Sulla homepage del sito del comitato per la candidatura di Antonella Belluti a Presidente del CONI c’è scritto che, da quando il massimo organo sportivo italiano è stato costituito nel giugno 1914, nessuno dei 20 presidenti eletti è stato una donna. Niente di così nuovo o sorprendente per la storia dello sport italiano, che sulla questione delle quote di genere detiene altri record negativi. Per esempio: fino a qualche giorno fa, delle 732 Federazioni sportive presenti in Italia, nessuna di queste era presieduta da una donna né lo era mai stata (se si esclude la brevissima presidenza di Antonella Dallari, che nel 2012 fu eletta Presidente della Federazione Italiana Sport Equestri, poco prima che venisse commissariata). Un’incredibile statistica abbattuta il 13 marzo del 2021 con l’elezione di Antonella Granata a Presidente della Federazione Italiana Giuoco Squash. Numeri che non sono solo importanti per una mera questione statistica riguardo i ruoli delle donne nelle istituzioni, ma che raccontano anche la tendenza dello sport italiano ad avere una «visione monca», ovvero che elimina dal campo visivo una fetta importante delle persone che fanno sport in Italia, ossia le donne.
In questo orizzonte si inserisce la candidatura di Antonella Bellutti, la prima di una donna alla presidenza del CONI. Una scelta politica importante che la vedrà contrapporsi all’attuale presidente Giovanni Malagò, che nel caso venisse riconfermato alle elezioni del 13 maggio prossimo sarebbe al terzo mandato consecutivo.
Bellutti è stata la prima donna a vincere due ori olimpici in due Olimpiadi consecutive (Atlanta 1996 e Sydney 2000) nel ciclismo su pista. Durante la sua carriera sportiva ha fatto parte delle squadre Nazionali di tre Federazioni diverse (atletica, ciclismo e bob). Dal 2000 al 2004 è stata membro della Giunta Nazionale del CONI e anche una dei membri della Commissione Ministeriale per le Pari Opportunità nello Sport. È un'attivista per le cause dei diritti LGBT+ e dal 2000 è testimonial di Assist, l’Associazione Nazionale Atlete al fianco della quale combatte per i diritti delle atlete e delle donne nello sport.
La scelta di candidarsi al CONI è frutto di un processo maturato in un decennio, una notizia che intorno a dicembre del 2020 ha suscitato interesse sui media nazionali ma che poi è lentamente scivolata in secondo piano. A differenza della presenza televisiva a cadenza quasi settimanale dell’altro candidato alla presidenza, Giovanni Malagò, è raro riuscire a trovare un intervento di Bellutti nei media italiani.
Ecco perché, fra le altre cose, era importante parlare con lei: per sottrarre per un attimo lo sport alla consueta visione monca che entra spesso in gioco quando c’è una donna di mezzo.
La sua candidatura è innovativa per due motivi: è una donna e un’atleta. Dalla riforma Melandri del 2000 è possibile per un atleta accedere ai quadri direttivi del CONI. Perché proprio oggi?
Grazie alla riforma Melandri, già nel 2001 ho avuto il privilegio di essere eletta in quota atleti e di fare la mia prima esperienza da dirigente sportivo nella Giunta Nazionale del CONI. Da allora ho ricoperto vari ruoli, sia tecnici che dirigenziali, poi come insegnante e consulente per progetti legati allo sport. Seppur con distanze diverse lo sport l’ho sempre seguito e ho sempre continuato il mio impegno da attivista per i diritti delle donne e degli atleti, anche grazie al sostengo che ho da sempre voluto dare ad Assist, l’associazione Nazionale atlete.
Nel corso di questi venti anni ho iniziato a maturare il pensiero che forse era arrivato il momento di provare una candidatura femminile al vertice del CONI. E questa idea, nata con amici impegnati in questo settore, ha preso gradualmente forma. Abbiamo iniziato a parlarne con serietà già quattro anni fa, ma allora ero stata io a non essere pronta per motivi personali. Da quel momento ho iniziato a focalizzare sempre di più questo pensiero e soprattutto più andavo avanti più sentivo la necessità di compiere questo passo. Ho visto che il tempo non portava una soluzione dei problemi e non volevo più stare a guardare.
E così si è messa in gioco lei personalmente.
Durante gli anni del mio attivismo mi sono accorta che noi donne ci lamentiamo di non essere rappresentate e gli uomini ci rispondo che siamo noi a non proporci. Così questa volta ho deciso di farlo. Penso sia importante provarci, per aprire una strada che mi auguro porti al successo. Io non sono un tipo che partecipa se non ha un obbiettivo preciso e realistico da raggiungere. A convincermi è stata la modalità con cui abbiamo avanzato questa candidatura: abbiamo deciso di presentare un documento redatto con un metodo partecipato, da questo poi verrà il mio programma come candidata alla presidenza del CONI (qui potete trovare il manifesto di Bellutti, nda). A prescindere dal risultato, questo programma resterà come eredità del lavoro di molte persone e detterà la linea da seguire per il futuro. In questo modo speriamo di far sentire la nostra voce su quei problemi che da sempre attanagliano lo sport, ma che fino ad ora sono noti esclusivamente agli addetti ai lavori.
Cosa dovrebbe differenziare la gestione di un o una atleta rispetto a quella di un o di una manager e/o politica?
La questione è di centralità dell’attenzione. Mentre un manager che non ha un’estrazione sportiva vede lo sport come uno strumento di ricaduta economica, un atleta lo percepisce come un’opportunità di godere di un diritto che non si ferma all’attività motoria, l’educazione fisica, l’agonismo ma che è anche uno stile di vita. Lo sport deve essere inclusivo, deve essere un diritto di cui tutti possono godere e che per la sua stretta connessione con la salute entra nella logica dei diritti costituzionali e come tale deve essere tutelato. Per questo lo Stato si deve impegnare a rimuovere ogni ostacolo affinché il cittadino ne possa usufruire.
È da qui che vorrei partire per dire che c’è bisogno di una struttura che tratti lo sport come un diritto costituzionale. C’è bisogno di politiche che consentano allo sport di essere a disposizione di tutti e non come un tema soggetto alle opportunità del momento, alla condizione economica, alla famiglia, alla vicinanza alle strutture, alla disponibilità economica.
Quali sono i rischi che stiamo correndo nel rendere difficile l’accesso allo sport per tutti?
Io immagino lo sport come sinergia tra la scuola, le società sportive, gli enti di promozione, così da renderlo un’esperienza che riguardi tutti. Prima di tutto lo sport deve essere un momento di formazione imprescindibile della propria vita, poi per alcuni si può pure aprire la possibilità di un inizio di una carriera agonistica.
Mark Dadswell/ALLSPORT
Io stessa sono stata un’atleta, quindi conosco, e mi è cara, tutta la dimensione delle tutele verso chi fa sport a livello agonistico. Tutele di cui ci si dimentica e che confliggono con i valori dello sport. In casi estremi invece di essere uno strumento di crescita, lo sport agonistico rischia di diventare un’officina di disadattati. Con questo intendo che l’essere forzati a intraprendere uno sport a livello agonistico in maniera precoce, come avviene in Italia, crea dei problemi di formazione. L’attività sportiva sta diventando sempre più iper-specializzata e in conflitto con qualsiasi altro tipo di impegno organizzato, e ormai si inizia il percorso sempre prima. Questo fa sì che l’esperienza sportiva esponga a dei rischi enormi nella formazione a 360° dell’atleta. Nella migliore delle ipotesi, la carriera sportiva finisce in un’età in cui è un po’ presto per andare in pensione dalla vita e così c’è bisogno di riciclarsi in una nuova identità senza avere gli strumenti adatti per farlo. Questo passaggio in Europa l’hanno affrontato già da molti anni con un network che si occupa di politiche legate alla doppia carriera, argomento che in Italia si trova ancora ad uno stato embrionale.
Nella conferenza stampa lei esordisce dicendo che la sua carriera è stata costellata di momenti in cui è stata sottoposta a rischi e critiche. I pregiudizi su cosa si basano? Sulla sua figura di ex atleta che adesso lavora in un contesto principalmente composto da politici o professionisti di formazione diversa?
Ci sono caratteristiche che in una donna atleta non sono accettabili. Io stessa ho ricevuto critiche per i miei muscoli, per le mie vene. Spesso anche perché quando le prestazioni delle donne si avvicinano a quelle degli uomini subito nascono illazioni. Ho sentito sulla mia pelle questa poca libertà che hanno le donne di essere semplicemente loro stesse e di essere giudicate per la loro prestazione. Da qui nascono una serie di stereotipi sul corpo delle atlete, che viene riconosciuto solo se corrisponde a determinati canoni estetici.
La discriminazione nel mondo dello sport non tocca solo l’essere atleta, ma anche l’essere parte di quel mondo. Da qui nasce la situazione in Italia, dove il maggior numero di sportivi tesserati è donna ma nei quadri tecnici poi non ci sono donne. Le donne sono escluse nonostante titoli accademici e carriere sportive. E qui si crea una mancanza di tipo metodologico perché le donne possono essere portatrici di un modello nuovo di prestazione. Anche nei quadri dirigenziali, nei 104 anni di storia non c’è mai stata una donna presidente di una Federazione – stiamo parlando di 740 ruoli di presidente che mai una volta sono stati ricoperti da donne (l’intervista è precedente al 13 marzo 2021, nda). Ovviamente non c’è mai stato un Presidente del CONI donna. Questo vuol dire avere una visione monca. E non solo il vertice dirigenziale è mono-genere, ma molti di questi uomini sono sempre gli stessi.
Con la sua candidatura intende sfidare un sistema di gestione del potere consolidato e maschile. Mi può spiegare come intende farlo? Come si può fare una cosa che non è mai stata fatta prima.
Se il presidente del CONI viene eletto dai grandi elettori, che nello specifico sono i Presidenti di Federazione, le Discipline Associate, gli enti di promozione che sono parte di quel sistema, l’unico modo per sfidarlo è quello di fare un programma che sia sì di rottura, ma anche propositivo. Che metta cioè in evidenza delle soluzioni a problemi che ad oggi non si sono voluti risolvere.
Questa sarà la grande forza della mia candidatura. Da una parte c’è a la volontà di rompere con il sistema vigente, dall’altra ci sono delle proposte per arrivare a risolvere i problemi. In questo modo nel caso in cui io non venissi eletta, ci sarebbe una sorta di autodenuncia da parte di chi non mi ha votato. Io devo essere in grado di far oltrepassare alle tematiche dello sport i confini di questo feudo. L’opinione pubblica sarà attenta al fatto che ancora una volta questo modello si perpetua senza voler porre un cambiamento o una soluzione ai grandi temi. Il verdetto lo sapremo il 13 maggio.
Un aspetto importante del suo manifesto è il punto che interessa una visione non personalistica ma collettiva dello sport. Cosa intende?
Intendo una visione inclusiva. L’agonismo nello sport è fondato sulla meritocrazia e sulla gerarchia che il risultato ti offre. Questo implica includere ed escludere a seconda delle capacità (dell’atleta). Lo sport invece deve essere inclusivo, tutti devono avere la possibilità di poter godere delle potenzialità che esso offre. Una più ampia base di accesso allo sport sarebbe una fonte di ricchezza per l’Italia. In primo luogo in termini di salute e benessere, e poi perché da una base più ampia di accesso possono nascere grandi campioni ma anche e soprattutto cittadini sani. E in un momento di difficoltà come quello che viviamo adesso credo che sia un tema molto importante da portare avanti. È un momento in cui il corpo viene mortificato e penso a quante polemiche ci sono state durante il primo lockdown anche solo per andare a fare una passeggiata e una corsa per nutrire il proprio sistema immunitario.
Quali potrebbero essere le difficoltà a rendere più capillare la diffusione dello sport?
Credo che la difficoltà sia più che altro burocratica. Parlo della gestione degli spazi pubblici. Io rabbrividisco quando vedo i campi di atletica aperti con orari di ufficio. La maggior parte delle persone che fa sport lavora. Quindi va a praticare lo sport in pausa pranzo. E in Italia ci sono enormi difficoltà per avere gli orari estesi. Se non superiamo queste difficoltà apparenti e non cominciamo a capire i vantaggi che ci sarebbero nell’estendere gli spazi pubblici alla pratica sportiva oppure gli impianti ad un utilizzo che non è prettamente codificato e agonistico, definiamolo de-istituzionalizzato, allora non andremo lontano. Quando io sono andata per la prima volta in Cecoslovacchia ho capito immediatamente per quale motivo ci sono grandi tennisti che venivano da lì. Invece che esserci campi sportivi chiusi con il lucchetto e invece di avere i giardini pubblici con l’altalena, hanno i campi da tennis ovunque e con un accesso gratuito. Se dai la possibilità alle persone è inevitabile che poi nascano tutti i benefici di cui parlavamo prima. E quindi bisogna togliere le difficoltà di usufruire degli spazi pubblici e di usufruire degli impianti che ci sono. Gli impianti devono essere più usati da tutti. Credo che siano questi i due punti da cui partire.
In sostanza più sport per tutti.
Ecco un altro aspetto drammatico in Italia: la difficoltà di fare sport se non fai agonismo. Per avere un peso le società sono costrette ad avere un certo numero di tesserati. E quindi si crea quel meccanismo che sempre di più imbriglia la possibilità di fare attività. In questo modo vengono limitate le potenzialità di una società che in condizioni migliori potrebbe avere una maggior ricaduta su un piano sociale piuttosto che esclusivamente agonistico.
Il sistema italiano quindi costringe a creare dei campioni per giustificare anche la presenza di alcune realtà. Ma lo costringe in maniera sbagliata. In questo modo tu affidi al caso il fatto che ti arrivino un bambino o una bambina che hanno proprio le caratteristiche per poter fare la disciplina che è stata scelta a cinque anni. Non funziona così. I bambini devono essere messi nelle condizioni di provare tanti sport. È necessario dare alle persone l’opportunità e il tempo di capire se uno sport è loro congeniale, e se poi le proprie capacità coincidono con la propria passione.
Così come è difficile in giovane età indovinare lo sport per il quale si è portati. È un gioco di coincidenze fortuite che si devono verificare. Che poi è anche la mia storia. Nel mio caso è grazie alla scuola che sono diventata ciò che sono diventata. Se poi ho vinto due ori nel ciclismo su pista – gli unici due che l’Italia abbia mai avuto in campo femminile – la riflessione è che io sono una ciclista per caso. Inizialmente facevo atletica leggera e ho iniziato ad andare in bicicletta perché mi sono fatta male ad un ginocchio. Ecco come è andata, il grande risultato è frutto di una coincidenza.
Cosa ne pensa lei del fatto che la legge 91/1981 (la controversa legge sul professionismo sportivo secondo la quale sono le singole Federazioni a decidere sullo status di professionismo o meno degli atleti; ad oggi in Italia nessuno sport femminile è considerato come professionista, nda) è ancora in vigore dopo 40 anni?
Penso che non ci sia la volontà di risolvere il problema. Anche la proposta di riforma attuale rimane alla discrezionalità e quindi invece che partire dalla natura della prestazione si dice ancora una volta che è facoltà dei presidenti decidere se instaurare o meno un rapporto di lavoro con l’atleta.
Siamo in una situazione in cui si sottovaluta la necessità delle tutele dell’atleta e a mio avviso in questo modo vengono disconosciute anche le difficoltà che l’agonismo rappresenta. Da una parte c’è un mondo sempre più affascinante per i giovani e dall’altra c’è l’assenza totale di volontà di tutelare chi questo mondo lo vive. Ovviamente è un grande dispiacere pensare che non siano stati sufficienti vent’anni di battaglie e che non siano sufficienti i risultati che le atlete hanno ottenuto per creare la sensibilità di voler risolvere il problema. Allora a questo punto mi chiedo se oltre alla scarsa sensibilità non ci sia anche l’incapacità di volerlo fare.
I gruppi sportivi militari per esempio sono una soluzione placebo molto in uso negli sport individuali.
I gruppi sportivi militari sono sicuramente una risorsa, ma non sono la soluzione al problema. Alle Olimpiadi di Rio, tutti gli atleti degli sport individuali che sono andati a medaglia per l’Italia facevano parte dei gruppi sportivi militari. È evidente allora che come atleta per avere delle tutele è necessario vestire la divisa. Questo, a mio avviso, è un’ulteriore evidenza della discriminazione. Oltre a questo si aggiunge il fatto che questo meccanismo non è a costo zero. Ci sono 35 milioni di euro di denaro pubblico che ogni anno vanno a sostenere questo modello. Allora mi piacerebbe che ci fosse anche un’altra possibilità: quella di ricreare dei centri universitari sportivi dove invece di vestire la divisa e di confluire automaticamente in un lavoro militare, si può accedere alla possibilità di formarsi e una volta lasciata l’attività, di aver una possibilità che permetta di aprire nuove strade.
Inoltre mi domando cosa ne pensano di questo le 100 mila società sportive italiane che sono il bacino da cui questi gruppi miliari attingono e che non possono far altro che nutrire questo sistema. È ovvio che se da un certo livello in poi i gruppi militari sono l’unica soluzione per avere le tutele che spettano di diritto ad un lavoratore, anche gli atleti sono spinti in quella direzione. È una situazione drammatica e non ho più parole di giustificazioni. E non credo ci debba essere giustificazione. Ci devono essere nuove proposte e fare in modo che si concretizzino.
Una delle conseguenze più severe di questo sistema è che da una certa età in poi le atlete iniziano a pensare di cercarsi un lavoro “vero”. Un lavoro che, a differenza della carriera atletica non professionistica sia tutelato in materia di infortunio, maternità, ferie, malattia. In questo percorso non so nemmeno io quante atlete di prima fascia vanno perdute.
Esatto. Ciò di cui stai parlando è anche il motivo per cui le donne sono così poche. Quando si corrono le maratone e ci sono i premi diversi fra uomini e donne, oppure gli uomini sono in numero maggiore e quindi si parla di maggiore concorrenza. Le donne sono in numero minore perché devono decidere prima se investire il loro tempo in altre cose che sono più di garanzia per la loro vita.