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Specialone Hype
15 set 2015
Puntata speciale di Hype, la rubrica nella quale analizziamo giocatori al confine tra il campione e la promessa. I protagonisti sono: Martial, Alex Sandro, Rüdiger, Perisic, Lemina, Kovacic, Otamendi e Abdennour.
(articolo)
38 min
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Per chiudere la serie dedicata ai giocatori che hanno cambiato maglia all'inizio della stagione 2015/16 abbiamo scelto altre 8 promesse che potrebbero diventare campioni molto presto.

Anthony Martial, Manchester United

di Alfredo Giacobbe (@la_maledetta)

È stato l’ultimo botto del mercato e anche quello più fragoroso. Anthony Martial è scappato da un Monaco in disarmo, dopo che ha fallito l’accesso alla fase a gironi di Champions League, per accasarsi al Manchester United. A essere sensazionale è la cifra spesa dagli inglesi per aggiudicarselo: un corrispettivo iniziale di 49 milioni di euro, che può lievitare fino a 79 milioni al conseguimento dei vari bonus. Un transfer fee mostruoso, che ha fatto di Martial il giocatore Under-21 più caro della storia del calcio, una classifica nella quale lo United ben figurava con altri tre nomi (Luke Shaw, Wayne Rooney e Anderson) nei primi dieci.

Sembrerebbe che van Gaal abbia dirottato su di lui il 100% del budget stanziato inizialmente per tentare l’assalto a Thomas Müller, e certo, ora si scopre che Ryan Giggs seguiva l’attaccante del Monaco da più di un anno, ma quella dello United è stata una puntata così clamorosa nelle proporzioni da sembrare mossa dal panico dell’ultim’ora più che dalla calma ragionata della programmazione.

L’Inghilterra era nel destino di Martial: a 14 anni fu provinato dal Manchester City; a 17 il Tottenham fu sul punto di prenderlo, poi arrivò il Monaco. Neanche loro però avrebbero immaginato di tirar fuori una tale plusvalenza da quel diciasettenne dell’Olympique Lione, pagato 5 milioni di euro. Già durante il primo anno nel Principato, Martial era la prima riserva di Radamel Falcao e lui stesso dichiarò di aver rubato un po’ del fiuto del gol del colombiano e la capacità di leggere lo spazio di Emmanuel Rivière.

Martial porta con sé oltremanica la nomea di “nuovo Thierry Henry”, un’etichetta appiccicatagli più per esigenze giornalistiche che per reali somiglianze. Tra i due giocatori, però, non mancano i punti di contatto: le comuni origini martinicane e i natali nelle banlieues parigine; la casacca biancorossa dei monegaschi, indossata da Titì alla stessa età. Il confronto col miglior marcatore della storia dell’Arsenal non è facile, e non è neanche giusto, perché Martial è tutt’altro tipo di attaccante. Oggi è più una versione edulcorata del suo nuovo capitano, Wayne Rooney, che altro: è una punta centrale compatta, forte sulle gambe, reattivo nei primi passi e agile nel dribbling. La sua dote migliore è la velocità di base, che lo rende imprendibile quando viene lanciato in campo aperto.

Martial si muove molto su tutto il fronte d’attacco, riuscendo a mettere pressione ai difensori e a contestare palloni ai centrocampisti. La scorsa stagione ha mostrato doti di finalizzatore puro: ha realizzato 9 gol in 1828 minuti giocati, avendo tirato verso la porta solo 2,5 volte ogni 90 minuti: è bastato poco per diventare l'Under-20 con più gol in stagione nei cinque maggiori campionati europei.

Può, e deve, migliorare il suo gioco sotto molti aspetti: il colpo di testa non è il suo miglior fondamentale e anche lo stacco non è irresistibile; ha la tendenza a portarsi la palla sempre sul destro, sia per il tiro che per il dribbling, anche se il suo piede debole è piuttosto buono; ma soprattutto dovrà velocizzare i tempi di esecuzione, perché in Inghilterra non gli permetteranno di tenere palla tra i piedi tanto quanto gli riusciva di fare contro i difensori francesi.

In due mesi, van Gaal si è liberato di Falcao, van Persie e infine del Chicharito Hernández, passato al Bayer Leverkusen. Ora le sue uniche scelte per il ruolo da numero nove sono proprio Martial e Rooney. Il capitano scouser non sta convincendo nella posizione di punta e non è escluso che, nel corso del tempo, Martial prenda il suo posto, permettendo a Rooney di agire da trequartista.

Van Gaal sa che dovrà concedergli tempo, lo ha ammesso lui stesso in una conferenza stampa, per permettergli di capire il ritmo della Premier League. Intanto, l’incremento estivo di notorietà lo ha portato all’esordio nella Nazionale maggiore, 15 minuti contro il Portogallo in amichevole. Se lo vedremo o no all’Europeo dipenderà anche dal minutaggio che avrà con il Manchester United, ma è un giocatore di sicuro avvenire che, chissà tra quante stagioni, magari varrà il prezzo che è stato pagato oggi per lui.

Alex Sandro, Juventus

di Daniele V. Morrone (@DanVMor)

Il ruolo di terzino è tanto importante nel calcio contemporaneo quanto pochi sono gli interpreti di livello in circolazione. A Porto, però, nelle ultime stagioni avevano a disposizione una delle migliori coppie in circolazione, quella brasiliana Alex Sandro-Danilo, presa in blocco dal Santos per circa 22 milioni nel 2011.

Il livello della coppia è stato tale da incidere in modo determinante anche in Champions League, dove lo scorso anno il Porto è rimasto imbattuto fino alla goleada subita nel ritorno contro il Bayern, partita in cui, non a caso, nessuno dei due era disponibile. L’allenatore del Porto, Lopetegui, avendo a disposizione diverse opzioni per gli esterni alti del suo 4-3-3, chiedeva alla coppia di adattarsi a seconda di chi giocava davanti: Alex Sandro e Danilo giocavano anche venti metri dentro al campo in fase di attacco posizionale, quando gli esterni alti pestavano la linea laterale; nel caso in cui, invece, gli esterni schierati in campo avessero la tendenza ad accentrarsi, allora erano i terzini a cercare la linea di fondo.

I due brasiliani hanno dimostrato grande versatilità: la catena di sinistra formata da Alex Sandro, Óliver Torres come mezzala di possesso, e Brahimi esterno, è finita per diventare una delle più interessanti d’Europa, potendo abbinare corsa, tecnica e proprietà di palleggio. I soldi spesi dalla Juve per prenderlo sono tanti, ma ampiamente compensati sia dal livello del brasiliano di 24 anni, sia dal fatto che potenzialmente potrà garantire molti anni di titolarità.

Alex Sandro è un giocatore versatile, capace di giocare sia terzino che esterno di una difesa a cinque (e, in caso di emergenza, anche difensore a sinistra dei tre centrali) in grado di farsi senza problemi tutto il campo per tutta la durata dei 90 minuti. Atleticamente superbo, ha giocato ogni minuto della scorsa Champions League senza risentire di cali di ritmo, come fosse il pistone di un motore acceso.

Con l’ottimo fisico per il ruolo (180 cm per quasi 80 kg) e i muscoli elastici in grado di dare reattività immediata a ogni movimento, si può quasi dire che la sola fascia gli stia stretta. Per capacità fisiche gli bastano tre falcate per arrivare in ogni punto della sua zona di competenza, anche in caso di ritardo rispetto alla posizione del pallone. Copre tutta la sua fascia con disarmante facilità e a volte è così sicuro delle proprie doti atletiche da giocare sul filo del rasoio con il giocatore della sua zona di competenza. Prova molto l’anticipo, con tempi spesso avventurosi, e per questo prende un certo numero di gialli (28 negli ultimi due anni).

Con le doti atletiche copre anche alcune lacune tattiche in fase difensiva: era arrivato in Europa letteralmente senza saper difendere, e anche se è decisamente migliorato rischia comunque di trovare difficoltà in un campionato come la Serie A, soprattutto nella ricerca delle distanze con il compagno di reparto e l’avversario; e anche con l’altezza della linea difensiva (può distrarsi e non seguirla rimanendo dietro anche di un metro) o nel tempismo nella diagonale.

Con il pallone tra i piedi però Alex Sandro rende perfettamente giustizia alla tradizione dei terzini brasiliani. Non esagero se dico che è già ora il miglior terzino in Italia in fase di possesso. Ha un enorme repertorio di finte con cui saltare l’avversario, al punto da essere creativo come un’ala classica, nel controllo utilizza anche il piede debole, mantenendo comunque la sfera vicina, anche fuori equilibrio. In campo aperto poi non c’è storia: il sinistro è di livello e gli permette anche di arrivare alla conclusione se si trova in zona centrale dopo la transizione.

Ma non corre solo con la palla, il brasiliano è un passatore sicuro, che non si limita allo scarico facile per il compagno vicino; in questo la Juventus trova un giocatore in grado di aiutare sia la costruzione dell’azione del basso che l’attacco posizionale senza alcun problema di precisione nell’esecuzione. Non perde quindi l’apporto in fase di possesso rispetto a Evra, ma guadagna un giocatore in grado di saltare l’uomo sulla fascia e in grado di arrivare al cross dal fondo con continuità se richiesto da Allegri.

Antonio Rüdiger, Roma

di Dario Saltari (@DSaltari)

Tra le tante cose preoccupanti nell’esordio in campionato della Roma a Verona c'erano anche le condizioni di Leandro Castán. Il brasiliano, una delle colonne portanti dell’ormai sbiadita Roma di Garcia 1.0, è sembrato spaesato, lento, lontanissimo dalla sua abituale forma psico-fisica. È una cosa probabilmente naturale per un calciatore che ha passato quasi un anno a sconfiggere un cavernoma al cervello, ma che ha comunque stupito negativamente, visto l’ottimo precampionato. Verona-Roma ci ha detto che prima che Castán torni sé stesso ci vorrà molto tempo e che, quindi, nella riuscita complessiva della stagione della Roma sarà fondamentale l’apporto del suo primo sostituto. Per quel ruolo, contro la Juventus, Garcia ha scelto De Rossi; per il resto della stagione Sabatini ha scelto Antonio Rüdiger.

Per descrivere sommariamente il tedesco (la madre, della Sierra Leone, è fuggita nel 1991 dal suo paese a causa della guerra civile) si usano di solito le sue caratteristiche più evidenti. È un giocatore forte fisicamente: 191 cm di altezza per 85 chili; con una carriera precoce: ha esordito in Nazionale maggiore nel maggio dell’anno scorso, a 21 anni.

Rüdiger è un calciatore inusuale e per certi versi fuorviante. Tatticamente, innanzitutto, perché è un destro naturale che gioca prevalentemente da difensore centrale sinistro e che può ricoprire anche il ruolo di terzino destro. Ma anche fisicamente, perché, nonostante l’enorme stazza fisica, è estremamente veloce.

La velocità gli permette di coprire bene la profondità alle proprie spalle, soprattutto con movimenti in diagonale verso gli esterni, negli spazi lasciati dalle avanzate dei terzini. In questo senso, il contrasto o l’intercetto in corsa a rubare palla all’ala avversaria è forse il gesto tecnico che maggiormente lo caratterizza. Per questo motivo, Rüdiger è un giocatore perfetto per squadre ambiziose che schiacciano l’avversario nella propria metà campo con una linea di difesa molto alta. Tra l’altro, ha anche un buon tempismo nell’anticipo.

La velocità, però, è un’arma a doppio taglio. Rüdiger finisce spesso per coprire porzioni di campo troppo ampie, perdendo la posizione. Più in generale, il tedesco è un giocatore decisamente istintivo a cui capita spesso di interpretare in maniera grossolana i tempi di intervento e attesa.

Su questo sembra influire anche l’estrema (eccessiva?) fiducia nelle proprie capacità. È una caratteristica che in realtà si nota anche fuori dal terreno di gioco. Qualche esempio è arrivato già dalla prima intervista ufficiale con la maglia della Roma. Alla domanda se si ispirasse a Jérome Boateng, giocatore al quale viene spesso paragonato e da lui descritto come il miglior centrale tedesco in circolazione, la risposta è stata: «Si, perché siamo della stessa altezza, abbiamo lo stesso colore di pelle e siamo della stessa città».

Una risposta ambigua, ma quando alla domanda: «Quali aspetti del tuo gioco pensi di poter migliorare?», ha risposto: «Dovrei segnare di più su calcio d’angolo», l'impressione è di un giocatore con molta, troppa, fiducia nelle sue qualità. Sostanzialmente, è come se un portiere dichiarasse che il suo punto debole sono i dribbling.

Ma un fondo di verità nella dichiarazione di Rüdiger c’è: uno degli aspetti su cui il tedesco può crescere esponenzialmente, ed è paradossale vista la stazza fisica, sono proprio i duelli aerei. L’anno scorso in Bundesliga il tedesco ha vinto in media 3,2 duelli aerei, una cifra sulla carta molto alta, se non fosse che rappresenta solo il 54% del totale dei duelli aerei ingaggiati. Tanto per capire le potenzialità: ha segnato solo un gol su calcio d’angolo con la maglia dello Stoccarda, ma quando l’ha fatto è riuscito a superare il portiere che cercava di afferrare il pallone con le mani.

Un altro aspetto su cui Rüdiger sembra poter crescere molto è la costruzione del gioco dal basso tramite impostazione o dribbling. È un aspetto su cui per adesso sembra essere piuttosto timido, limitando i passaggi difficili e le sortite offensive per ridurre al minimo la possibilità di errore (e infatti commette pochissimi errori difensivi: nelle tre stagioni in prima squadra allo Stoccarda solo quattro, di cui due decisivi). Per adesso, la sua abilità tecnica rimane una pietra preziosa ancora nascosta, una potenzialità da sviluppare.

Quello che sembra essere più un limite che un margine di crescita, invece, sono gli uno contro uno. Rüdiger tende ad affrontare gli avversari quasi sempre frontalmente, in maniera molto spavalda, risultando quindi estremamente vulnerabile nei confronti dei giocatori abili nel dribbling. Se puntato, viene saltato spesso e, a volte, è costretto a commettere falli in zone pericolose del campo.

In definitiva, sembra essere quasi insuperabile quando la palla è ancora potenzialmente contesa (duelli aerei, copertura della profondità, anticipi) mentre soffre ancora quando deve interpretare situazioni in cui sono gli avversari a decidere l’andamento del gioco (dribbling, uno contro uno, previsione delle linee di passaggio).

La Roma sarà per Rüdiger la prova del nove definitiva per crescere e superare i propri limiti. Con i difetti strutturali dei giallorossi in impostazione dal basso, il tedesco si ritroverà costretto a uscire palla al piede dalla linea difensiva o tentare passaggi difficili esponendosi di più all’errore. Inoltre, accanto alla spavalderia, Rüdiger dovrà dimostrare l’umiltà di saper imparare. In rosa ci sono due maestri nell’uno contro uno come Manolas e Castan, che saranno utili per non finire in quel tritacarne che è un’opinione pubblica attenta alla fase difensiva come quella italiana.

Ivan Perisic, Inter

di Emiliano Battazzi (@e_batta)

La soluzione tattica delle ali a piede invertito è ormai così diffusa che se ne discute l’efficacia anche a livello statistico. Le ali a piede invertito entrano sempre in campo in diagonale per cercare il tiro; lasciano spazio per i movimenti della catena di fascia, con il terzino che può inserirsi; tendono a disorientare la linea difensiva avversaria, che si deve prima allargare e poi compattare in zona centrale. Si tratta però di giocatori che per caratteristiche non riuscirebbero granché bene nel ruolo di ala pura. Ad esempio, chi farebbe giocare Robben sulla sinistra per portarlo al cross, invece di spingerlo al tiro? Nessuno, appunto.

Ci sono giocatori che rendono più difficile questa distinzione e tra questi l’esempio più netto è quello di Ivan Perisic. Wikipedia non si sbilancia sul piede naturale del croato, ma basta aver visto qualche partita per capire che preferisce il destro, anche se utilizza il sinistro con la stessa precisione. La premessa è necessaria per spiegare anche la duttilità di Perisic: come si fa a essere trequartista, capocannoniere e ala nella stessa vita calcistica?

La risposta sta in alcune caratteristiche che lo rendono un giocatore speciale: ad esempio, la velocità sia sul lungo che sul breve; l’abilità tecnica che comprende tutte le possibili opzioni, dal dribbling al tiro passando per gli assist; la competitività agonistica, che gli permette di vincere duelli aerei o in mezzo al campo.

Nella svolta della sua carriera, Perisic passa dal Roeselare al Club Brugge: è il 2009, ha 20 anni e ancora non si sa bene che giocatore sia. Al Brugge si accorgono della sua peculiarità: nella prima stagione gioca spesso da ala a piede invertito, sulla sinistra, ma anche dietro le due punte Akpala e Kouemaha, da trequartista.

Nella stagione successiva, l’allenatore Koster lo utilizza anche come seconda punta, un’intuizione intelligente: Perisic ha i tempi di inserimento giusti, sa attaccare la profondità, ma gioca con i compagni, ha capacità di tiro e un ottimo colpo di testa. Kouemaha gli fa da target striker, regalandogli spazio a sufficienza per segnare ben 22 gol complessivi e diventare capocannoniere del campionato belga. Basta guardare tutti quei gol per capire che il repertorio è ampio: ben 4 di testa, 3 su calcio di punizione, molti altri con un taglio in diagonale sul primo palo o con una progressione sulla sinistra per poi rientrare sul piede destro.

La fama che ne deriva, paradossalmente, lo allontana dalla porta: nel Borussia Dortmund di Klopp ritorna a giocare da ala sinistra nel 4-2-3-1. Gli vengono richiesti molta più concentrazione, aggressività e automatismi di gioco: i gialloneri vincono Bundesliga e Coppa di Germania, ma Perisic non sembra troppo a suo agio. Non gli manca l’intensità, ma la costanza e l’attenzione. È qualcosa su cui deve ancora lavorare, o forse deve semplicemente avere meno compiti in fase difensiva: resta il fatto che a volte Perisic sembra completamente dimenticarsi dell’avversario di fascia, oppure non scala la posizione a copertura del compagno. L’idea che sia un problema di concentrazione è rafforzata dagli strani errori che il croato a volte commette: passaggi completamente errati per concetto e misura.

Con Klopp uno così dura poco: nella seconda stagione parte spesso dalla panchina, poi dal ritiro della Nazionale croata si lamenta dello scarso impiego, e il tecnico tedesco lo manda via appena possibile da Dortmund. Nella sessione invernale di calciomercato finisce al Wolfsburg: di nuovo un 4-2-3-1, di nuovo sulla sinistra.

Nella prima stagione intera segna ben 10 volte, che è il suo massimo a esclusione dei 22 gol da seconda punta nel Brugge: funziona benissimo il tandem con il connazionale Olic, un attaccante che si muove molto su tutto il fronte offensivo, crea ampi spazi per i tagli in diagonale degli esterni d’attacco, non riempie costantemente l’area ed è un giocatore associativo. Per segnare molto, quindi, Perisic ha bisogno che la punta centrale non sia un riferimento fisso, perché a quel punto il suo stile di gioco cambia: nella scorsa stagione, con l’olandese Bas Dost come target striker, raddoppia il numero dei cross ma segna la metà dei gol.

La nuova Inter di Mancini non ha ancora un’identità chiara, e non ha neppure un modulo di riferimento: è probabile che si passerà al 4-2-3-1 o al 4-3-3. In ogni caso, sarà proprio Perisic l’equilibratore del gioco offensivo nerazzurro: è l’unico con la velocità adatta per transizioni offensive rapide (molto più di Ljajic e Jovetic); è l’unico dei quattro davanti ad avere la capacità di aggredire l’avversario anche in zone alte; è l’unico abituato a svolgere entrambe le fasi (nonostante qualche distrazione di troppo). La sensazione è che tra tutti, lì davanti, proprio Perisic possa essere il vero punto fermo della squadra nerazzurra.

Mario Lemina, Juventus

di Emanuele Atturo (@Perelaa)

Il reparto che sembra uscito più malandato dal calciomercato juventino è il centrocampo. Se in difesa e in attacco i bianconeri hanno mostrato idee chiare sin dalle prime battute del mercato, in mezzo al campo ci si è mossi in modo più confuso e con tempistiche spesso sbagliate. La cessione di Arturo Vidal forse non era del tutto prevista, e ha finito per sparigliare i piani di Marotta; l’infortunio di Marchisio a pochi giorni dall’inizio del campionato ha poi complicato ulteriormente la situazione. Ma la dirigenza juventina ha anche tentennato troppo su Draxler, e forse sopravvalutato la capacità di resistere di un reparto impoverito non solo tecnicamente, ma anche in termini di armonia e personalità.

Il 31 agosto si è provati a correre ai ripari con l’acquisto di Hernanes e Lemina, due profili molto diversi. La delusione che ha circondato il primo ha finito per far passare sottotraccia il secondo. Se con Hernanes la Juventus ha preso un giocatore dalle caratteristiche e dal rendimento già definiti e testati nel nostro campionato, di Mario Lemina si sa poco e niente, se non che è francese, ha 22 anni e un bel taglio di capelli.

Lemina è costato mezzo milione di prestito e la Juventus avrà la possibilità di riscattarlo per una cifra complessiva di 10 milioni di euro. Una cifra che lo colloca tra quegli acquisti di media fascia su cui Marotta ha ricostruito la Juve qualche anno fa, e che rispecchia bene l’attuale valore di un giocatore il cui potenziale è rimasto ancora sostanzialmente inespresso.

Di Lemina si parla bene sin dai tempi del Lorient, quando era allenato da Christian Gourcuff: il Marsiglia lo acquistò per 4 milioni di euro, una cifra che il tecnico ritenne troppo bassa e che lo portò a scontrarsi con la società. All’OM in realtà Lemina ha espresso il proprio valore a fasi alterne: Bielsa gli ha dimostrato sempre una certa fiducia, schierandolo in diverse zone sensibili del suo modulo, ma non lo ha mai ritenuto un titolare a tutti gli effetti: solo 13 presenze dall’inizio lo scorso anno, che hanno generato diversi dubbi intorno al giovane francese.

In Francia non gode di grandissima considerazione. Il pugno da rissa da strada che rifilò a Toivonen lo scorso anno gli ha cucito addosso l’etichetta di giocatore inaffidabile e indisciplinato. In realtà, la storia di Lemina parla di disciplina e perseveranza: prima di essere integrato nelle giovanili del Lorient, ha dovuto accettare due rifiuti, nel mezzo dei quali ha pensato anche di darsi alle boxe; quando a quindici anni è stato finalmente preso ha attaccato in cameretta la lettera di rifiuto del club. Arrivato alla Juventus ha dichiarato: «Non richiederò un minimo o un massimo di presenze: giocherò se lo meriterò». In tutta la carriera Lemina ha collezionato solo 7 cartellini gialli e uno rosso.

Il modo in cui Lemina smentisce le apparenze e le prime impressioni ha a che fare anche il tipo di giocatore che è. Sebbene abbia l’aria del mediano aggressivo ed esuberante, Lemina è un centrocampista piuttosto tattico e riflessivo. Se Bielsa ha finito per schierarlo in tre diverse zone del campo—mezzala sinistra, mediano difensivo e centrale sinistro di una difesa a tre—è perché ha visto nel francese una grande capacità di lettura del gioco e delle situazioni. Questa intelligenza, insieme alla capacità di ricoprire più ruoli, sono probabilmente il motivo che ha spinto i bianconeri a puntare su di lui.

La Juventus di Allegri ha mostrato di preferire un centrocampo ricco di giocatori duttili e tatticamente intelligenti piuttosto che di specialisti. Marchisio, Sturaro, Padoin, Pereyra, Khedira sono tutti centrocampisti che sanno leggere bene le situazioni, molto completi tecnicamente.

All’inizio di questa stagione, prima di fuggire improvvisamente, Bielsa stava puntando molto su Lemina nel ruolo di schermo davanti la difesa, al posto del ceduto Imbula. Rispetto al congolese, Lemina ha dimostrato un gioco più diretto ed essenziale, di cui Bielsa aveva già parlato lo scorso anno, quando l’assenza di Imbula lo aveva costretto a schierare Lemina nel suo ruolo: «Lemina e Imbula hanno caratteristiche opposte. (…) Lemina è un giocatore dinamico, sorprendente, potente, con un senso del gioco molto pronunciato. È generoso sia nel difendere che nell’attaccare».

È quindi verosimile che Lemina troverà i suoi minuti in campo soprattutto nel ruolo di vice-Marchisio, dove sembra avere le caratteristiche perfette per interpretare il regista come piace ad Allegri. Dopo la parentesi di Pirlo, il tecnico toscano sembra voler tornare a un centrocampista da prima costruzione veloce e pulita, più che un vero e proprio regista. Come era van Bommel nel Milan.

Lemina sembra avere questa interpretazione del ruolo. Non è un vero e proprio organizzatore di gioco, nel senso che non ha il senso della gestione dei tempi. Ama giocare semplice, ma con velocità, smistando i palloni rapidamente in uscita dalla difesa. Per questo tiene poco palla, scaricando sempre a due-tre tocchi, come se fosse insofferente all’idea di rallentare la manovra. Lemina più che un regista è un acceleratore di gioco, uno che ama mettere in ritmo i compagni alzando l’intensità delle partite.

Il gioco semplice non deve però essere scambiato per banale. Proprio per la sua tendenza a voler sempre alzare il ritmo del palleggio, Lemina non si limita allo scarico facile, ma è molto rapido nel trovare anche soluzioni più complesse e dirette, a vedere passaggi che superino le linee del gioco avversario.

La ricerca dell’uomo smarcato avviene sia sul breve che sul lungo: Lemina ha una capacità di calcio che non fa rimpiangere quella di Marchisio, con cambi di gioco che coprono anche quaranta metri di campo.

Uno dei limiti di Mario Lemina è la sua difesa del pallone. Nonostante un fisico notevole, 1 metro e 83 per 76 chili, rispetto ad altri giocatori del ruolo, non riesce a usarlo come potrebbe. Quando difende palla di spalle sembra andare in apprensione: non usa bene gambe e corpo per tenere a distanza l’avversario, e finisce per subire eccessivamente anche pressing solitari. Come se, persi i primi tempi di gioco, che sono i suoi tempi, andasse in tilt.

Con Lemina in campo la Juventus però finisce per guadagnare soprattutto in fase di non possesso. Bielsa ha schierato il francese persino difensore centrale (ma a 3), non solo per le sue ottime letture, ma anche per una capacità di intervento di primo livello. Lemina segue l’uomo anche in ripiegamenti profondi ed esercita grande attenzione e intensità nell’intervenire in modo aggressivo, ma pulito.

Il modo in cui il francese riesce a coniugare equilibrio e attenzione tattica con agonismo e intensità rende Lemina un giocatore fuori dal comune. La sua presenza in campo, così nervosa e concentrata allo stesso tempo, fa pensare a un giocatore anfetaminico. Per questo aggiungerà al centrocampo della Juventus quel temperamento, quella nastyness, che ha perso soprattutto dopo la cessione di Vidal.

Qualche giorno fa ha dichiarato di avere qualche caratteristica in comune proprio con il giocatore cileno. Non credo si riferisse tanto a delle caratteristiche quanto a un’attitudine. Quella di essere iperatletico e cerebrale allo stesso tempo, un giocatore che ama portare la partita sul terreno della guerra.

Mateo Kovacic, Real Madrid

di Francesco Lisanti (@effelisanti)

L’Inter acquista Kovacic il 31 gennaio 2013. Sono i giorni in cui il Milan compra Balotelli, e l’allora direttore sportivo Branca riceve l’ennesimo rifiuto da Paulinho ed è costretto a ripiegare sul croato. Due anni e mezzo dopo, il primo gioca nel Guangzhou Evergrande, il secondo nel Real Madrid. Sono anche i giorni in cui Sneijder viene ceduto al Galatasaray, e Mateo ne eredita con personalità il numero 10: «Il numero non conta, sono io che gioco». Esordisce in Serie A contro il Siena, da interno sinistro in un 4-3-1-2, in una partita in cui l’Inter viene travolta 3-1.

La prima conferenza stampa italiana, qualche giorno dopo, la tiene in tedesco, perché i genitori si sono conosciuti in Jugoslavia e poi sposati a Linz, in Austria, dove hanno vissuto i difficili anni Novanta, e dove Mateo è nato un anno prima della ratifica degli accordi di Dayton. Nel 2007, al compimento del tredicesimo anno di età, diverse società tedesche invitano Mateo nel proprio settore giovanile. Lo Stoccarda offre al padre Stipo anche un impiego in Mercedes, ma proprio il padre sceglie di ritornare in Croazia e accettare l’offerta della Dinamo Zagabria, perché «bere un caffè in piazza Jelacic vale più di migliaia di euro».

La prima domanda italiana è di rito: «Qual è un riferimento per capire che tipo di giocatore sei?». Qui c’è un malinteso con l’interprete, che traduce: «Kaká» (effettivamente Mateo pronuncia un suono simile), e sulla richiesta di chiarimenti è abbastanza esplicito: «Hai detto Kaká? No, no, no». Evidentemente, per quanto valida possa essere la percezione di sé di un diciottenne, non si sente trequartista. Poi aggiunge che il suo calciatore preferito è Prosinecki, che non può aver visto giocare, o certamente non al suo picco, ma nessuno glielo fa notare, lasciando il dubbio che, per quanto giovanissimo, Kovacic consumasse calcio più di quanto fosse lecito aspettarsi.

A Milano scoprono presto il suo marchio di fabbrica: le runs. Kovacic corre con la palla in modo diverso da chiunque altro. Per averne un’idea è sufficiente scorrere i risultati alla voce di ricerca “Kovacic run”, e poi scovare i tanti altri esempi seminati all’interno degli highlights individuali. Per chi lo immaginasse davanti alla difesa, è singolare che non esistano corrispondenze alle ricerche “Pirlo run”, “Xabi Alonso run”, o “Witsel run” per cercare qualcosa di più dinamico. Esistono invece, ad esempio, centinaia di corrispondenze per “Marshawn Lynch run”, forse a suggerire che per capire Kovacic bisogna riferirsi a strumenti interpretativi di altri sport.

Le runs rappresentano perfettamente l’idea che Kovacic ha del gioco. Se l’ingenuità dei ventenni spesso conduce a estraniarsi dal collettivo, a ridurre il calcio a duello individuale, dove la vittoria è la caduta dell’avversario e il doppio passo la punta di fioretto, Kovacic semplifica ulteriormente. Nelle sue progressioni è solo, non c’è l’insolenza del sorpasso in curva, ma la folle accuratezza scientifica dello slalom gigante. Non sfida il difensore, ma sé stesso, il tempo, lo spazio.

Dieci secondi di possesso individuale sono un’enormità per i ritmi a cui si è evoluto il gioco, e Kovacic rappresenta l’anomalia nell’anomalia, perché nel corso di questi dieci secondi può arrivare a percorrere anche cinquanta metri. Se Kovacic fosse un giocatore a una dimensione, e questa fosse la sua dimensione, non varrebbe metà della cifra che il Real ha investito: è un’opzione ad alto rischio e di scarsa probabilità di successo. Anche quando riesce a spezzare le linee avversarie, è difficile che la squadra lo accompagni in maniera compatta, in modo da costituire un pericolo reale.

Eppure rimarrà il rimpianto di non averlo visto fiorire in un contesto funzionale all’incoscienza dei vent’anni, al fianco di un centrocampista che sapesse inserirsi e un attaccante che allungasse la difesa avversaria (anche Parolo e Pellè, senza andare troppo lontano). L’Inter in cui arriva ha il centrocampo affidato a Guarín e l’attacco affidato a Cassano, i due giocatori più a disagio lontano dalla palla che potesse trovare. Si è a breve arrivati all’equivoco che lo voleva più vicino alla porta, mentre Kovacic ha senso solo se può correre, e per percorrere 50 metri deve averne 50 davanti.

Kovacic non è un giocatore monodimensionale, anzi, sa fare praticamente tutto. Sa duettare negli spazi stretti, e ha un entusiasmo infantile negli spazi aperti. Può rifinire l’ultimo passaggio (questo gioiello alla Lazio sull’asse con Icardi resterà l’icona delle speranze tradite dei tifosi interisti), ma può anche recuperare palla con scivolate spaziali. L’equivoco Kovacic è acceso da quest’impressione che, al netto dei difetti, tutti in qualche modo riconducibili alla necessità di essere sempre al centro del gioco, sempre coinvolto nell’azione, sempre al ritmo della partita, abbia potenziale illimitato.

Ad esempio difende benissimo sull’uomo, per come unisce i mezzi atletici e la sfrontatezza nei contrasti a quella particolare forma di intelligenza che gli permette di intuire le intenzioni dell’avversario, ma malissimo lo spazio, perché pazientare e indietreggiare non sono opzioni che codifica, e per questo rende male sulla fascia. In tutti gli aspetti del gioco in cui riesce perfettamente a calarsi c’è un minimo comune denominatore: l’attrazione gravitazionale verso il pallone. Ci dev’essere un’inedita legge di Newton, o una chimica di odori che non c’è dato cogliere.

Quando Kovacic non è in possesso del pallone, lo insegue. È il motivo per cui, appurato che ha poco in comune con altri registi se non una comprensione superiore del gioco, e appurato che non si è mai sentito un trequartista, neanche prima che arrivasse all’Inter, si fatica comunque a trovargli una collocazione sul campo. Ovunque lo si schieri, lui seguirà la palla, con la testarda determinazione delle grandi storie d’amore. Quando passa il pallone, si muove verso il ricevente, che è una delle prime cose che vietano di fare alla scuola calcio, ma tant’è: amor omnia vincit.

Kovacic è un calciatore generazionale: un ibrido, ma il migliore degli ibridi, una figura trasversale, ma la più completa delle figure trasversali. Cosa possa essere lo si deduce solo per via negationis (ricapitolando: non un regista, non un trequartista, non un esterno di fascia), ma cosa sappia fare è evidente a tutti. È un ventunenne incosciente della propria dimensione, ma perfettamente consapevole di cosa gli piaccia fare. Nessuno meglio di lui poteva dimostrare quanto l’antitesi tra dovere e piacere fosse un modello del passato.

Nicolás Otamendi, Manchester City

di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)

Non sono ancora riuscito a capire quale dei soprannomi affibbiati a Nicolás Otamendi mi piaccia di più, ma devo riconoscere che galleggiano un po’ tutti in un brodo primordiale di coerenza. Otakáiser, che è comunque notevole, è meno geniale del brillante (ma forse troppo Hispanic-Only) Ostiamendi, e in ogni caso ce ne sono due che risultano più calzanti alla figura che abbiamo in testa quando pensiamo al centrale della Nazionale argentina: Bestiamendi e Otamonstruo.

In realtà, intimamente, a me viene da chiamarlo El Aguafiestas: significa il guastafeste, ed è il ruolo che sembra andargli più congeniale in tutti i filmati in cui affronta vis à vis gente come Messi, Bale, Neymar o CR7, vale a dire quattro tra i più potenti acceleratori di particelle di calcio, i suoi rivali quotidiani nella stagione scorsa, quando militava nel Valencia. Otamendi è il proverbiale bastone tra le ruote che si incunea, recidendo a metà il sottile filo rosso che ne collega le estremità, tra la Giocata Mirabile e l’Occasione Mancata: ne è la causa, il motivo, la ragion d’essere. E i suoi tackle scivolati, sempre impeccabilmente a tempo, una mannaia affilata.

Se tra i video delle abilità di Bestiamendi che circolando su YouTube ho scelto questo è essenzialmente per due motivi: il primo, perché c’è uno spezzone della gara contro l’Elche dell’anno scorso, che ho visto dal vivo e durante la quale si è forgiata in me l’immagine di un Otamendi-divinità-greca-del-difendere (al minuto 01:38); il secondo, perché ci sono almeno due rovesciate difensive. Una finezza come la sforbiciata, per essere considerata Bella, deve essere, oltre che esteticamente perfetta, profondamente efficace: non è detto, però, che debba per forza finalizzarsi in un gol. Non si dovrebbe negare a un “clearance” in sforbiciata la cittadinanza del Meraviglioso: è una delle cose che ci ha insegnato Nico Otamendi. In realtà ci sarebbe una terza motivazione, alla base della mia scelta, che è il titolo: “See what I have become”.

Parlare di metamorfosi, per Otamendi, ha senso se contestualizziamo il discorso nell’arco lungo (che è poi relativamente corto) della sua carriera. Nelle giovanili del Vélez Sarsfield, il club in cui è cresciuto, Otamendi giocava da terzino destro: del laterale basso aveva la rapidità e l’aggressività, ma non l’atteggiamento propulsivo che si richiede ai laterali bassi nel calcio odierno. Era, insomma, un terzino old school, di quelli che raramente sorpassano la propria metà campo.

