo status di amatori agli studenti-atleti del college. In una di queste sue interviste in radio con Mychal Thompson disse: «Ancora non capisco perché tutti questi ragazzi non vadano oltreoceano e non si facciano pagare per quello che valgono appena terminata l’high school». All’ascolto c’è un ragazzo californiano cresciuto alla Oak Hill Academy che da lì a qualche mese sarebbe diventato playmaker dell’allora Lottomatica Roma. Si tratta di Brandon Jennings.

Fu proprio la madre di Jennings, sotto input del figlio, a contattare Vaccaro per chiedere se/come fosse possibile per il figlio giocare in Europa o in altri campionati esteri. «Ma certo!». Vaccaro prese Jennings, lo portò a Las Vegas a giocare alla Impact Basketball insieme a giocatori NBA e collegiali di prospettiva: lì c’erano dirigenti di squadre europee a osservare, e ben presto Brandon e Sonny erano seduti al tavolo a firmare un contratto da 1.65 milioni di dollari su tre anni per andare a Roma. Un’altra volta, the next thing.

L’apice della battaglia con la NCAA è rappresentata dal contenzioso legale che Ed O’Bannon ha condotto contro EA Sports e contro la NCAA stessa, appoggiato totalmente da Sonny e Pam Vaccaro. O’Bannon, dopo i suoi successi a UCLA, non era riuscito ad emergere in NBA e si è ritrovato ben presto fuori dalla lega. Dopo sette anni giocati oltreoceano si è trasferito a Las Vegas con moglie e figli per iniziare una vita senza il basket giocato. Un giorno un amico gli telefonò dicendo: «Ed, sto usando te in un videogioco della EA Sports! Pensa, con tutti i soldi che ho speso per averlo, tu non hai avuto un dollaro!».

Da questa telefonata parte una causa che ha portato, nel 2014, ad un accordo per cui la EA Sports ha accettato di pagare 40 milioni di dollari ad atleti collegiali. «Vedere cosa sta riuscendo ad ottenere Ed con le sue proteste mi riempie di soddisfazione e di orgoglio», confessa Sonny. O’Bannon che è, oggi, insieme ad Earl Watson e Lonzo Ball, uno dei tre consulenti della JBA (Junior Basketball Association) per il reclutamento dei giocatori, per far parte della nuova lega voluta da LaVar Ball e da Big Baller Brand e alternativa alla NCAA - dove agli atleti sarà garantito un salario minimo.

Le opinioni pubbliche di Vaccaro contro la NCAA, così come il lobbismo nelle segrete stanze, si sono tutto fuorché affievolite, anzi. E le recenti indagini del FBI sul mondo del college basket non lo hanno, a suo dire, «affatto stupito».

Tutto si può contestare a John Paul Vaccaro, non la voglia di condividere la propria storia e le proprie - spesso impopolari - opinioni.

È passata ben più di un’ora al telefono. Nel ringraziarlo, chiedo timidamente se sarà presente alla Summer League di Las Vegas, in modo da poterlo incontrare di persona.

«Manuel: tu devi assolutamente trovare una copia firmata dell’articolo, io e Pam vogliamo conservarla. E sì, dovrei essere a Las Vegas, sennò ti aspetto qui a Los Angeles! E scrivimi di più di te, voglio sapere cosa fai».

Per la copia firmata, gli ho già spiegato, bisognerà ingegnarsi. Ma questo è Sonny Vaccaro, l’esploratore. All about relationships, all about the next thing.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura