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Sangue blu e arancio
14 dic 2017
Come Spike Lee è diventato l’archetipo del tifoso dei New York Knicks.
(articolo)
13 min
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Nella vita esistono momenti che segnano una svolta, occasioni in cui è necessario orientare le proprie scelte in base alle priorità. Per Shelton Jackson Lee, soprannominato “Spike” dalla madre a causa del carattere turbolento, quel momento arriva nell’estate del 1986. Il suo primo lungometraggio She’s gotta have it (tradotto dai distributori italiani in un poco comprensibile Lola Darling), prodotto con un modesto budget di 175.000 dollari, riscontra un successo inaspettato di critica e pubblico. Le recensioni ne certificano l’etichetta di realtà emergente del cinema a stelle e strisce, gli incassi consentono al giovane autore, allora nemmeno 30enne, di provare ad esaudire alcuni desideri coltivati fin da bambino: una casa a schiera a Fort Greene, Brooklyn proprio uguale a quella dei suoi genitori; una seconda dimora a Martha’s Vineyard, esclusiva località di villeggiatura a breve distanza dalla città; e un abbonamento a bordo campo al Madison Square Garden per vedere i New York Knicks.

Il botteghino porta buone notizie fin da subito, ma lo spazio per realizzare tutte e tre le fantasie adolescenziali non c’è. Occorre scegliere. I Knicks, dopo l’ennesimo annus horribilis, sembrano avviati verso un ritorno all’antico splendore sulle spalle di Patrick Ewing, laureatosi miglior rookie della stagione appena conclusa. Il dubbio, insomma, non si pone nemmeno: proprio come Mars Blackmon — personaggio chiave di She’s gotta have it guarda caso interpretato dallo stesso regista — Spike non può resistere alle uniformi blu-arancio e inaugura una tradizione che diventerà trentennale. Ben attento a non passare inosservato, accompagnerà gli amati Knicks nelle annate felici (poche) e in quelle tormentate (quasi tutte le restanti). Il rapporto con la squadra diventerà simile al legame tra le sue opere e la comunità afro-americana: viscerale, indissolubile e quindi contraddittorio.

Sii sempre presente

Nel corso dei decenni, Spike Lee si è trasformato nell’archetipo del tifoso dei Knicks: ostinato ma umorale, incline a picchi di entusiasmo che inesorabilmente sfociano in altrettanti momenti di cupo sconforto, estremamente passionale. L’audacia non difetta, perché nonostante le tante e rovinose stagioni la convinzione radicata nell’appassionato newyorkese è che la vittoria sia un approdo inevitabile. Il banner con il titolo di campioni è un destino in attesa di compiersi, anche se forse è l’attesa stessa a essersi trasformata nel destino.

La colpa del continuo posticipare l’ineluttabile trionfo ricade di volta in volta sull’ingratitudine del fuggitivo Pat Riley, sull’inadeguatezza al ruolo di Isiah Thomas e Mike D’Antoni o sulla spocchia zen di Phil Jackson. A frapporsi tra il Larry O’Brien Trophy e il suo atterraggio sul sacro parquet della World’s Most Famous Arena è quindi solo la combinazione di fattori umani sbagliati, incidenti di percorso che fiaccherebbero qualsiasi altra tifoseria — ma non quella dei Knicks. Perché in fondo siamo pur sempre a New York City e c’è comunque un giocatore per cui prendere una sbandata, un avversario con cui polemizzare, una spacconata da elargire come profezia ai famelici media cittadini o un look eccentrico con cui distinguersi tra le tante celebrità presenti.

Colpi di fulmine

Come ogni tifoso che si rispetti, Lee ha via via maturato infatuazioni per giocatori non proprio di primissimo piano. Se Patrick Ewing ha rappresentato il punto focale attorno a cui ruotava la prima parte dell’esperienza in prima fila e Carmelo Anthony la stella a cui demandare il Rinascimento blu-arancio — poi sfociato in un nuovo Medioevo —, i numeri e nomi finiti sulle canotte da indossare a bordo campo hanno riguardato protagonisti molto meno celebri.

John Starks è diventato un idolo anche per il resto del Madison Square Garden, costruendosi poi una notevole carriera grazie al suo stile di gioco aggressivo, mentre ad altri eroi entrati nelle grazie di Lee non è andata altrettanto bene. Nate Robinson, croce e delizia della prima annata newyorkese di D’Antoni, per esempio, pur partendo dalla panchina faceva prevedere a Lee un futuro da candidato credibile al ruolo di miglior giocatore dell’intera lega. Il titolo di MVP, in effetti, Robinson l’ha vinto — solo che si tratta di quello del campionato venezuelano, perché dopo aver lasciato New York il folletto da Seattle ha cambiato sette squadre in cinque anni, per poi tentare la fortuna lontano dalla NBA. E se la “Linsanity” è stata un ciclone tanto travolgente quanto passeggero — cosa che comunque non gli ha impedito di sfoggiare la maglia cult del taiwanese ai tempi di Harvard e del liceo a Palo Alto —, uno dei suoi scivoloni più clamorosi è stato Landry Fields.

L’ottima annata da rookie aveva infatti scatenato le fantasie del regista che, agli inizi della seconda stagione da professionista del californiano, aveva profetizzato per lui un ruolo da glue guy destinato a diventare pezzo fondante di un ciclo vincente. Dopo un triennio caratterizzato da continui infortuni e il passaggio in maglia Toronto Raptors, Fields si è ritirato nel 2015 e lavora come scout per i San Antonio Spurs. Come ogni tifoso che si rispetti, per l’appunto, l’attendibilità di giudizio non è mai stata una delle prerogative di Spike. La passionalità dei suoi sentimenti verso la squadra, d’altro canto, è testimoniata anche dall’attenzione particolare riservata non solo ai propri beniamini, quanto agli avversari in visita al Madison Square Garden.

Trash Talking Machine

In tutto e per tutto simile a uno dei tanti personaggi irriverenti che popolano i suoi film, a Spike non è mai mancata la voglia di bisticciare. L’atteggiamento a bordo campo, in questo senso, è un perfetto specchio della sua vispolemica. Se gli arbitri rappresentano un bersaglio fin troppo facile sera dopo sera e le indicazioni tattiche ai protagonisti in campo non si risparmiano, a destare l’attenzione di media e appassionati sono le battaglie verbali con le stelle delle squadre ospiti. A nessuno degli avversari che durante gli anni si sono presentati sul parquet dell’MSG è stato risparmiato un trattamento più o meno scurrile, la cui intensità è dipesa dalla reazione dei soggetti coinvolti.

La madre di tutte le faide è senza dubbio rappresentata da quella con Reggie Miller: nato come effetto collaterale della rivalità con gli Indiana Pacers a metà anni Novanta, il dialogo continuo tra i due ha vissuto il suo picco tra finali e semifinali di conference del 1994 e 1995.

Vero e proprio match tra pesi massimi del trash talking, il confronto è servito da spunto a ESPN per un documentario della serie “30 for 30”.

Parecchi anni dopo i due si sono riappacificati, ma nonostante questo le frecciate reciproche non hanno mai cessato di volare in entrambe le direzioni. Stesso percorso intrapreso dalle controversie con Michael JordanKobe Bryant, fenomeni che non si sono fatti mancare serate memorabili all’MSG ma che nondimeno hanno finito per collaborare con Lee, che si trattasse di famosissimi spotdocumentari. Tra gli scontri meno pubblicizzati, oltre a un cinque scambiato con il solitamente mansueto Kevin Love, il diverbio più spiacevole è senz’altro quello con Kevin Garnett. Altro peso massimo della specialità, “KG” si è contraddistinto per il repertorio definito dal diretto interessato come ben più triviale rispetto al tanto celebrato Reggie Miller. Il famoso incidente avvenuto tra Anthony e Garnett nel gennaio 2013 (quello del «Tua moglie sa di Honey Nut Cheerios») non ha fatto che inasprire i rapporti con il resto della tifoseria newyorkese. Ad oggi, quindi, una riconciliazione come quella avvenuta con l’ex-Indiana appare piuttosto improbabile — anche perché, occorre ricordarlo, Lee non è noto per il temperamento accomodante. La sua autobiografia, edita anche in Italia, non a caso titola Questa è la mia storia e non ne cambio una virgola.

Cautela, questa sconosciuta

Terzo teorema di Spike Lee: sostituendo come interlocutori gli avversari in campo con giornalisti armati di microfono e taccuino, la tracotanza delle dichiarazioni non muta. Passionale fino al midollo, il regista non ha mai esitato quando si è trattato di farsi travolgere dall’esaltazione come dall’angoscia. Nella seconda categoria ricadono gli infiniti momenti che i Knicks hanno garantito durante gli ultimi tre decenni, il cui apice è la striscia negativa di 16 sconfitte consecutive, il 26 su 27 tra la fine del 2014 e l’inizio dell’anno successivo, e il rifiuto sdegnato di seguire la squadra a Londra per il consueto appuntamento di gennaio («Dovrei prendere un aereo per assistere all’ennesima sconfitta? Mi basta prendere un taxi…»).

I momenti in grado di generare autentica esaltazione sono stati rari, ma non importa: le avversità a cui ogni fedele ai colori blu-arancio è temprato tonificano il muscolo della speranza. Basta poco, davvero poco per far comparire scenari di gloria: da ingaggi estivi non proprio indimenticabili come quelli di Stephon Marbury e Derrick Rose a trade poi rivelatesi nefaste come quella messa in piedi per (ri)portare a casa Carmelo Anthony, tutto è valso l’ebrezza di una fugace nottata di voli pindarici. A ogni (supposto) colpo di mercato è seguita, quasi come un riflesso condizionato, la dichiarazione «siamo da titolo».

Anche qui Spike non si è mai tirato indietro, con quella faccia tosta di chi sa di poter dire tutto oggi e argomentare l’opposto domani. In questo senso il nesso con LeBron James rappresenta un vero e proprio caso-scuola: nella primavera del 2010, con la consueta umiltà, Lee è arrivato a dichiarare che «per la prima volta nella storia dell’umanità desidero che una franchigia di Boston vinca». Il motivo dietro a tanta inusuale benevolenza verso la storica antagonista è presto spiegato: i Celtics affrontavano LeBron e i suoi Cavs in una semifinale di conference che si preannunciava come combattuta. La speranza di Lee e di tanti altri tifosi all’infuori dell’Ohio era che Paul Pierce e compagni finissero per prevalere, così che la sconfitta e la conseguente eliminazione favorissero il distacco da Cleveland del Prescelto, destinato a diventare free agent nel giro di pochi mesi.

Ovviamente, nella testa di Spike e della stragrande maggior parte degli appassionati newyorkesi, non esistevano dubbi su quale sarebbe stata la destinazione scelta da James: perché avrebbe dovuto anche solo prendere in considerazione un futuro lontano da una Gotham City che reclamava a gran voce un salvatore? Il percorso intrapreso da James lo avrebbe portato altrove e, alla sua prima visita post-Decision all’MSG, l’opinione di Lee sarebbe stata espressa con la medesima franchezza — ma, senza nemmeno sorprendere troppo, con intonazione del tutto differente, per non dire contraria. Quando una settimana prima di Natale gli “Heatles” sbarcarono a Manhattan, Lee si premurò di chiarire che ai Knicks non serviva LeBron perché non sarebbe stato in grado di gestire la pressione di un ambiente come quello newyorkese. E poi tanto c’era Amar’e Stoudemire, lui sì una vera superstar, e comunque quella sera i Knicks avrebbero «kicked LeBron’s ass».

Anche in quell’occasione la realtà si rivelò piuttosto difforme da quella auspicata: gli Heat passeggiarono vincendo 113-91 con tripla doppia di James, ma tuttavia nessuno sentì il bisogno di chiedere conto delle precedenti affermazioni. Nemmeno LeBron passò all’incasso, perché in fondo a Spike Lee sembra tutto permesso. E qualora non bastasse la spavalderia delle sue dichiarazioni, a confermare l’aurea d’intoccabilità ci sono gli outfit sfoggiati a bordo campo.

Il basso profilo come scelta di vita

Le prime file del Madison Square Garden si connotano per il continuo affollamento di celebrità, tanto che in sala stampa sono perfino segnate su un foglio appeso a una bacheca così che le telecamere dell’arena possano andare a scovarle. Quanto a sciame di stelle, il solo Staples Center — quando è il turno dei Lakers, of course — può essere considerato un degno concorrente. Se al re indiscusso del parterre giallo-viola Jack Nicholson basta il magnetismo congenito per difendere il proprio primato tra tifosi (pochi) e spettatori casuali (tanti), Spike Lee ha da subito adottato un look che rende praticamente impossibile non accorgersi della sua presenza. Il blu e l’arancio sono i toni base del suo stile, tuttavia non mancano variazioni più o meno discutibili ma mai, davvero mai casuali.

La prima passione incontra la settima arte

In mezzo a tutto questo, tra una partita e l’altra, Lee ha trovato anche il tempo di girare 21 film, 12 documentari e altrettanti tra videoclip e spot commerciali. Il basket è una presenza continua: dagli esordi con l’incrollabile fede blu-arancio del Mars Blackmon di She’s gotta have it fino alle sublimazioni di He Got Game, forse il miglior film originale mai girato sulla palla a spicchi (anche se Lee mette Hoop Dreams in testa alla speciale classifica) e di Kobe doin’ work, documentario unico nel suo genere.

I riferimenti al basket nei suoi lavori sono sterminati e spesso le due passioni hanno finito per contaminarsi ben oltre le singole battute o citazioni. Ad esempio, l’arrivo di Carmelo Anthony in città lo ha spinto a esplorare Red Hook, quartiere d’origine di ‘Melo e protagonista dell’ultimo episodio in ordine di tempo delle “Brooklyn Chronicles” iniziate proprio con She’s gotta have it. E se il playgorund dedicato a Melo che compare sul finale di Red Hook Summer suggella il connubio tra città, squadra e immaginario cinematografico, per comprendere a pieno il mondo di Spike e il posto che vi occupano i Knicks è forse necessario ritornare proprio al suo esordio del 1986.

L’indimenticabile dialogo tra Mars Blackmon, più che mai impersonificazione del regista, e il rivale in amore Jamie Overstreet: Mars dichiara di amare Nola nonostante lei gli abbia fatto il peggiore degli sgarri immaginabili, ovvero lasciarlo ad aspettare fuori dal Madison Square Garden per tutti i primi due quarti della sfida con Boston. Mars, per amore di Nola, è disposto anche a passare oltre il fatto di essersi perso buona parte della strepitosa performance con cui Bernard King ha strapazzato i bianco-verdi. Per Nola, inoltre, accetterebbe anche di condividere l’oggetto del suo amore, ma le cose precipitano quando Jamie rivela di parteggiare proprio per gli odiati Celtics e si professa ammiratore di Larry Bird. L’onta di tifare un’altra squadra è inaccettabile, così come quella di ritenere Bird il miglior giocatore della NBA (Mars/Spike lo definisce invece come «the ugliest motherfucker in the NBA»). È troppo: Mars si congeda auto-escludendosi dal triangolo d’amore. A dispetto delle molteplici umiliazioni subite, amare i Knicks è una condizione vitale.

Liepaja Chronicles

Nonostante i look discutibili e le dispute verbali con gli avversari, Lee rimane quanto di più distante da un tifoso-macchietta simile a quelli che intasano gli studi di tante televisioni locali e non. La sua passione per il gioco trascende il fattore agonistico, diventando sublimazione di uno spirito d’appartenenza sanguigno. Per lui, memore delle tante serate trascorse da ragazzo in quei settori impervi normalmente definiti nose-bleeder — quelli posizionati talmente in alto da farti venire il sangue al naso, ai quali accedeva usufruendo dello sconto grazie alla tessera da studente — poter incitare i suoi beniamini da pochi metri di distanza è un vero privilegio.

A differenza di stelle ben più in linea con lo zeitgeist NBA come JAY Z e Drake, che in modi diversi hanno tentato di diventare per Nets e Raptors ciò che Spike è per i Knicks, il posto a bordo campo non è un mezzo per suggellare il proprio status di celebrità ma un fine, anzi il fine: difendere sul campo di battaglia i colori blu e arancio. Tra le tante sparate dispensate negli anni — in parte raccolte nel memoir del 1997 Best seat in the house —, Lee risulta quindi credibile quando confessa che accetterebbe di scambiare il riconoscimento alla carriera ricevuto dall’Academy nel 2015 con un titolo NBA alla sua squadra del cuore.

A sottrarlo da questa dolorosa scelta, un giorno, potrebbe essere un ragazzone biondo arrivato a New York direttamente dalla Lettonia. In tal caso, più che sacrificare il prestigioso premio, c’è da scommettere che il regista sarebbe pronto a lanciarsi in un nuovo episodio delle sue chronicles, questa volta ambientato sul Ma Baltico.

Dovesse davvero succedere, la dichiarazione «ve l’avevo detto, io ci ho sempre creduto» non sarebbe nemmeno quotata ma, in linea col vincolo tra Spike e i ragazzi che portano la scritta New York sul petto, sarebbe pronunciata con sincera e convinta devozione.

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