A dodici, tredici anni per affinare il fisico si è dedicato alla boxe: magari l’ha fatto con ingenuità, prendendolo per un passatempo, ma sono quasi sicuro che la sua conversione a centrale difensivo, a centrale difensivo di quel tipo, affondi le sue radici proprio nell’incrociare i guantoni. Tutti i calciatori che scelgono di giocare in difesa, a un certo punto delle loro vite, dovrebbero tirare di boxe. Non imparare a fare a cazzotti: per quello basta la strada. Dico proprio prendere lezioni di pugilato, imparare l’armonia dei movimenti, la ponderatezza della scelta dei tempi: mandare a memoria che la miglior difesa è l’attacco. A Otamendi il corpo a corpo sembra aver insegnato la saggia dote della pazienza, dello schivare i colpi, dell’affondare i propri con rapidità.

Oltre a lasciargli una certa allure da picchiatore, ovviamente.

Rapida, e per certi versi inattesa, è stata la sua esplosione: lanciato nella mischia da Ricardo Gareca per la contemporanea (e contingente) assenza dei due centrali titolari e delle prime due riserve, a ventuno anni ha contribuito alla vittoria del Clausura 2009 con il Vélez. L’anno seguente è stato ceduto al Porto, dove è stato chiamato a sostituire Bruno Alves e dove, dalla stagione successiva, avrebbe preso a fare coppia con il francese Mangala.

Con i Dragões ha messo in mostra le sue caratteristiche principali: roccioso, forse un po’ meno a suo agio quando attaccato da sinistra, ma comunque statuario e dominante, oltre che più intraprendente di Mangala nella costruzione del gioco, Otamendi non si limita a linee di passaggio semplici—al portiere, all’altro centrale di difesa, al laterale basso—ma ama verticalizzare il gioco o comunque cambiarlo, aiutato anche da un tocco di palla, da un’educazione del piede superiore alla media, discretamente sorprendente per un centrale come lui, di quel tipo.

Nella prima intervista rilasciata dal suo approdo al Manchester City, Otamendi si è descritto come un giocatore temperamental: un’autodefinizione che un po’ stride con il tono basso, pacato, con cui si confessa, ripetendosi, come fosse leggermente spaesato. In quell’intervista, abbastanza standard, in cui parla del ruolo che ha avuto la nutrita colonia argentina (Demichelis, el Kun, Zabaleta, Zuculini!) nel convincerlo a scegliere i Sky Blues, Otamendi dice però una frase dirimente nella lectio (tutt’altro che facilior) del suo modo di intendere il calcio: «Cerco di mantenere l’ordine in difesa affinché centrocampisti e attaccanti possano attaccare con la massima tranquillità».

Otamendi usa un termine bellissimo, perché umile, che è facilitare: la sua difesa non è mai a prescindere, ma finalizzata (o tendente) alla facilitazione del compito degli altri reparti. Ridefinisce l’immagine del difensore come ultimo baluardo, spoglia il ruolo dell’autocompiacimento e per certi versi ne smonta la portata mitopoietica.

Pellegrini, subito dopo la firma di Otamendi, ha dichiarato: «Non sono mai stato felice con i centrali che avevo lo scorso anno: ho sempre pensato che avessi dovuto prendere un centrale per la nuova stagione». Nella Premier 2014-15 il City non ha saputo trovare in Mangala, pur pagandolo tantissimo, l’ago della bilancia capace di donare equilibrio e solidità all’intero reparto. Alcuni errori decisivi, uniti a una generale sensazione di inadeguatezza e goffaggine, hanno fatto sì che il tecnico cileno si affidasse, per buona parte della stagione, alla coppia Kompany-Demichelis. Otamendi, da solo, ha praticamente totalizzato con il Valencia il doppio degli intercetti e dei blocchi per partita dell’intera coppia di titolari del City.

Il problema, per Nicolás, è che invece quest’anno la coppia Mangala-Kompany è partita alla grandissima, è in forma strepitosa e nelle cinque gare iniziali i Citizens non hanno subito neppure una rete. Qual è, allora, oggi, il senso di Pellegrini per Otamendi? «Abbiamo un centrale in più: per il tipo di stagione che ci aspetta è importante averne almeno quattro».

In Nazionale ha perso il posto dopo la disfatta contro la Germania ai Mondiali sudafricani del 2010, salvo riguadagnarlo con Martino subito dopo i Mondiali brasiliani (ai quali, sembra incredibile, non ha partecipato): conosce l’epica del rise and fall. E la conoscerebbe anche se non amasse il pugilato, e a noi non venisse così facile costruire metafore tipo incassare il colpo o rialzarsi dal tappeto.

Otamendi è pronto a mostrare i bicipiti lucenti, i tatuaggi, lo sguardo torvo che impressiona gli attaccanti: eppure sa che dovrà sciorinare un’altra annata monstre come quella dell’anno scorso per guadagnarsi una maglia da titolare.

Aymen Abdennour, Valencia

di Daniele Manusia (@DManusia)

L'evoluzione del gioco offensivo negli ultimi anni ha prodotto una quantità spaventosa di ottimi attaccanti. Più che di centravanti, sto parlando di trequartisti ipertecnici e diretti capaci di minacciare le difese avversarie a ogni azione; oppure esterni a piede invertito che si fanno attrarre dalla porta avversaria come se ci fosse uno di quei fasci di luce che nei film sugli alieni escono dalle astronavi. E se cambiano gli attaccanti devono cambiare anche i difensori. Prima un centrale di difesa doveva gestire un numero più o meno fisso, conosciuto, di situazioni, e magari poteva specializzarsi in un paio di esse (ad esempio: anticipo o copertura in profondità), oggi bisogna saper fare tutto bene, altrimenti anche un ragazzino della Primavera rischia di metterti in imbarazzo.

Un discorso del genere tira in ballo la selezione e la formazione dei difensori che, per tradizione, si basa più su doti fisiche che tecniche o di lettura. Per questo, finché nessuno penserà a riconvertire Hazard in una versione cibernetica di Fabio Cannavaro, il talento e il carisma saranno fondamentali per distinguere tra un difensore mediocre e quello che potremmo considerare un grande difensore. E questa è la prima qualità di Aymen Abdennour, che se non è ancora considerato tra i grandi difensori del momento ci è molto vicino. A ventisei anni è passato dal Monaco al Valencia, dopo che la squadra spagnola aveva eliminato la francese nei preliminari di Champions League (lui era ancora infortunato e l'assenza ha pesato), ma prima si era parlato di Juventus, Roma, sembrava addirittura a un passo dal Barcellona. E francamente non avrebbe sfigurato neanche con quella maglia.

