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Sostiene Keita
17 mag 2016
Abbiamo intervistato il Prof. Seydou Keita, uno dei più grandi giocatori passati nel nostro calcio negli ultimi anni.
(articolo)
11 min
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Nell’azione del gol di Nainggolan contro il Napoli, che almeno per qualche settimana ha aperto la corsa al secondo posto in campionato, Seydou Keita tocca palla tre volte.

A quei 19 passaggi totali che portano Nainggolan al tiro dal limite dell’area partecipa quasi tutta la squadra, salendo un centimetro alla volta verso la porta di Reina. Ognuno a modo suo: Maicon con un colpo di esterno per Salah tra le linee, l’egiziano con l’assist per Nainggolan, poi ovviamente c’è la palla di esterno di Totti per l’inserimento di Pjanic che controlla di petto in area di rigore. Seyodu Keita gioca due palle a sinistra, poi effettua il cambio di gioco per Maicon, da cui riparte l’azione. Un lancio di una trentina di metri con la palla che galleggia in aria e segue una traiettoria leggermente all’indietro. Una giocata semplice, che serve a far uscire la palla da una fascia ormai satura di giocatori.

Non è l’ultima palla giocata da Keita in quella partita, ma rappresenta bene il ruolo avuto dal maliano in queste due stagioni, e quella con il Napoli per ora è l’ultima partita giocata da Keita con la Roma: infortunato per le ultime tre di campionato e a scadenza di contratto. È fin troppo facile, in questo caso, parlare di Keita come di ago della bilancia, ma il modo di dire inaccurato: non è l’ago a spostare il peso da un piatto all’altro, Keita invece fa correre da una parte all’altra una dozzina di giocatori. È questo tipo di carisma che gli ha permesso di inserirsi da subito in un campionato in cui non aveva mai giocato a 34 e 35 anni, ritagliandosi un suo spazio in una squadra ricca di giocatori carismatici e con molta competizione a centrocampo.

Seydou Keita ha stupito tutti, a cominciare dai tifosi romanisti, che non sapevano bene come prendere il suo arrivo (aveva 34 anni, veniva da un anno in Cina e sei mesi a Valencia, sarebbe bastato guardare quelle partite per vedere che era in forma, ma chi ha il tempo di verificare ogni suo giudizio?) e che adesso lo chiamano “Il Professore” per sottolineare le sue qualità intellettuali, anche se in senso strettamente calcistico.

L’ironia romana non sarà il miglior metro di giudizio per valutare le qualità peculiari di un calciatore, ma con Seydou Keita sembra aver colto nel segno. «Non abbiamo bisogno solo delle gambe», mi dice a un certo punto dell’intervista, «ma anche della testa».

Neorealismo maliano

Per fare colpo su Seydou, comincio l’intervista citando un pezzo di Fabrizio Gabrielli in cui la sua storia viene messa in collegamento con la leggenda di Sunjata Keita e Salif Keita, primo pallone d’oro africano e leggenda del calcio maliano, nel cui Centro di Formazione è cresciuto calcisticamente Seyodu.

Il nome Keita viene da una parola composta che significa “prendere l’eredità” e simbolicamente, quindi, Seydou può essere visto come una specie di erede al trono. Il piano simbolico, però, non sembra interessargli granché. «Sì è vero che è un nome importante in Mali, i Keita sono considerati come i discendenti di Sunjata», poi aggiunge: «È vero, è così, anche se è passato molto tempo…». Anche quando gli chiedo di Salif Keita resta con i piedi per terra: «Non ho legami di sangue con lui, in realtà. Sono stato nel suo Centro di Formazione, prima di andare a Marsiglia, abbiamo un rapporto molto professionale».

È cresciuto con dodici fratelli e sorelle, ha perso il padre da giovane e il sabato e la domenica, invece di giocare, aiutava la madre a vendere vestiti. Ricorda quel periodo quando gli chiedo se è stato difficile adattarsi in Europa: «All’inizio mi mancava la mia famiglia, le mie abitudini, faceva freddo, non avevo amici. Ma ho fatto molti sforzi per aiutare mia madre, per cui quando sono arrivato in Francia conoscevo già la difficoltà».

Keita non lascia trasparire nessuna emozione, ma quando vuole sottolineare un concetto colpisce il legno del tavolo con il dorso della mano sinistra che ci tiene appoggiata per tutta l’intervista. Questo è uno di quei momenti: «Sapevo che sopportando lo sforzo avrei potuto sistemare la mia vita, e soprattutto quella delle persone che mi sono vicine». Colpo sul tavolo. «E il fatto di poter aiutare le persone che mi sono vicine è il mio più bel trofeo».

Cambiamenti

Keita, anche prima della parentesi cinese, ha avuto una carriera assurda. In Francia a diciassette anni, a diciannove MVP del Mondiale Sub 20 a cui partecipavano anche Ronaldinho e Xavi (il Mali si classificò secondo), con l’Olympique Marsiglia esordisce direttamente in Champions League poi va in prestito a Lorient, che lo compra ma dopo un anno lo dà in prestito a sua volta al Lens, dove alla fine resta cinque stagioni e se ne va da capitano. Arriva nel campionato spagnolo relativamente tardi, a 27 anni compiuti, e dopo una stagione a Siviglia lo vuole Guardiola come primo acquisto di quel Barça che sarebbe entrato nella storia.

Il primo cambiamento, quello più brusco, è quando a Lens viene arretrato davanti alla difesa. «Potevo scegliere: o diventavo un centrocampista centrale difensivo, o giocavo sulla fascia. E dato che mi piace toccare la palla e partecipare al gioco ho scelto di giocare al centro. Giocavamo con il 4-4-2: due centrali, due ali e due punte. Quando giochi al centro del centrocampo devi difendere bene, non puoi andare a fare il numero dieci. Ho dovuto forzare un po’ la mia natura, ho perso qualche qualità offensiva ma ne ho guadagnate altre difensive». Subito dopo, però, ci tiene a specificare che è il miglior marcatore della storia della Nazionale maliana (24 gol). E anche quando parla dei quattro anni sottolinea che ha segnato sempre più di 6 gol, tranne nell’ultima stagione (dimentica, forse, che nell’ultima stagione a Lens ne ha segnati addirittura 15, tra campionato e coppe).

Il salto a Barcellona, a 28 anni, dall’esterno immagino difficile quanto imparare a camminare su una fune a sessant’anni. «A Siviglia ero un po’ nello stesso sistema di Lens. Anche se in Spagna si gioca di più la palla ero comunque un centrocampista difensivo. Da Siviglia a Barcellona è stato un cambiamento. Un altro modo di pensare il calcio, di giocare, di allenarsi. Ma poi è successo tutto naturalmente, anche grazie ai compagni e all’allenatore, certo».

C’è qualcosa di respingente in Keita quando parla di se stesso. Ho intervistato altri calciatori e in tutti ho notato un atteggiamento sulla difensiva del tipo: tutto quello che dici potrà essere usato contro di te. Ma nel caso di Keita sembra sopratutto una forma di umiltà che lo fa diventare quasi anti-narrativo. Racconta tutto come se fosse normale, quasi scontato, come se fosse uno che ama il suo lavoro, che ama farlo bene, ma che non ci vede niente di speciale.

Anche passare dal calcio africano, a quello francese, a quello spagnolo facendosi amare da tutte le tifoserie, imponendo il proprio stile in una squadra della provincia francese (anche se il Lens di Keita, in epoca pre-PSG, era una delle migliori squadre di Francia dopo il Lione) come all’interno del gioco di posizione catalano, sembra una cosa banale. Lui dice: «Io mi sono adattato bene dovunque sia stato. Ad esempio dopo la Cina sono stato a Valencia ed è andata molto bene. Anche a Roma, nonostante qualche infortunio che ho avuto, sto benissimo. È che mi adatto a quello che mi trovo davanti. Per giocare a calcio bisogna essere pronti mentalmente. Intelligenti».

Insisto perché la nostra idea di quel Barcellona è talmente alta che si è arrivati a dire che per giocare bene in quel sistema bisogna essere cresciuti all’interno di quel sistema. La Masia, Xavi, Iniesta, Sergio Busquets che gioca in automatico perché è da quando ha sei anni che fa quel tipo di passaggi. Guardiola un filosofo tormentato che comanda i suoi giocatori con il pensiero. «No un filosofo, no», dice Seydou. «Ma è un grande allenatore che ama far giocare bene le sue squadre, collettivamente, e controllando il gioco». Poi aggiunge, forse perché ha pensato fossi ironico nel chiamare Guardiola “filosofo”: «Io non ci vedo niente di male».

La sua idea di calcio

«Mi piacciono tutti quelli che fanno bene il proprio lavoro. Che giocano bene a calcio, che fanno degli sforzi che non sono per forza visibili. Recuperare una palla è altrettanto importante di fare un assist. Questa è la mia idea di calcio. Mi piacciono i giocatori che si impegnano per la squadra, non quelli individualisti»

Si racconta che nel 2009, prima della prima finale di Champions League tra Barcellona e Manchester United (2-0), Guardiola avesse chiesto a Keita di giocare terzino. E che Keita abbia rifiutato preferendo la panchina.

«Non è che ho rifiutato», dice ridendo, «è che non sono egoista. Ho giocato i quarti di finale, la semifinale… in finale c’erano Dani Alves e Abidal squalificati, Henry e Iniesta che rientravano da un infortunio. Eravamo in tre per due posti a sinistra: mezzala e ala. Più il posto di Abidal squalificato. E rispetto ad Henry e Iniesta era più facile che giocassi io a terzino. Ma quando stai per giocare una finale di Champions League non puoi fare l’egoista. E se sbaglio una linea, sbaglio un fuorigioco e prendiamo un gol? Non potrei mai perdonarmi. Sono solo stato sincero con l’allenatore. Gli ho detto: la scelta spetta a te, ma se il Barcellona perde per colpa mia non potrei perdonarmelo. C’è un terzino sinistro, io do solo la mia opinione, poi sei tu che decidi».

Da come lo racconta Seydou, sembra che questo aneddoto (oltre a far emergere una delle caratteristiche peculiari di Guardiola, che si fida a tal punto di certi giocatori che li farebbe giocare anche in porta) sia all’origine anche della stima più che calcistica che Guardiola in più di un’occasione ha mostrato nei suoi confronti. Keita continua: «Dopo averci riflettuto ha scelto Silvinho, e io sono entrato al posto di Henry. Abbiamo vinto e siamo stati tutti felici e contenti. Ma se avessi giocato terzino magari le cose sarebbero andate male, chi lo sa? E da quel giorno con Guardiola abbiamo avuto buoni rapporti, perché sa che penso prima alla squadra che a me».

Pepe

Durante un Clasico particolarmente infuocato, ai tempi di Mourinho, Pepe ha rivolto a Keita un insulto razzista. Keita se l’è presa e ancora anni dopo, durante un’amichevole con la Roma, si è rifiutato di dargli la mano. «È inutile che racconto di nuovo quella storia. Ti posso dire che l’ultima volta, quando abbiamo giocato a Madrid (lo scorso marzo ndr) sono andato a salutarlo e ho capito che si è sentito sollevato. Perché dopo una punizione è venuto verso di me mi ha detto: Gracias. Nella vita si può sbagliare, e poi è vero anche che io sono stato duro con lui, perché non capivo, perché per me siamo uguali, anche Pepe è nero come un nero».

Avevo tirato fuori la questione perché vorrei parlare del problema del razzismo nel calcio. Ma Keita ancora una volta rifiuta il piano simbolico. «Il razzismo è un problema di educazione. Le persone ne soffrono per strada tutti i giorni e io non voglio mettermi in avanti perché ne soffro molto meno rispetto agli altri. Se ne parlo ne parlo per gli altri, perché per me è molto raro. Le persone per strada soffrono molto di più».

E come musulmano che ne pensa di chi critica Salah perché si inginocchia dopo aver segnato? «È solo ignoranza. Vedo molti giocatori che si fanno il segno della croce, che cambia? È la stessa cosa. Per me queste sono sciocchezze.»

Roma

Keita che dice che è stato difficile lasciare Valencia e che venire a Roma è stata una scelta personale, perché «c’erano molti francesi e per il clima e perché è una grande squadra». Rudi Garcia non gli ha garantito il posto in squadra ma Keita è venuto lo stesso, rifiutando l’offerta del Liverpool: «Ho sentito che non era la scelta giusta. E non rimpiango di essere venuto qui, a parte qualche piccolo infortunio…». Si interrompe e si corregge: «Che poi ho avuto l’infortunio peggiore della mia carriera, per fortuna da gennaio sono tornato a un buon livello e ho giocato quasi sempre».

A Roma si dice che sia stato Spalletti a farlo rinascere: «Non è cambiato molto per me personalmente. Spalletti è molto esigente con tutti i giocatori ma non con me in particolare. Quello che è cambiato per me è che ho fatto due partite brutte, a Bologna e a Barcellona (lo scorso novembre, poi non ha più giocato fino a gennaio ndr), dove giocavo con una gamba sola. Non era previsto che giocassi quelle partite, perché sentivo dolore. Mi faceva male anche guidando. Ma le circostanze hanno obbligato l’allenatore a farmi giocare. Poi qualcuno ne ha approfittato per criticarmi e oggi sembra che Spalletti mi ha cambiato. Ma se è vero che tatticamente è molto bravo, ed è molto esigente, io ho soprattutto tutte e due le gambe».

Adesso Seydou Keita ha 36 anni e non è chiaro il suo futuro. «Non ho mai forzato il mio addio da un club, le cose si sono sempre fatte in maniera naturale. Ho avuto l’opportunità due volte di andare in Qatar, l’anno scorso e a gennaio. Anche se in Qatar avrei guadagnato di più, l’allenatore e i dirigenti mi hanno detto che se fossi andato via sarebbe stato complicato sostituirmi. Il rispetto è importante e ho pensato al bene del club. E sono felice della scelta, ancora oggi sono molto contento».

Quando Seyodu Keita è arrivato a Roma sembrava solo un altro ex giocatore di passaggio in una Serie A in decadenza. Il ricordo che lascia è quello di un professionista serissimo e appassionato, animato da un tipo di talento meno evidente di altri (quello della polivalenza, della precisione, della semplicità, della capacità di adattarsi a contesi diversissimi) che non per questo è meno importante nel calcio, e gli ha permesso di giocare fino a 36 anni ad alto livello. Jorge Valdano, citando l’umiltà come una delle virtù fondamentali per un leader, ricorda che persino Alfredo Di Stéfano se gli facevano troppi complimenti rispondeva: “Io non giocavo da solo”.

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