Parliamoci chiaro: il ciclismo è uno sport fondamentalmente noioso. Lo è in modo intrinseco e non ci sono santi che tengano, è nella sua stessa natura. Si potrebbe dire che tutti gli sport sono noiosi, il che in parte è vero, se si pensa che persino nel calcio c’è chi sostiene che 90 minuti per una partita in fondo siano troppi rispetto agli highlights su YouTube o ai reel su TikTok.
La noia del ciclismo però è diversa rispetto ad altre noie sportive, perché è contemplata a priori nella struttura stessa delle corse. La maggior parte di ciò che avviene durante le gare di ciclismo non viene nemmeno mostrato dalle televisioni perché non è interessante. Potremmo dire che non succede niente, almeno televisivamente parlando, e quindi non ha senso star lì a guardare. Non è detto che la noia non la faccia da padrona anche nelle fasi conclusive, negli ultimi cinquanta o cento chilometri di una gara; fra uno scatto e l’altro o magari nell’attesa che accada qualcosa o che arrivi quella salita o quel muro o quel settore di pavé.
In uno sport intrinsecamente noioso chiedersi cosa renda bella una corsa non è scontato. Per alcuni la bellezza sta nella capacità di una corsa di restare aperta e incerta fino alla fine, come la Milano-Sanremo che si decide negli ultimi 15 chilometri dopo quasi 280 chilometri di attesa. Ma gli esempi sarebbero tanti: il Giro d’Italia 2022, rimasto aperto fino all’ultimo e deciso sull’arrivo in salita nell’ultima tappa di montagna dopo tre settimane piuttosto piatte.
La bellezza in questo caso sta proprio nella noia prolungata che sfocia in un’improvvisa scarica di adrenalina, confinata agli ultimi minuti della corsa. Un ideale che ben si sposa con le esigenze televisive di avere dei brevi momenti di highlights da vendere o dei momenti ben definiti di pathos su cui puntare per fare picchi di ascolti.
Per altri, invece, la bellezza sta nei continui scatti, nei duelli, negli attacchi frontali dei grandi protagonisti che lottano fra loro senza mai riuscire veramente a superarsi. Ma che ci provano e ci riprovano incessantemente, con continui cambi di ritmo e ribaltamenti.
A queste due tipologie di corsa se ne deve però aggiungere una terza, che forse è la più classica, almeno nel ciclismo. La fuga solitaria. Di esempi di questo tipo, di corse rimaste nella leggenda di questo sport, ce ne sono tante, soprattutto nel secolo scorso, quando le televisioni non esistevano o erano ancora nello stadio primordiale del loro sviluppo tecnologico e le corse - di conseguenza - si vivevano alla radio o il giorno dopo attraverso i racconti sui giornali di quei pochi fortunati che la vedevano coi propri occhi, sulla strada, e che poi scrivevano e narravano ciò che avevano visto, regalandoci pagine di storia dello sport e del giornalismo.
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Oggi invece che l’appassionato si è trasformato in un telespettatore, anche il ciclismo è cambiato di conseguenza. Fernando Escartin - l’uomo che disegna i percorsi della Vuelta - ha sostenuto in un’intervista a Gabriele Gianuzzi di volere tappe corte e intense «in cui gli attacchi siano favoriti ma senza generare troppi distacchi». «Noi crediamo che al giorno d’oggi non servano sei ore di tappa, certo in alcuni casi ci può stare, ma non sempre. Pensiamo che raggruppare l’azione in tre - quattro ore massimo sia perfetto sia per gli atleti che per il pubblico. Vedere che negli anni anche il Giro e il Tour ci hanno copiato in questa direzione ci fa molto piacere e ci dice che forse stiamo andando in una direzione corretta. In generale penso che se arrivati al finale ci siano 2-3 corridori a giocarsi la vittoria, ma perché no anche 5-6 sia molto positivo perché aumenterebbe la suspense e la suspense attira grande pubblico».
Questa filosofia che va incontro a quelle che sembrano essere le necessità del pubblico televisivo contemporaneo però mal si sposa quindi con l’epica classica del ciclismo e in particolare con la fuga solitaria, la sua massima espressione artistica se vogliamo. L’uomo solo al comando, per citare Mario Ferretti, che sfida solitario le montagne, i suoi avversari e i suoi stessi limiti. Non è un caso che la tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949 sia universalmente considerata come la più bella di sempre, nonostante - o probabilmente proprio per questo - nessuno l’abbia vista in diretta se non i pochi giornalisti al seguito della corsa. Nemmeno, forse, Mario Ferretti che raccontava alla radio le gesta eroiche di Fausto Coppi e del suo lunghissimo volo solitario attraverso le Alpi piemontesi.
Non è solo la televisione ad aver reso il ciclismo allergico a questo tipo di impresa, ma anche la cosiddetta iperspecializzazione. Un ciclismo che si potrebbe definire scientifico, o forse sarebbe meglio dire scientificizzato. In cui ogni minimo dettaglio viene preso in considerazione, ogni situazione sezionata al millesimo fino ad avere l’outcome perfetto, infallibile. Corse fatte di attendismo e scatti nel finale. Alejandro Valverde, uno dei più grandi campioni di quest’epoca, è l’esempio più fulgido di questo periodo storico. Il prototipo perfetto del ciclista che non spreca neanche una goccia in più del necessario, che attende nascosto nell’erba alta che la sua preda faccia un passo falso per poi azzannarla in volata senza lasciarle scampo.
L’obiettivo di questa strategia è cercare di risparmiare più energie possibile in vista del finale, anche se non è esente da problemi, non solo per lo spettacolo. Il principale difetto è il maggior peso lasciato all'aleatorietà. Attendere il finale va bene se si ha il ciclista più veloce e più resistente in gruppo oppure semplicemente il più resistente fra gli uomini veloci. Ma anche così, l’elemento casuale intrinseco alle volate rende questa strategia meno sicura di quanto possa sembrare a prima vista. Anche perché il tratto dove cercare la vittoria diventa più breve e quindi lo spazio di manovra molto più ridotto.
È anche per questo motivo che in questi ultimi anni alcuni grandi ciclisti - per lo più giovani o comunque nuovi al ciclismo su strada - cercano altri modi per raggiungere la vittoria. Modi che per loro - per le loro caratteristiche tecniche, certo, ma anche per la quantità di talento che hanno a disposizione - sono più sicuri. E il modo più sicuro di tutti - non il più facile, sia chiaro: il più sicuro - è quello di andar via dalla media distanza, staccare tutti e arrivare al traguardo da soli. In una specie di ritorno al ciclismo eroico.
L’impressione che si stia passando a un’altra epoca deriva anche dal ricambio dei suoi protagonisti. In questi anni si stanno ritirando uno dopo l’altro tutti i grandi protagonisti dello scorso decennio. Da Vincenzo Nibali a Philippe Gilbert passando per Alejandro Valverde e Tom Dumoulin, sono tanti i grandi campioni che hanno segnato l’epoca più recente del ciclismo contemporaneo che si sono già arresi allo scorrere del tempo. Altri - come Mark Cavendish e Peter Sagan - hanno già annunciato che questa sarà la loro ultima stagione in gruppo; altri ancora invece si avviano lentamente al tramonto delle loro carriere, come Nairo Quintana e Chris Froome.
Alcuni di questi ciclisti non sono nemmeno così vecchi: Peter Sagan è del 1990, così come Thibaut Pinot e Tom Dumoulin che si è già ritirato l’anno scorso per motivi più psicologici che fisici. Le carriere di tanti di questi ciclisti nati nei primi anni Novanta - schiacciati tra la generazione degli anni Ottanta e le nuove leve - sono rimaste come compresse: si potrebbe dire mai veramente sbocciate a pieno nonostante le vittorie e le soddisfazioni che sono riusciti a togliersi. Hanno potuto approfittare per un breve lasso di tempo di un piccolo vuoto di potere quando i più vecchi hanno fisiologicamente tirato i remi in barca. Ma poi sono arrivati i giovani, che a volte giovani non sono ma lo sembrano, perché sono talmente estranei a quel mondo da sembrare di un’altra generazione.
È la cosiddetta generazione di fenomeni del ciclismo: Tadej Pogacar, Mathieu van der Poel, Wout Van Aert, Remco Evenepoel. Alle loro spalle poi ci sono i vari Tom Pidcock, Arnaud De Lie e via dicendo: ciclisti in grado di tenere testa a quei quattro, almeno fino a un certo punto, ma che con loro condividono uno stesso stile, la stessa mentalità nell’approcciarsi alle corse e - soprattutto - nel ricercare la vittoria.
Van der Poel contro Van Aert
Come detto, non tutti questi ciclisti fanno parte della stessa generazione. Van Aert e Van der Poel sono invece ancora Millennials, nati nella prima metà degli anni Novanta (rispettivamente 1994 e 1995). Molto prima dei Gen Z come Pogacar, Evenepoel e Pidcock, tutti nati dal 1998 in poi ed esplosi giovanissimi.
Van Aert e Van der Poel però sono arrivati al ciclismo su strada più o meno in contemporanea rispetto ai loro più giovani colleghi perché entrambi hanno dedicato buona parte della loro esistenza al ciclocross, specialità di cui sono gli assoluti padroni da ormai quasi un decennio. Sono arrivati con prepotenza nel ciclismo su strada nel biennio 2018-2019: prima Van Aert, poi il rivale Van der Poel. Se l’impatto di Van Aert è stato più morbido all’inizio prima di diventare mostruoso da un punto di vista della completezza, quello di Mathieu van der Poel è stato un avvio folgorante solo in seguito normalizzato nella sua specificità tecnica.
Van Aert è un ciclista che sa fare praticamente tutto, forte in volata, fortissimo a cronometro, va alla grande sul pavé, si difende sulle grandi montagne. Non a caso è l’uomo perfetto per accompagnare Jonas Vingegaard al Tour de France, visto che da solo riesce a ricoprire due o tre ruoli insieme. Van der Poel è invece un ciclista che sa fare poche cose ma molto bene: va fortissimo sul pavé, è devastante sui brevi strappi tipici delle corse del Nord, velocissimo negli arrivi con volata ristretta. Però sulle salite lunghe non va e a cronometro non ci si è mai dedicato molto. Il risultato è un ciclista meno completo, in generale, ma più specializzato su quelle cose su cui ha deciso di basare la sua carriera su strada.
Quello che però hanno fatto entrambi è stato cambiare il canovaccio tattico delle corse, rendendo non solo possibile ma consigliabile ciò che prima di loro era considerato impossibile. L’esempio più classico è la vittoria di Van der Poel all’Amstel Gold Race 2019. Nel finale della classica olandese erano da soli in testa Jakob Fuglsang e Julian Alaphilippe che erano stati bravi a scappare via dal gruppo dei migliori. La coppia di testa era ampiamente in vantaggio, tanto che la vittoria di uno dei due sembrava scontata fino a un paio di chilometri dal traguardo.
Questo perché nonostante il vantaggio non fosse così immenso, di solito in queste situazioni è molto difficile che dietro si riesca a trovare il modo di organizzare un inseguimento ben fatto, prolungato e costante. Invece, complice anche il rallentamento della coppia al comando, da dietro Van der Poel ha iniziato a tirare il gruppo senza curarsi di chi si sarebbe portato dietro a ruota, con il solo obiettivo di ricucire lo strappo. Come una locomotiva di un treno malconcio, Van der Poel si è messo davanti mentre i piccoli vagoni del trenino che cercavano di stargli a ruota si allungavano e in parte perdevano contatto.
Nessuno sa esattamente come sia successo. Van der Poel sul Cauberg aveva un minuto di ritardo e mancava poco all’arrivo. Non inquadrato dalle telecamere, se non per qualche sporadico secondo, Van der Poel aveva deciso che era il momento di partire. Probabilmente informato del fatto che davanti erano saltati tutti gli accordi e quindi c’era ancora qualche speranza.
Come una pallina di neve che rotola sul fianco della montagna, Van der Poel era partito trascinandosi dietro tutto quello che incontrava. Alla sua ruota un giovane Bjorg Lambrecht (che purtroppo morirà pochi mesi dopo durante una tappa del Giro di Polonia). I due insieme vanno a riprendere tutti quelli che avevano provato a sganciarsi nell’inseguimento solitario: Bardet, Mollema, Trentin, Simon Clarke. Uno dopo l’altro, come le briciole di Pollicino. E come Pollicino, Van der Poel li raccoglie tutti e alla fine li vede, là davanti, sul rettilineo: Alaphilippe, Fuglsang e Kwiatkowski che rientra e ci prova in contropiede.
Normalmente in questi casi dal gruppetto inseguitore qualcuno dovrebbe lanciarsi, sacrificarsi per gli altri. Condannarsi alla sconfitta per provare a chiudere quell’ultimo buco e lanciare la volata disperata. Ma ai quattrocento metri parte invece Mathieu van der Poel che lancia lo sprint più lungo della sua carriera. Davanti, Alaphilippe lo vede e anche se non è il momento giusto parte anche lui. Ma Van der Poel è sempre più vicino, è lì attaccato. Lo affianca, lo passa e lo lascia lì, secco, senza fiato, senza parole, senza speranze.
Con Simon Clarke incollato alla sua ruota, Mathieu van der Poel, 29 anni dopo suo padre Adri, vince la “sua” Amstel Gold Race. Lo fa tagliando il traguardo senza avere la forza di alzare le braccia, una mano sul manubrio, l’altra a tenersi la testa perché non ci crede nemmeno lui e sembra urlare a se stesso e agli altri la sua incredulità. Dopo il traguardo si butta a terra, distrutto dopo aver compiuto una delle più grandi imprese ciclistiche di questo secolo. Un’impresa che ha cambiato, come dicevamo in precedenza, la concezione tattica delle classiche del Nord rendendo possibile l’idea di lanciarsi in un inseguimento più o meno solitario senza fare troppi calcoli, senza la paura di perdere a congelare ogni possibile mossa.
“He was out of it, he was finished, he was done, it was never ever supposed to happen”. Una di quelle telecronache che rimarranno nella storia di questo sport così come l’evento a cui è legata.
Un’altra gara-simbolo di questa nouvelle vague del ciclismo è il Giro delle Fiandre 2020 di cui avevamo parlato a suo tempo. È forse il primo grande duello fra Van Aert e Van der Poel ad alti livelli su strada ma è anche il momento in cui appare chiaro che il Giro delle Fiandre, ma non solo quello, è a un punto di svolta. È vero che il Giro delle Fiandre, come anche in generale le corse sul pavé, è sempre stata una cosa molto difficile da interpretare e che poteva risolversi anche in situazioni imprevedibili; ma è anche vero che quelle che prima erano situazioni appunto imprevedibili e sorprendenti, adesso sono la normalità. Da quel 2020 in poi non solo non ci stupiamo se la corsa esplode molto lontano dal traguardo ma è esattamente ciò che ci aspettiamo che avvenga.
In parte perché questi nuovi campioni hanno la capacità fisica di sopportare sforzi prolungati di quel tipo e hanno delle grandi doti di recupero nel breve termine. In parte però anche perché tatticamente è per loro conveniente far saltare in aria la corsa molto lontano dal traguardo per evitare di rimanere invischiati in complessi giochi di squadra o di strategia, come alla Gand-Wevelgem 2020 corsa una settimana prima di quel Fiandre.
In più, il Giro delle Fiandre presenta un’altra caratteristica fondamentale che l’ha resa terreno fertile per queste che possiamo considerare delle sperimentazioni: i muri in pavé in stradine strette e tortuose. Quando si è in gruppo, per prendere i muri in pavé in testa le squadre si impegnano per portare avanti i propri capitani che devono quindi limare in gruppo per portarsi davanti. Una dinamica che porta un grande dispendio di energie oltre a tanti rischi viste le alte velocità, le strade strette, il nervosismo e il fatto che tutti vogliono star davanti anche se non c’è spazio.
Quando si è in fuga, invece, si possono prendere i muri con il proprio ritmo, senza doversi spremere prima per arrivarci in testa. I rischi sono minori, la fatica mentale è praticamente nulla e sommando tutti i fattori alla fine è meno faticoso così. Inoltre, le strade strette e tortuose non consentono di sfruttare a pieno la squadra per organizzare un inseguimento nei confronti di chi è in fuga rendendo molto complicata la gestione della gara da un punto di vista tattico.
Attaccare da lontano, anticipare e andar via da soli o in un piccolo gruppo di selezionati atleti, è quindi l’opzione che questi nuovi fenomeni del ciclismo hanno adottato per ovviare a questi problemi tecnici. Una volta davanti, poi, per gli avversari è praticamente impossibile andare a chiudere,per le caratteristiche del percorso ancor prima che per la forza disarmante di questi ciclisti.
Non è un caso quindi che il Giro delle Fiandre sia diventato per questi ciclisti la corsa per eccellenza, quella che sembra disegnata su misura per le loro caratteristiche e il loro stile di gara. Non è un caso, ancora, che da due anni a questa parte anche il terzo attore protagonista di questa nuova stagione del ciclismo abbia deciso di puntare con forza sul Giro delle Fiandre come terreno scelto per sfidare i due fenomeni del ciclocross.
Arriva Pogacar
Si tratta dello sloveno Tadej Pogacar, classe 1998 con già un podio alla Vuelta nel 2019, due Tour de France vinti nel 2020 e 2021, la Liegi-Bastogne-Liegi portata a casa nel 2021 e la doppietta al Giro di Lombardia nel biennio 2021-2022. Un palmares di tutto rispetto, che già così lo proietta su un piano che è totalmente estraneo alla quasi totalità dei ciclisti del nuovo millennio. Non contento, Pogacar ha deciso nel 2022 di ampliare il suo ventaglio di classiche primaverili aggiungendo, fra le altre, la Milano-Sanremo e il Giro delle Fiandre.
Alla Milano-Sanremo si è però scontrato contro un percorso inadeguato alla sua idea di mondo. La Classicissima è ormai una corsa paralizzata nell’attesa del Poggio, salita con pendenze più che abbordabili che fa selezione solo se presa in un determinato modo e solo perché arriva dopo quasi 300 chilometri di gara. Pogacar ha provato nel 2022 a piegare il percorso della Sanremo alla sua necessità di giocare all’attacco: ha quindi messo la squadra a fare il forcing sulla Cipressa per poi attaccare sulle prime rampe del Poggio ma senza riuscire a fare la differenza come avrebbe voluto.
Nel 2023 ha invece deciso di adattarsi al contesto, rassegnato all’idea che nella attuale Sanremo è praticamente impossibile inventarsi qualcosa di diverso dal solito. Ha posticipato l’attacco sul Poggio, riuscendo a portar via il quartetto da cui poi è evaso Mathieu van der Poel per andare a prendersi la vittoria in solitaria sul traguardo di Via Roma. La Milano-Sanremo quindi ancora sfugge dalle mani di Pogacar, ma è pur vero che è quasi impossibile controllare il finale di quella corsa; difficilissimo gestire la randomicità di quei momenti, pochi attimi in cui si decide tutto senza possibilità di correggere o sistemare eventuali errori.
Alla Sanremo 2022 Pogacar parte a 2.7 km dallo scollinamento del Poggio senza riuscire a fare la differenza. Nel 2023 invece è scattato a 1.4 chilometri, dopo aver sfruttato il lavoro di Tim Wellens e favorito dal buco alle sue spalle aperto da Matteo Trentin
Il Giro delle Fiandre invece è l’esatto opposto. Una corsa che fornisce ai suoi campioni terreno fertile per provare qualsiasi cosa in qualunque momento. Non esiste un canovaccio standardizzato e inscalfibile. E così Pogacar si presenta al Fiandre 2022 con lo stesso approccio della Milano-Sanremo: attaccando come un disperato in ogni momento. Stavolta però resta solo con Van der Poel che poi lo intorta in una volata strana in cui da dietro rientrano Madouas e Van Baarle a soffiare anche il podio allo sloveno.
Quello che però dimostra il Fiandre 2022 è che quella è la corsa in cui poter fare tutto, in cui potersi inventare situazioni nuove, in cui poter sperimentare nuove strategie e spingere sé stessi e il ciclismo verso nuovi limiti.
Per questo motivo il Giro delle Fiandre 2023 era così atteso: si trattava finalmente dello showdown, il momento della verità fra questi tre enormi campioni. Tre ciclisti di simile grandezza ma con caratteristiche fisiche completamente differenti che si ritrovano a sfidarsi nella stessa corsa, come avessero scelto come luogo dello scontro il terreno che potesse essere adatto a tutti e tre.
C’è da dire che, a guardare le sfumature, il Giro delle Fiandre è più adatto a Mathieu van der Poel rispetto agli altri due tenori. Questo perché l’olandese ha uno scatto bruciante sugli strappi brevi, è molto esplosivo e questa cosa ben si adatta ai muri del Fiandre. In più, Van der Poel ha forse più degli altri due la capacità di recuperare fra uno sforzo e l’altro all’interno della stessa corsa e quindi riesce meglio di altri a effettuare più attacchi uno dopo l’altro, un muro dopo l’altro. La terza caratteristica è la sua incredibile padronanza del mezzo che si traduce in una capacità unica di far scorrere la bici sul pavé, di trovare sempre la posizione migliore per affrontare le pietre e di conseguenza risparmiare energie preziose. Come se non bastasse, poi, Van der Poel ha sempre dimostrato di essere il migliore dei tre sugli sprint ristretti, quelli in cui si parte quasi da fermi e si deve quindi accelerare bruscamente in uno spazio molto ristretto.
Wout Van Aert, a differenza del rivale, è meno esplosivo nello scatto secco ma ha maggiori doti sul passo che lo rendono più adatto a correre su salite leggermente più lunghe in cui poter fare la differenza con uno sforzo costante e prolungato. Di conseguenza è anche il più forte dei tre nello sprint lanciato ed è anche tosto da distanziare perché torna sempre sotto in progressione se il terreno gli offre questa possibilità.
Se però fra Van der Poel e Van Aert, con tutte le differenze del caso, riusciamo facilmente a trovare somiglianze chiare ed evidenti, Tadej Pogacar ci proietta invece in un altro mondo. Lo sloveno viene dai grandi giri, è uno scalatore - o per meglio dire un passista-scalatore come spesso vengono definiti questo genere di corridori capaci di andar forte in salita grazie anche alle loro doti sul passo, per l’appunto.
Pogacar è un ciclista da grandi corse a tappe che sa anche gestirsi molto bene nelle classiche. Diverso rispetto sia ai grandi passisti-scalatori alla Froome sia rispetto ai ciclisti come Contador. A dirla tutta, un tipo di ciclista che negli ultimi anni si era visto molto raramente e di certo mai a questi livelli. Per trovare qualcosa di simile bisogna forse tornare a Gianni Bugno o ancora meglio a Laurent Fignon: ciclisti che ormai appartengono ad altre epoche storiche.
Come Fignon, anche Pogacar è esploso giovanissimo vincendo il Tour de France a 22 anni e poi facendo il bis l’anno successivo. Entrambi avevano grandissime doti in salita, molto simili anche fisicamente, entrambi capaci di far bene anche nelle classiche e a cronometro - per quanto possa sembrare paradossale visto che parliamo di uno che ha perso due grandi giri per colpa di due cronometro. Ma Fignon non andava piano in quella specialità, basti pensare che al Tour del 1984 vinse tutte e tre le crono individuali (escluso il prologo) contro Bernard Hinault che alla fine fu secondo a oltre 10 minuti in classifica generale.
Le somiglianze purtroppo si interrompono qui perché la carriera di Fignon fu funestata dagli infortuni. Pogacar invece può in un certo senso portare a termine quella realizzazione definitiva che mancò al francese. Le caratteristiche di Pogacar sono molto particolari e molto diverse rispetto agli altri due protagonisti: è molto più snello e leggero, ha meno potenza vera e propria ma riesce comunque ad essere esplosivo sullo scatto secco e abbastanza veloce in volata ristretta (per quanto su questo aspetto è ovviamente nettamente inferiore ai due rivali).
Se il Lombardia e la Liegi sembravano naturalmente alla sua portata (sono due corse che da sempre si sposano bene alle caratteristiche degli uomini da grandi giri perché presentano salite più lunghe e meno frequenti rispetto alle altre classiche), quando ha deciso di affrontare il Fiandre in tanti hanno storto il naso: troppo leggero per affrontare le pietre, troppo disabituato a guidare la bici in quelle condizioni, troppo inesperto per muoversi in gruppo su quelle stradine. Invece Pogacar già nel 2022 ha dimostrato di saperci fare sulle pietre: ha uno stile molto particolare nell’affrontare i settori in pavé, sempre nel mezzo della schiena d’asino, non cerca quasi mai le canaline a bordo strada. Un po’ per non rischiare, un po’ perché forse la sua statura fisica è più adatta alle pietre che al fango. Smarcato il problema della guidabilità sulle pietre, ha risolto il problema dello stare in gruppo nelle stradine strette lanciandosi all’attacco da lontano, sgretolando il gruppo e distruggendo così sul nascere ogni preoccupazione di sorta.
Pogacar affronta il pavé a centro strada mentre Van Aert e altri alle sue spalle cercano la canalina laterale per evitare le pietre.
Il problema della potenza però rimaneva: dovendo agire da seduto ed essendo lui più abituato a scattare alzandosi sui pedali, la sua azione perdeva di efficacia contro Van der Poel che invece ha una stazza diversa e la capacità di esprimere molta più potenza restando seduto sul sellino. Problema che faceva pensare che in fondo la sua missione di vincere anche il Giro delle Fiandre fosse un’impresa impossibile. Invece, come nelle peggiori commedie sportive americane, Tadej Pogacar è riuscito a staccare tutti anche sulle pietre andando a vincere il Giro delle Fiandre 2023. Ci è riuscito dopo una corsa che è stata contemporaneamente un lunghissimo inseguimento e un lunghissimo attacco da lontano. Ha saputo sfruttare le caratteristiche dei suoi due avversari per riavvicinarsi al gruppetto in fuga riuscendo a trovare la collaborazione di tutti prima di sferrare l’attacco decisivo sull’ultimo passaggio sull’Oude Kwaremont e andar via da solo.
Una vittoria che ancora una volta ha acceso dibattiti e domande: abbiamo sbagliato finora a seguire il dogma della specializzazione? O forse è solo Tadej Pogacar che è talmente forte da riuscire - da solo - a spezzare queste catene?
Pogacar è sembrato far invecchiare in un attimo tutti i discorsi sull’iperspecializzazione che continuavano a imperversare nel dibattito ciclistico. Portato all’estremo a cavallo dei Novanta e Duemila, questo concetto aveva creato una nettissima distinzione fra gli uomini da classiche e uomini da corse a tappe, e anche all’interno degli uomini da classiche un’altra distinzione fra pavé e non pavé.
L’obiettivo di questo approccio positivista e iper-razionale al ciclismo era di concentrare le energie di ogni ciclista su un piccolo ventaglio di corse molto specifiche su cui incentrare la preparazione. Da Armstrong che correva praticamente solo il Tour de France per sparire prima e dopo, siamo passati a Tom Boonen che per buona parte della sua carriera è esistito solo in quei due mesi di classiche del Nord o ancora Alberto Contador che nella sua vita non ha mai neanche pensato di provare a vincere una classica nonostante probabilmente avesse i mezzi per farlo. Già in passato c’era chi rompeva questo schema, come Vincenzo Nibali e in parte anche Alejandro Valverde, ma sempre limitandosi - per così dire - a ciò che si pensava fattibile. Mosche bianche, in ogni caso. Anche lo stesso Sagan, che da giovane aveva le caratteristiche per essere competitivo su praticamente tutti i terreni, venne plasmato e trasformato in un ciclista da pavé e volate, magari aumentando il suo numero di vittorie complessivo ma di certo limitandone lo sviluppo della carriera.
Il talento di Pogacar, il suo dominio su tutti i terreni, ha fatto immediatamente sembrare vecchia questa concezione. E oggi, mentre ci aspettiamo nuove eroiche battaglie tra questi tre ciclisti, l’iperspecializzazione ci appare come un relitto del passato, relegata ai ciclisti meno talentuosi, meno fortunati da un punto di vista delle doti fisiche a disposizione. Esattamente il contrario di come era stata pensata inizialmente.
Evenepoel D’Artagnan
A questi tre moschettieri bisogna aggiungere un quarto nome che ha rapidamente scalato le gerarchie nel mondo ciclistico e fa sempre parlare di sé in maniera ben più divisiva rispetto agli altri tre: si tratta del belga Remco Evenepoel, classe 2000 e un passato da terzino nelle selezioni giovanili della nazionale belga. Evenepoel è arrivato al ciclismo professionistico con le stimmate del predestinato, tanto che in Belgio (e non solo) se ne parlava già al secondo anno fra gli Juniores come del “nuovo Merckx”. Un’etichetta, questa, che in Belgio vale il nostro “nuovo Pantani”, appesa come una spada di Damocle sopra la testa del malcapitato di turno che in qualche modo - ma non necessariamente - potrebbe essere accomunato ai grandi campioni del passato in questione.
In particolare, per Remco Evenepoel questo appellativo di “nuovo Merckx” affonda le sue radici in quella straordinaria stagione fra gli Juniores (la categoria giovanile inferiore rispetto agli Under-23) nel 2018 quando fu in grado di vincere praticamente ogni corsa a cui partecipava, senza lasciare agli avversari nemmeno le briciole e nemmeno la speranza di poterlo in qualche modo contrastare. Tanto che la Quick Step di Patrick Lefevere decise di metterlo sotto contratto facendogli saltare a piè pari la categoria intermedia degli Under-23 passando direttamente dagli Juniores agli Élite (cioè i professionisti).
L’anno scorso, dopo aver vinto la Vuelta - il suo primo grande giro portato a termine - si è presentato ai Mondiali in Australia e ha dominato la prova in linea in un modo talmente sconcertante che ancora oggi a volte si fa fatica a prendere sul serio quella vittoria. Un trionfo così netto che sembra essere arrivato per mancanza di concorrenza. E invece gli avversari c’erano, ma sono stati talmente maltrattati dal talento del belga da sembrare scarsi o addirittura assenti. Giova ricordare in questa occasione che al via di quella corsa erano presenti anche - fra gli altri - Wout Van Aert (che però correva in squadra con Evenepoel) e Tadej Pogacar, arrivati con il gruppo a 2 minuti e 20 secondi dal vincitore.
È ancora abbastanza complicato tracciare un quadro completo delle caratteristiche di Remco Evenepoel; un po’ perché è ancora molto giovane e corre da poco in bicicletta (ha iniziato seriamente solo nel 2017), ma soprattutto perché è un ciclista molto particolare, stranissimo da inquadrare. Praticamente impossibile trovare un ciclista simile a lui per struttura fisica, caratteristiche e percorso.
Evenepoel è basso (1.71 m), abbastanza muscoloso, con le spalle larghe e le gambe possenti che gli danno l’insolita forma di un barattolo quando sale in sella a una bicicletta. Nonostante la sua statura minuta, riesce a esprimere una grande potenza sui pedali che gli consente di andare fortissimo a cronometro: fu campione d’Europa nel 2019 alla prima stagione fra i professionisti e argento ai Mondiali nello stesso anno e poi bronzo nel 2021 e 2022. Questo perché oltre ad avere delle gambe molto possenti, da calciatore, è anche più piccolo e quindi ha meno superficie corporea esposta all’aria e questo gli dà un considerevole vantaggio aerodinamico.
Questa dote sul passo si riscontra anche nelle lunghe salite che Evenepoel affronta spesso e volentieri imponendo un ritmo molto alto e staccando gli avversari in progressione senza scattare quasi mai. Una dinamica che abbiamo visto forse per la prima volta al Giro di Norvegia del 2022: nella tappa regina con arrivo in cima alla lunga salita di Stavsro, Remco Evenepoel non è mai scattato, si è alzato pochissime volte sui pedali ma ha staccato tutti i suoi avversari semplicemente imponendo un ritmo che nessuno poteva seguire.
Certo, far rientrare Evenepoel in una nuova era eroica del ciclismo forse sarebbe inesatto. Il ciclista belga ha infatti un modo di correre più “scientifico”, ovvero basato sulla misurazione della potenza espressa sui pedali messa in relazione al peso e alla lunghezza della salita in modo da poter calcolare alla perfezione quale andatura tenere e per quanto tempo. Una tattica studiata a tavolino e poi messa in atto senza curarsi troppo degli avversari del momento.
Non è un caso che l’ultimo a cedere il passo in quell’occasione sia stato un altro ciclista atipico, sia come caratteristiche che come percorso: Jay Vine. L’australiano - che all’epoca dei fatti correva con la Alpecin di Mathieu van der Poel prima di passare quest’anno alla corte di Pogacar in UAE Emirates - è arrivato a correre in Europa vincendo un concorso su Zwift, un’app utilizzata durante gli allenamenti dentro casa sui rulli che simula percorsi reali. Il concorso consisteva in varie prove che fondamentalmente si possono riassumere come di seguito: tutti spingono al massimo e chi va più forte vince un contratto con la Alpecin.
Jay Vine quindi è un ciclista che è diventato quello che è oggi grazie alla sua capacità di impostare una potenza media da esprimere sui pedali e mantenerla per lunghi periodi di tempo. Esattamente quello che Remco Evenepoel ha fatto durante quella tappa del Giro di Norvegia e che ha continuato a fare con successo anche alla successiva Vuelta di Spagna vinta lo scorso settembre.
Oltre a questo, però, Evenepoel ha dato prova di avere a disposizione anche una buona esplosività sullo scatto secco messa in mostra più volte sia da Juniores sia fra i Professionisti. Nelle corse di un giorno, quindi, la tattica è quella di andar via con uno scatto secco prima di inserire il pilota automatico e incrementare il vantaggio in progressione. L’abbiamo visto alle ultime due edizioni della Liegi-Bastogne-Liegi, giusto per fare un esempio che tutti possiamo avere ben chiaro in mente. Come ha sottolineato Romain Bardet al termine della corsa: «Non c’era niente da fare contro di lui. La sua grande forza è di andare via in progressione, perciò quando fa il buco è finita».
Se non possiamo tirare le somme sul tipo di ciclista che è oggi (o che potrà diventare in futuro) Remco Evenepoel analizzando i suoi punti di forza, allora forse possiamo farlo provando a individuare i suoi punti deboli. Fino a un anno fa si pensava che i suoi due difetti principali fossero la tenuta sulle pendenze più dure, quelle oltre il 10-15%, e la capacità di guidare la bici su terreni impervi come lo sterrato o le discese più tecniche. La Vuelta 2022 però ha distrutto queste convinzioni - basate una su un falso mito e l’altra sulle difficoltà avute nella tappa di Montalcino al Giro 2021 - perché Remco Evenepoel ha vinto su praticamente ogni terreno, in ogni modo. Resta un unico dubbio che riguarda la capacità di andar forte in alta quota, quando si sale verso i duemila metri di altezza dove in effetti alla Vuelta ha mostrato delle crepe.
Un difetto che sembrerebbe condividere con Tadej Pogacar, che a sua voltaha spesso faticato nelle tappe in cui bisognava salire nei pressi della fatidica quota dei duemila metri. Al Tour 2020 venne staccato da Roglic sul Col de la Loze (2304 metri), nel 2021 perse contatto sul Mont Ventoux (1910 metri) da Jonas Vingegaard prima di rientrare nella lunga discesa; e infine nel 2022 perse la maglia gialla sul Col du Granon (2379 m) affrontato subito dopo il Galibier (2626 m) in una tappa che probabilmente entrerà dritta dritta nella storia di questo sport.
Mont Ventoux, 7 luglio 2021: Jonas Vingegaard stacca per la prima volta Tadej Pogacar, la sagoma gialla che si intravede nello sfondo.
A ben guardare sembra quindi che Pogacar ed Evenepoel siano più simili di quanto la loro carriera e il loro aspetto fisico possano suggerire. Entrambi forti in salita, sia sul passo (più Remco) sia sullo scatto secco (più Pogacar); entrambi fortissimi a cronometro e resistenti sulle lunghe distanze; entrambi grandi interpreti delle corse a tappe ma anche delle corse di un giorno. Resta quindi un po’ un mistero la gestione di Remco Evenepoel da parte della sua squadra, la Soudal - Quick Step, e del suo istrionico general manager Patrick Lefevere che finora ha spinto il talento belga verso un calendario con pochissime classiche, un solo grande giro all’anno e tante corse a tappe di una settimana.
Una scelta che - anche alla luce delle deludenti prestazioni dei suoi compagni nelle classiche di quest’anno - sembra dettata da quelle logiche di separazione delle specialità che di fronte a questi talenti sembrano antiquate, ma che purtroppo ben si sposano con le più avanzate tecniche di allenamento che consentono di arrivare pronti agli appuntamenti principali senza dover farsi la gamba nelle corse di preparazione. Questo fa sì che Remco Evenepoel possa star fermo anche per un mese intero senza correre prima di presentarsi al via della Liegi e sbaragliare la concorrenza. O ancora vincere la Vuelta con alle spalle soltanto 10 giorni di corsa nei precedenti due mesi e mezzo, di cui un solo giorno di gara (alla Classica di San Sebastian, vinta per distacco) nell’ultimo mese prima del via della corsa a tappe spagnola.
Al Giro d'Italia di quest'anno, Remco Evenepoel si era presentato da grande favorito, l'uomo da battere. A sfidarlo c'era Primoz Roglic, che già gli aveva dato filo da torcere alla Vuelta 2022 fino alla caduta che lo costrinse al ritiro. Ma dopo la netta vittoria nella prima cronometro inaugurale e una prima settimana abbastanza tranquilla, il belga ha avuto un brusco risveglio al termine proprio della prima parte del Giro. Prima, a Fossombrone, non era riuscito a ricucire sull’attacco di Roglic. Poi, nella seconda cronometro individuale, aveva vinto ma con un solo secondo di vantaggio su Thomas e una manciata in più su Roglic e gli altri avversari. Una vittoria che, davanti alle aspettative che lo circondano, aveva incredibilmente il sapore della sconfitta.
Si è poi scoperto la sera stessa che Evenepoel aveva corso quella cronometro con il covid che già covava dentro al suo corpo e faceva sentire i suoi effetti sul suo stato di forma e di salute. Ed è interessante la reazione con cui è stato accolto in Italia il suo ritiro, tra accuse di mancanza di rispetto e sospettata maleducazione. Su questi commenti ci sarebbe da fare una riflessione più ampia sui conflitti d’interesse all’interno della stampa sportiva che commenta il Giro, ma questa durezza è anche sintomo di un'ostilità forse dettata dalla sua estraneità, venendo lui - come Roglic, un altro ciclista odiato nelle prime fasi della sua carriera - da un altro sport.
Remco Evenepoel è percepito come un corpo estraneo e questo può avere a che fare con il rapporto che ha con gli altri tre fenomeni. Perché mentre Pogacar è apprezzato anche per la sua aria scanzonata; mentre Van Aert e Van der Poel dividono gli appassionati in due schieramenti così netti come non si vedeva forse dai tempi di Moser e Saronni, o Bugno e Chiappucci, per evitare di scomodare Coppi e Bartali; Evenepoel invece è lì da solo, senza la spensieratezza di Pogacar e senza il portato divisivo dei due ciclocrossisti, solo contro quel mondo che dopo di lui non sarà più lo stesso.
Il triangolo no
Viene da chiedersi chi tra i quattro in futuro riuscirà a primeggiare, se è anche solo una domanda sensata, o se i rapporti tra di loro troveranno un loro equilibrio, se non tra le gare almeno nel tempo. Wout Van Aert e Mathieu van der Poel si conoscono da tantissimi anni, correvano uno contro l’altro nel ciclocross fin da giovanissimi. Esistono varie foto dei due da ragazzini, uno accanto all’altro, che spesso vengono riprese in accostamento a fotografie più recenti, come a voler dimostrare la stabilità di questo rapporto.
In realtà, anche se i due si sono sempre rispettati, scavando un po’ si trovano parecchi indizi di una malcelata antipatia che va al di là della semplice rivalità sportiva. Nel 2020, la stagione in cui entrambi erano attesi alla consacrazione, i due non hanno lesinato di lanciarsi frecciatine e dichiarazioni piuttosto piccate. In particolare al termine della Gand-Wevelgem di quell’anno: una gara che entrambi hanno perso dopo essersi punzecchiati nel gruppo di testa per tutti i chilometri finali finché tutto il resto del gruppetto non li ha lasciati lì da soli a litigare. Al traguardo, i due grandi favoriti arrivarono ottavo e nono, ultimi del drappello di testa che si era andato a giocare la corsa vinta da Mads Pedersen.
I gesti in gara, l’atteggiamento tattico, quel modo di scattarsi in faccia e andare a chiudere l’uno con l’altro anche a costo di lasciare spazio agli altri avversari; e poi le dichiarazioni seccate del dopo gara: «non potevo continuare a rispondere a tutti con quello sempre a ruota», ha detto Van Aert evitando di nominare il suo avversario per nome.
Van Der Poel ha detto in un’intervista a Eurosport che la rivalità con Van Aert è «qualcosa a cui non penso più, ormai, perché va avanti da così tanto tempo che risulta naturale essere con lui in testa alle gare». I due sembrano ormai rassegnati a doversi migliorare costantemente per tenere testa all’altro. «Devi spingere oltre i tuoi limiti per provare a batterlo. Se dovessi vincere tutte le corse con cinque minuti di vantaggio non sarebbe più necessario allenarsi. Ma in questo momento sai di dover essere sempre al tuo livello migliore per provare a vincere le gare perché il livello generale sta diventando molto alto». È curioso però che anche qui Van der Poel svicoli dalla domanda diretta su Van Aert per parlare del ciclismo in generale.
I due si sono incontrati di nuovo pochi mesi fa, alla Milano-Sanremo, prima della partenza, nella zona in cui i giornalisti di mezzo mondo si piazzano per fare le interviste pre-gara. Quando ha visto Van Aert intervistato dalla stessa tv belga che l’aveva chiamato, Van der Poel ha voltato le spalle al rivale e ha rifiutato di concedere l’intervista mostrando una certa insofferenza. All’arrivo, poi, sul divanetto nel backstage del palco che ospita i tre arrivati sul podio, in un video di Eurosport si vedono Ganna, Van der Poel e Van Aert piuttosto taciturni. Il belga in particolare evita di guardare verso gli altri due e Van der Poel sembra visibilmente infastidito dalla sua presenza tanto che scambia qualche parola con Ganna senza mai cercare di coinvolgere Van Aert. Appena il belga si alza dal divano, Van der Poel si allarga soddisfatto e inizia a chiacchierare con Filippo Ganna come due amici che aspettavano che quell’altro andasse via per poter parlare liberamente.
Il rapporto con Tadej Pogacar sembra invece molto più amichevole, sia in corsa che giù dalla bici. I due si scambiano spesso commenti pubblici sui social network che suonano tutt’altro che di circostanza. Al termine del Giro delle Fiandre vinto da Pogacar proprio su Van der Poel, quest’ultimo su Instagram ha chiesto all’altro scherzando di tornare a correre solo i grandi giri, «please».
Anche durante le gare in cui si sono ritrovati quei tre da soli, gli scambi di battute fra Pogacar e Van der Poel sono sempre stati più frequenti e calorosi rispetto a quelli con Van Aert. C’è da considerare anche il fatto che il belga corre per la Jumbo-Visma che è la stessa squadra di Jonas Vingegaard, il grande rivale di Pogacar al Tour de France e l’unico in grado di batterlo finora sulle strade francesi. Una rivalità di squadra, quindi, che si riflette poi nel rapporto fra i singoli ciclisti e in particolare fra le stelle delle rispettive formazioni come Pogacar e Van Aert anche al di fuori della Grande Boucle.
L’amicizia di Van der Poel con Pogacar è talmente palese ed esplicita che viene da psicanalizzarla. In occasione dell’Amstel Gold Race di quest’anno, stando a quanto detto da Pogacar dopo la vittoria, sarebbe stato proprio Van der Poel a scrivergli prima della gara per suggerire il punto più adatto alle sue caratteristiche per attaccare e andar via da solo: «Tre giorni fa Mathieu van der Poel mi ha mandato un messaggio e mi ha detto che avrei dovuto attaccare sul Keutenberg perché è la salita con le pendenze più dure che mi si addice di più». Così è stato e proprio sul Keutenberg è arrivato puntuale l’attacco di Pogacar che è andato via da solo fino al traguardo staccando Pidcock e Ben Healy.
Pogacar racconta di essersi infilato nella fuga a 90 chilometri dal traguardo perché «ero andato davanti e ho visto che c’erano dei bei corridori, erano tanti», quindi senza fare troppi calcoli «sono saltato dentro mentre i miei compagni potevano controllare la situazione dietro». In questo modo la UAE ha avuto la possibilità di tenere sotto controllo la gara sia davanti con Pogacar sia in caso da dietro fossero rientrati avendo Marc Hirschi e Matteo Trentin a controllare. Una situazione che quindi poteva sembrare folle - andare via in fuga a 90 chilometri dal traguardo - ma che invece in quei pochi istanti Pogacar ha valutato come favorevole proprio in virtù di quelle considerazioni tattiche che ha poi spiegato nell’intervista post-gara, mostrando una notevole capacità di leggere le situazioni di corsa e una raffinata intelligenza tattica.
Con la sua furbizia Pogacar sembra portare alla rassegnazione i suoi avversari. Dopo lo show messo in piedi alla Parigi-Nizza, corsa a tappe di una settimana in cui ha vinto 3 delle 8 tappe in programma, sono stati tanti i commenti dei suoi colleghi ancora frastornati da quanto successo. «Non sono nemmeno deluso», ha spiegato Romain Bardet al termine dell’ultima tappa conclusasi con il trionfo in solitaria dello sloveno «sto al mio posto, prendo colpi ed è dura. Mi ritrovo ogni volta al limite dell’esplosione. Quando accelera sono un gradino più in basso. Spero di avere ancora un margine di miglioramento, altrimenti non continuerò a correre in bicicletta ancora per molto tempo. Se è solo per prendere botte come questa…».
Lo stesso Jonas Vingegaard - che era presente in corsa in quell’ultima tappa in cui Pogacar, già saldamente al comando della classifica generale, ha deciso di regalare un ultimo one-man show sulle strade della Parigi-Nizza - ha dovuto alzare bandiera bianca: «Quando ha attaccato, tutti si sono detti: “Wow, non ci provo nemmeno a stare con lui”. O almeno è come mi sono sentito io».
Dopo il numero all’Amstel Gold Race i discorsi erano sulla stessa falsariga. Cédric Vasseur, direttore sportivo della Cofidis, racconta che al mattino «avevamo studiato una strategia di corsa senza considerare Pogacar» perché tanto «non bisogna tirarsi il collo per andare a inseguirlo, è troppo forte. Pidcock si è rotto i denti, si è esposto e ha fallito rischiando di perdere anche il podio». Il concetto, insomma, è che quando corre lui si parte per arrivare secondi. Matti Breschel, DS della EF Easypost di Ben Healy, alla vigilia della Liegi ha aggiunto anche che «partiremo per fare terzi, perché ci sarà anche Remco Evenepoel, un altro fenomeno».
Ed effettivamente non aveva tutti i torti…
I quattro fenomeni sembrano poter vincere ancora prima che scendano in strada, mettendo in soggezione gli avversari con la loro sola presenza. E a quel punto diventa complesso per gli altri cercare di inventarsi qualcosa per batterli se partono già sapendo di essere sconfitti. «Tutti questi ragazzi che vogliono battere Pogacar», ha spiegato ancora Matti Breschel «Si svegliano ogni mattina e si domandano come lo faranno. Devi inventare nuove tattiche, e questo crea delle corse incredibili. Per noi è un peccato, ma questo porta il ciclismo a un altro livello».
Tutti e quattro vengono a turno paragonati con Eddy Merckx. In fondo il parallelismo viene spontaneo: «Quelli che hanno corso contro Merckx», ha spiegato Vasseur «incontravano gli stessi problemi: quando ce l’avevano davanti, sapevano che sarebbe stato complicato andare a cercare la vittoria». Questo tipo di discorsi non devono stupire, in fondo quando si è in tempi difficili - e i tempi per tutti gli avversari sono molto difficili - è normale andare a cercare esempi, degli appigli nel passato.
C’è però anche un discorso di fascino in questi confronti fra generazioni così distanti e così diverse fra loro. Un viaggio alla riscoperta di radici che sembravano perse, di stili di corsa spettacolari che pensavamo di aver ormai sacrificato sull’altare di un ciclismo “scientifico” orientato al massimo risultato col minimo sforzo. Nella lotta alla modernità, dunque, l’unica ancora di salvezza è il rifugiarsi in un passato nostalgico in cui tutto era più bello e genuino, rievocando l’eterno mito dell’Età dell’Oro alla ricerca di un nuovo puer come quello descritto da Virgilio nelle Bucoliche. E forse non è un caso che i soprannomi di Evenepoel e Pogacar richiamino proprio a questo essere puer: Tamau Pogi, ovvero il Piccolo Pogi; o ancora il Bimbo Belga, soprannome che Riccardo Magrini ha affibbiato a Remco Evenepoel per distinguerlo da il Bimbo Pogacar. O ancora il Piccolo Cannibale, in riferimento qui sia a quello che ormai possiamo definire puerismo sia ovviamente al primo Cannibale, Eddy Merckx.
Ritorno al passato
Ma i paragoni con Merckx hanno senso? Davvero possiamo mettere il leggendario ciclista belga sullo stesso piano di uno nostro contemporaneo? C’è da dire innanzitutto che ai tempi di Merckx si correva di più, e quindi c’erano più occasioni per vedere i grandi protagonisti uno contro l’altro. E questo non solo per una verve eroistica ma anche perché era più necessario rispetto a oggi andare a correre per rifinire la condizione fisica. Farsi la gamba, come si dice. O meglio: si diceva, visto che oggi si utilizza sempre di meno.
L’avanzare degli studi e delle tecniche di allenamento - e con l’arrivo di più soldi, anche, rispetto al passato - stanno affinando nuovi metodi di preparazione fisica per le gare. Non serve più quindi correre per crescere di condizione ma si arriva molto più pronti agli appuntamenti importanti anche solo restando in ritiro ad allenarsi da soli.
Abbiamo detto di Evenepoel, ma anche Pogacar sono due anni che prima del Tour de France corre solo il Giro di Slovenia a metà giugno dopo aver staccato al termine delle classiche di primavera ad aprile. Wout Van Aert quest’anno ha corso solo la Tirreno-Adriatico prima di affrontare una scarnissima campagna di Classiche con Milano-Sanremo, Harelbeke, Gand-Wevelgem, Fiandre e Roubaix. Van der Poel ha fatto lo stesso percorso ma con in più Strade Bianche e Scheldeprijs al posto della Gand-Wevelgem.
Insomma: poche corse, molto selezionate. E quindi meno possibilità di accumulare vittorie, meno occasioni per confrontarsi con gli altri rivali e meno giorni di gara per noi per goderci lo spettacolo. Un trend che sta creando una spaccatura ancor più profonda fra le corse che oggi consideriamo più importanti e quelle che invece consideriamo di meno. Scelte in parte arbitrarie, in parte dettate da precise politiche dell’Unione Ciclistica Internazionale che con lo sciagurato avvento del World Tour sta lentamente ridisegnando a suo piacimento la storia di questo sport.
Paragonare le vittorie dei grandi campioni del passato con quelle conquistate da questa nuova generazione di fenomeni è difficile, anche mettendo in fila tutte quelle che oggi chiamiamo “Classiche Monumento” come se questa locuzione volesse davvero dire qualcosa.
Se con i numeri fare i confronti è difficile, è vero però che le caratteristiche tecniche e tattiche di questi grandi fenomeni generazionali ci rimandano naturalmente ai campioni che popolano l’Olimpo del ciclismo.
Come detto, anche in passato esistevano gli specialisti, fra chi si concentrava sulle corse a tappe e chi sulle classiche, con evidenti diverse caratteristiche. Potrei fare l’esempio di Federico Bahamontes e Roger De Vlaeminck, due enormi campioni con enormi differenze tra di loro. Ma prima degli anni ‘80 del secolo scorso sembrava effettivamente esserci più poliedricità. E così De Vlaeminck riusciva ad essere competitivo su qualsiasi tipo di classica e anche nelle brevi corse a tappe, e come lui anche gli altri grandi fenomeni della sua epoca come Freddy Maertens, Joop Zoetemelk, Felice Gimondi e ovviamente l’irraggiungibile Eddy Merckx.
Fino agli anni Novanta, e cioè fino a Miguel Indurain, era perfettamente normale aspettarsi che il dominatore delle grandi corse a tappe fosse anche uno degli uomini più competitivi nelle classiche. Non che fossero tutti così i ciclisti dell’epoca, come abbiamo detto; ma i grandi fenomeni, i campioni generazionali, quelli sì. E non è un caso che il numero di vittorie di quei ciclisti sia tutt’oggi ineguagliabile. De Vlaeminck chiuse con oltre 250 vittorie in carriera, Maertens 142, Gimondi 139, senza scomodare le 445 vittorie di Merckx. Numeri vertiginosi non solo per i grandi cacciatori di tappe come Peter Sagan e Mark Cavendish, che si ritireranno a fine stagione con rispettivamente circa 120 e 180 successi, ma anche per i grandi campioni che hanno davvero segnato questi primi decenni del nuovo millennio. Lance Armstrong può vantare (o meglio: poteva) solo 78 vittorie in tutta la sua carriera, Contador si è fermato a 80, Vincenzo Nibali non arriva nemmeno a 55.
Lasciando per un attimo da parte Mathieu van der Poel e Wout Van Aert che sono due ciclisti più simili a De Vlaeminck che a Merckx, Tadej Pogacar invece è già arrivato con discreta rapidità a quota 58 vittorie a soli 24 anni e Remco Evenepoel arriverà ben presto a sfondare il muro delle 50, probabilmente già durante questa stagione. In proiezione entrambi dovrebbero facilmente superare tutti i loro predecessori degli ultimi anni e avvicinarsi pericolosamente ai numeri dei grandi nomi del passato che abbiamo citato finora. Tutto questo pur correndo meno rispetto a prima, in un ciclismo molto più internazionalizzato, professionalizzato e di conseguenza verosimilmente più difficile da dominare.
Osservando il passato con le lenti del presente, la grandezza di questi quattro ciclisti è molto più simile a quella dei grandi campioni come Merckx e De Vlaeminck di quanto non sembri. Riusciamo anche a notare le analogie fra loro quattro e quei due fuoriclasse: uomo da classiche il secondo, ciclista senza limiti il primo; così come senza limiti sembrano essere le possibilità di Evenepoel e Pogacar, che insieme a Van Aert e Van der Poel possono davvero riscrivere le regole del gioco, il modo in cui concepiamo le corse e le tattiche di gara.La visione che abbiamo degli atleti e delle loro sfide.