Di solito parto dal presupposto che se un giocatore finisce a Valencia anziché a Barcellona è perché il Barcellona in fondo non lo ha voluto, ma l'interesse dei catalani per Abdennour è di dominio pubblico dal 2013, quando lo hanno invitato a vedere la partita di CL con il Milan. A quei tempi Abdennour giocava a Toulouse (meno di 4 ore di macchina da Barcellona), dove è arrivato a 22 anni dalla Tunisia per meno di mezzo milione di euro. Prima di allora aveva fatto sei mesi di prova nel Werder Brema di Özil, ma non era andata bene ed era tornato all'Étoile du Sahel (con cui nel 2007 aveva vinto la Coppa Campioni africana). Nel giro di due anni è passato al Monaco per 15 milioni e poi al Valencia per un cifra non ufficiale di 32 milioni (con clausola rescissoria a 50). Questo fa di lui il giocatore nordafricano più caro di sempre (più di Benatia e Salah), e il terzo tra gli africani: quanto Yaya Touré, meno di Drogba (37,5) e Essien (38).

A Valencia, Abdennour è arrivato per sostituire Nicolás Otamendi. Come l'argentino, anche Abdennour ha cominciato da terzino (e può giocarci ancora oggi). I due condividono anche un'aggressività spiccata e un talento squisitamente difensivo, che oltre a fare di loro due dei marcatori più dominanti in Europa, si esprime con salvataggi sulla linea e rovesciate eccentriche nella propria area di rigore. Il carattere, però, è diverso. Otamendi ha imparato il pugilato perché il padre era preoccupato dalla violenza delle strade di Buenos Aires (e forse è discendente del comandante Nicanor Otamendi, così valoroso che, pare, gli indios ne mangiarono il cuore per assorbirne le qualità), Abdennour è cresciuto in una famiglia agiata comportandosi bene. In un'intervista a France Football dello scorso giugno ha detto: «Sono sempre stato discreto. Avevo pochi amici, due o tre. A scuola passavo inosservato, un allievo nella media. Non facevo storie, non davo fastidio a nessuno, non facevo a botte. Anche perché i miei genitori non me lo avrebbero permesso».

Abdennour è nato e cresciuto a Sousse, dove pochissimi giorni dopo la pubblicazione dell'intervista di France Football, su una spiaggia vicina, sono state uccise 38 persone in un attentato rivendicato dall'Isis. Nell'intervista si diceva felice per i progressi fatti dal suo Paese, ma non pensava che la sua opinione politica fosse più interessante di quella dei suoi amici: «Non valgo più degli altri perché gioco a calcio. È il mio mestiere, ma non mi rende più importante».

Al di là della faccia gommosa da orco delle fiabe, e del fatto che gioca in un modo in cui è impossibile non notarlo, Aymen Abdennour è meno istintivo di quello che sembra. In due video girati dal Monaco per il proprio canale YouTube (questo e questo), Abdennour si fa filmare mentre riguarda una partita giocata da poco: in entrambi i casi dice che gli serve per correggere gli errori e ripetere quanto di buono fatto. Sottolineo il suo carattere, perché aiuta a spiegare la sua esplosione tardiva, a venticinque anni, nella seconda metà della scorsa stagione.

Oltretutto aveva cominciato malissimo, procurando un rigore alla prima giornata e contribuendo al secondo gol del Lorient, procurando poi un altro rigore alla seconda giornata contro il Bordeaux. A quel punto ha perso il posto in squadra e ha dovuto risalire lentamente le gerarchie di Leonardo Jardim: «Ci sono le cose che possiamo controllare e altre no. La decisione è dell'allenatore, non posso avvelenarmi l'animo con questo. In compenso, in allenamento ero al 200%, davo cinque volte di più di prima». Tornato in squadra, Abdennour ha alzato ulteriormente il proprio livello dando il proprio meglio nelle partite più importanti, in Champions contro Arsenal e Juventus.

Abdennour fa tutto piuttosto bene e in alcune cose è eccezionale. Tanto per cominciare il colpo di testa: su Ecos del Balon Alejandro Arroyo lo ha paragonato a Puyol, perché anche lui «metteva la testa dove altri non metterebbero lo scarpino». È molto tecnico nello stacco, non toglie mai gli occhi dalla palla e se può prende posizione prima dell'avversario. Se l'avversario è davanti, invece, arriva di corsa e va sempre molto in alto. Nell'anticipo non ha niente da invidiare a gente come Benatia o, appunto, Otamendi, e forse è migliore di entrambi nei recuperi in profondità. Sicuramente al suo meglio è il più veloce dei tre, anche se non nei primissimi passi, ed è il più coordinato nelle scivolate. È uno dei pochi in grado di scivolare calciando la palla, anche se in teoria è ancora in possesso del suo avversario. A volte, invece, usa il proprio corpo come un ostacolo, come una barriera che mette tra l'avversario, o la palla, e la propria porta.

Sa anche leggere molto bene il gioco e quando ha davanti attaccanti forti fisicamente quanto lui riesce comunque ad anticipare o a intervenire al momento del tiro. Del terzino ha mantenuto l'esplosività nelle progressioni in avanti (non è molto tecnico nel palleggio, ma nel controllo in corsa sì, anche se a testa bassa, da terzino appunto) e le coperture in diagonale a sinistra; con il destro perde qualcosa, ma lo usa in fase di impostazione quando serve. In definitiva, non è abbastanza tecnico da essere spostato a centrocampo come David Luiz, ma soprattutto sarebbe un peccato, considerato quanto può fare in difesa, sia se il baricentro è alto che se c'è da difendere l'area di rigore con il coltello tra i denti.

La prima partita con il Valencia l'ha giocata con 9 ore di allenamento con la squadra (viene da un infortunio muscolare). Davanti aveva lo Sporting Gijon con la coppia d'attacco Sanabria-Halilovic. Il croato gli ha fatto un tunnel dopo pochi minuti (troppo desiderio della palla può farlo finire in trappola con giocatori tecnicamente imprevedibili), lui è rimasto calmo e ha preso le misure: subito dopo gli ha tolto palla con un tackle di destro e poi lo ha fermato in campo aperto (Halilovic se l'era allungata pensando, forse, che fosse lento). È uscito dal campo con 7 anticipi, 4 tackle, 5 duelli aerei vinti e 2 dribbling.

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