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Sopravvissuti e sopravviventi
06 mag 2015
I Los Angeles Clippers hanno vinto, ma i San Antonio Spurs non hanno perso: cosa rimane del miglior primo turno di sempre e che futuro aspetta le due squadre.
(articolo)
11 min
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Non sono un grandissimo appassionato di serie TV, ma se dovessi considerare la serie tra Spurs e Clippers del primo turno di questi playoff come la Season 1 di un prodotto televisivo, sarebbe sicuramente una delle più grandi di tutti i tempi.

Non è solamente lo svolgimento dell’intera serie, che pure è stato assurdo—vittoria netta dei Clippers in gara-1, overtime in gara-2, blowout degli Spurs in gara-3, pareggio dei Clippers in gara-4 (grazie a Austin Fatherf*****g Rivers), gara-5 decisa da un'interferenza a canestro, impressionante vittoria dei Clips in gara-6 e la gara-7 che spero (SPERO!) abbiate visto tutti—quanto il drama con cui si è conclusa e il modo in cui ci ha lasciato altrettante domande, oltre a quelle a cui ha risposto.

Di cosa parliamo quando parliamo di “fallimento”

In realtà, una delle cose che più mi affascina di Spurs vs Clippers è il modo in cui uno reagisce davanti al risultato finale. Certo, gli Spurs campioni in carica sono stati eliminati al primo turno, ed è solamente la quinta volta che succede negli ultimi 30 e passa anni. Chiaro, avrebbero potuto giocare meglio, e i Clippers tutto sommato hanno meritato più di loro il passaggio del turno. Sicuro, diversi giocatori hanno giocato sotto i loro standard per motivi fisici (Parker e Splitter su tutti), mentali (Green, Diaw e Leonard con troppi alti e bassi) o anagrafici (Ginobili). Ma sono comunque arrivati a pochissimo dal vincere una serie senza il fattore campo contro il miglior attacco della NBA, guidato da due giocatori da top-10 del gioco nel loro miglior momento della carriera.

La differenza tra le due squadre, per dirla con una foto che è già diventata iconica, è stata QUESTA:

Quando la differenza è talmente minuscola da risultare del tutto invisibile nella prospettiva di una foto (ditemi voi se non sembra che Duncan abbia le dita sulla palla), come si può definire la stagione degli Spurs come “un fallimento”? È ovvio che uscire al primo turno di playoff non può essere un risultato accettabile per una squadra di questo calibro, ma se avessero incontrato una qualsiasi altra squadra dell’Ovest (tolta ovviamente Golden State) sarebbero con ogni probabilità passati—per non parlare della Eastern, dove avrebbero agilmente un posto prenotato per la Finale NBA.

Gli Spurs hanno pagato quindi i loro difetti, ma anche un cervellotico e fondamentalmente ingiusto posizionamento delle squadre per i playoff: ok, avrebbero potuto/dovuto vincere l’ultima partita di regular season a New Orleans, ma gli Spurs hanno chiuso con il quinto miglior record della Western Conference (55-27) e per questo avrebbero dovuto incontrare Memphis, non i Clippers (che pure hanno vinto solo una partita in più, perché l’Ovest è folle). Invece ad affrontare i Grizzlies sono stati i Portland Trail Blazers (51-31), ai quali è stato dato il quarto seed per il solo fatto di trovarsi nel Northwest degli Stati Uniti e di giocare in una division che non ha mandato altre squadre ai playoff (mentre la Southwest degli Spurs le ha mandate tutte). Quale sarebbe il merito sportivo dei Blazers per il quale hanno affrontato i Grizzlies invece dei Clippers? È un dettaglio che può sembrare superfluo di fronte al risultato del campo (che è e resta insindacabile), ma la NBA dovrebbe mettere mano alla questione e abolire il quarto seed alla vincitrice di division già da questa estate—e non è detto che non succederà, perché non avere le migliori squadre a maggio è un danno per la Lega, anche se la bellezza di questa serie ha salvato un primo turno piuttosto scarno di partite divertenti.

La realtà dei fatti è che l’uscita degli Spurs in questo primo turno è del tutto equivalente a un’eliminazione in finale di conference, perché San Antonio è stata chiaramente una delle prime quattro squadre della Lega—la sorte ha voluto che incontrassero immediatamente una delle altre tre, ma non c’è alcun “fallimento” né nel risultato finale (sconfitta in gara-7 fuori casa) né tantomeno nel modo in cui hanno perso (tiro in controtempo appoggiato al tabellone di un giocatore zoppo a un secondo dalla fine, oltretutto quasi stoppato). E se non lo si riesce a capire, c’è un problema di fondo nell’osservare la pallacanestro—o forse la desolante necessità di avere un-titolo-a-tutti-i-costi, uno stampino preimpostato secondo il quale se vinci sei un vincente, e se perdi sei un fallimento. Davanti a uno spettacolo come quello che ci hanno regalato queste due squadre, bisognerebbe essere un po’ meglio di così.

La coronazione di CP3 & Blake

Al di là della semantica sulle parole, una delle risposte che ci ha dato la serie è stata che Chris Paul e Blake Griffin sono due giocatori di livello eccezionale. Direte voi: e avevamo bisogno di questa serie per scoprirlo? Beh, stando al “sentire comune” (che quasi sempre sbaglia) un po’ sì: prima dell’inizio della serie i riflettori di tutti erano puntati sulla “legacy” di Paul, come se dall’andamento e soprattutto dal risultato di questa serie dipendesse il suo “status” all’interno della Lega. Come se una carriera giocata a livelli strepitosi debba essere oscurata dal fatto di non aver mai superato il secondo turno di playoff—senza considerare che Paul non ha mai avuto in mano una delle prime 4 squadre della Lega nel corso della sua carriera (almeno fino a questo momento) e che i risultati di squadra non possono essere determinanti nell’analisi di un singolo giocatore (come dice Marc Gasol: «Il basket non è tennis»).

Allo stesso modo, Blake Griffin ha dovuto combattere per anni con l’etichetta dello “schiacciatore e basta” che gli è stata appiccicata quando era rookie e i suoi highlights venivano spinti all’inverosimile dalla NBA, quasi incredula alla possibilità di avere una giovane stella in un mercato come quello di Los Angeles senza la maglia gialloviola dei Lakers. Quell’operazione di marketing però ha oscurato il fatto che Blake viaggiava a quasi 4 assist di media già nel suo primo anno nella Lega (le ali a riuscirci nella storia della NBA non arrivano alla dozzina), così come gli enormi miglioramenti nel suo gioco in post e soprattutto al tiro, tanto in sospensione (tirava poco e male dalla media, ora segna col 40% su oltre 500 tentativi in stagione) quanto ai liberi (al secondo anno tirava col 52%, ora siamo al 73%). Blake Griffin si è trasformato in un’arma totale (come possono testimoniare i Rockets dopo gara-1) e, pur con qualche difetto perché nessun giocatore è assolutamenteperfetto, è chiaramente uno dei primi 10 giocatori della Lega—e se ancora avete dubbi, conviene iniziare a fare più attenzione.

Se gara-7 è stata epica, la gara-6 giocata dai due sul campo dei campioni in carica è stata impressionantemente matura.

Ci sarebbero molti altri personaggi degni di un approfondimento—da DeAndre Jordan e i demoni affrontati per tutta la serie in lunetta a Jamal Crawford altalenante ma alla fine decisivo (con 9 punti mentre CP3 era fuori), dalla solidità di Matt Barnes e J.J. Redick a… no beh, della panchina meglio non parlare—ma questa serie è stata (si spera) la definitiva pietra tombale su qualsiasi discorso sul fatto che Blake & CP3 non siano “vincenti”, qualsiasi cosa essa voglia dire. E questo non è dovuto al risultato finale della serie: se il tiro di CP3 fosse uscito e gli Spurs avessero vinto al supplementare, avreste detto che Paul è un perdente anche dopo una gara-7 giocata in quel modo su uno stiramento al bicipite femorale?

Che futuro per gli Spurs?

Non appena è suonata la sirena di gara-7, le telecamere sono andate a pescare i volti di Gregg Popovich, Manu Ginobili e Tim Duncan. Attorno a questi tre, infatti, gira il futuro prossimo dei San Antonio Spurs. Il primo ha già confermato che rimarrà alla guida della squadra, dato che l’anno in cui ha seriamente pensato di smettere era lo scorso, prima di firmare un’estensione di cinque anni a 11 milioni a stagione (sì Pop, «the paycheck is pretty good»). Il secondo è quello che è apparso più in difficoltà nella serie e, almeno all’inizio, quello più intenzionato a smettere, ma pare che stiano cercando di convincerlo e ci sono buone possibilità che ci riescano, anche perché Tim Duncan dovrebbe tornare per un altro anno. D’altronde «è stato il giocatore più continuo dei nostri playoff, a 39 anni», come ha dichiarato Pop con gli occhi a cuoricino nell’ultima conferenza stampa–un po’ come tutti noi, tra l’altro.

Parafrasando “Moneyball”: come si fa a non essere romantici con Tim Duncan?

Per carità, al momento sono le ipotesi sul futuro di Tim e Manu sono speculazioni senza basi certe (anche perché, banalmente, non ne sono sicuri nemmeno loro), ma dato che la distanza dalla vetta non è così lontana—come detto, sono stati una delle prime 4 squadre della NBA anche quest’anno nonostante i mille infortuni—i due “anziani” del gruppo potrebbero tornare per un ulteriore anno. Questo non significa che il resto della squadra non possa cambiare: come ammesso anche da Pop, gli Spurs avevano già in mente di cambiare la struttura della squadra questa estate dopo 4 anni con lo stesso nucleo, tanto è vero che i free agent in scadenza sono ben dieci. E se per alcuni non ci sono dubbi sulla permanenza (come Kawhi Leonard), per altri come Danny Green e il nostro Marco Belinelli il discorso potrebbe essere più complicato.

Non è un segreto che gli Spurs vogliano provare a convincere uno dei pezzi grossi sul mercato (leggi: LaMarcus Aldridge o Marc Gasol) a unirsi alla squadra e passare i prossimi 4 anni cercando di vincere il titolo insieme a Parker, Leonard e allenati da coach Pop. Certo, dovrebbero riuscire a convincerli a rinunciare a diversi soldi—in particolare al quinto anno di max contract che certamente arriverà rispettivamente da Portland e Memphis, che li porterebbe a guadagnare oltre 25 milioni a 35 anni compiuti—ma non è una missione così impossibile, specialmente se Duncan e Ginobili si rendessero disponibili a tornare per un ulteriore ultimo giro di giostra.

Se riuscissero a mettere le mani su un giocatore del genere, però, gli Spurs avrebbero poche risorse per mettere assieme un’offerta competitiva ai vari Green e Belinelli, che con le loro doti di tiro (nel caso di Green unite anche ad una difesa perimetrale di alto livello) potrebbero comandare un contratto “importante” sul mercato. Sarebbero rinunce dolorose, così come la possibilità di scambiare Tiago Splitter (il segreto sempre taciuto della loro difesa) per creare spazio salariale, ma se è il prezzo da pagare per mettere le mani su uno dei due big e dare il via a una “nuova era”, gli Spurs avrebbero tutto l’interesse a farlo. E come insegna il caso George Hill, se c’è da fare un sacrificio per migliorare la squadra, sono disposti a correre il rischio.

Uno che di sicuro non si muoverà è Kawhi Leonard, che se anche non firmerà l’estensione al massimo salariale riceverà più di un’offerta di quel tipo sul mercato, portando gli Spurs a pareggiare qualsiasi cifra. La sua serie contro i Clippers è stata altalenante—ha fatto vedere lampi di dominio insieme a grosse pause mentali all’interno della stessa partita—e si è visto bene che il “passaggio di consegne” da Parker a Leonard è ancora in bacino di carenaggio. Lo stesso Pop ha indicato nella “continuità” l’aspetto del gioco su cui Kawhi deve migliorare di più: in sostanza, deve imparare a essere il miglior giocatore della squadra ogni singola sera. Più facile a dirsi che a farsi, ma quello che ha fatto vedere negli ultimi tre mesi di regular season (che lo hanno sostanzialmente portato a vincere il premio di Difensore dell’Anno) dovrebbe aver dato agli Spurs tutto il materiale necessario per capire che in Kawhi Leonard ci sono le stigmate della superstar. Non sarà riuscito a guidare la squadra al secondo turno nelle partite decisive, ma fa tutto parte di una curva di apprendimento che lo porterà a essere uno dei primi 5 giocatori NBA sui due lati del campo—se non lo è già.

L’obiettivo è essere sempre questo giocatore. La cosa spaventosa è che potrebbe anche riuscirci.

Conclusioni

Il fatto che i San Antonio Spurs per la quinta volta nella loro storia non siano riusciti a difendere il loro titolo non dovrebbe cambiare di una virgola il fatto che siano stati la franchigia di riferimento degli ultimi 18 anni di NBA. Non è solo una questione di successi (anche perché, banalmente, a fare da contraltare a 5 titoli NBA ci sono anche 13 anni di non-vittorie), ma piuttosto di metodo, un modo di lavorare e di costruire una squadra che è stato copiato da tantissimi, tanto nelle dirigenze (che davanti a una scelta da prendere spesso si chiedono «cosa farebbero gli Spurs?») che sulle panchine (Kerr, Budenholzer, Monty Williams, nel recente passato anche Vaughn, Mike Brown, Vinny Del Negro e Avery Johnson). Piuttosto, la loro incapacità di ripetersi dovrebbe testimoniare piuttosto bene la capacità che ha la NBA di creare e proporre sempre nuove contender, e quindi di quanto sia dannatamente difficile vincere in questa Lega.

Ora tutti sono curiosi di sapere cosa succederà quest’estate e di prendere appunti su cosa decideranno di fare Popovich e R.C. Buford per continuare a mantenere gli standard d’eccellenza a cui hanno abituati negli ultimi due decenni. Sia che Duncan e Ginobili tornino oppure no, l’estate più importante per i prossimi 10 anni degli Spurs è quella che sta arrivando.

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