Pubblichiamo un estratto di Sugli spalti, di Stefano Ferreri, uscito per Meltemi Editore.
Nell’estate del 1996, dopo nemmeno sei mesi dall’Accordo di Dayton che sanciva la fine della Guerra dei Balcani, decisi di fare un viaggio nei territori della ex-Jugoslavia. Pur sapendo i rischi che correvo nel recarmi in paesi ancora fortemente destabilizzati, non potevo esimermi dal vedere coi miei occhi ciò che per anni avevo solo appreso dai telegiornali. E che era accaduto al di là del Mare Adriatico, a un tiro di schioppo da noi.
Sarajevo, Mostar, Belgrado, Zagabria: tutte città dilaniate da un conflitto di cui ancora portavano evidenti i segni. Cimiteri a cielo aperto con edifici bombardati, ponti distrutti, crateri di bombe lungo le strade, carri armati bruciati e abbandonati tra le rovine. Un paesaggio di morte e distruzione che mostrava tutta la crudeltà della guerra e lasciava ben poco ai ricordi della Jugoslavia che fu un simbolo di integrazione.
“La Jugoslavia è formata da sei repubbliche, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un solo Tito”, si usava dire fino al 1980, data della morte del Maresciallo Josip Broz Tito, che dopo aver guidato la Resistenza partigiana jugoslava contro i nazifascisti nella Seconda Guerra Mondiale, era divenuto presidente della Democrazia Federale Jugoslava. Un regime di stampo socialista ma che prese le distanze tanto dal blocco sovietico (mettendosi a capo dei cosiddetti “paesi non allineati”) quanto da quello occidentale. Persino in campo economico, propugnando non la privatizzazione capitalista né la statalizzazione comunista, bensì l’autogestione socialista di fabbriche e aziende date in mano agli stessi operai. Un sistema che funzionò finché l’innata corruzione, avidità e sete di potere che animano il genere umano riversarono il paese in una crisi che fu una delle numerose concause della guerra balcanica.
Una guerra che è sembrata esplodere all’improvviso ma che in realtà covava le sue ragioni ideologiche, politiche e finanziarie da oltre un decennio e che solo le necessità politiche di costruzione delle nuove identità nazionali che l’hanno susseguita hanno voluto legare al calcio. Come se questo fosse stata la miccia esplosiva e non invece lo specchio delle tensioni sociali che già attraversavano una nazione che nazione non era più da tempo.
“Non il fatto in sé – ha scritto Valerio Moggia sul blog Pallonate In Faccia – ma il mito che vi è nato attorno è la più autentica testimonianza del peso politico che ha avuto il calcio nello scoppio della guerra dei Balcani”. Un fatto che ha avuto luogo proprio allo Stadion Maksimir di Zagabria, in Croazia.
Lo Stadion Maksimir sorge a ridosso del Parco Maksimir fondato dal vescovo di Zagabria Maksimilijan Vrhovac nel 1794 e ospita le partite casalinghe della Dinamo Zagabria, oltre a quelle della Nazionale croata. Costruito nel 1912, era un piccolo impianto con poche migliaia di posti a sedere su tribune di legno. Dopo la Seconda Guerra Mondiale fu donato dal comune di Zagabria alla squadra della città, la Dinamo (come tutte le squadre dell’area comunista che facevano capo al Ministero degli Interni), nata dalla fusione dei tre club HAŠK, Građanski e Concordia. La nuova Dinamo Zagabria, però, necessitava di una casa più grande e affidò il progetto agli architetti Turina, Neidhart, Erlich e Tuzek per un corposo ampliamento: nel 1954 venne costruita la tribuna ovest; l’anno successivo la tribuna nord; nel ’61 la tribuna est e infine nel ’69 la tribuna sud, con una capienza totale di circa 40.000 posti.
Quando lo visitai si presentava come un impianto disomogeneo, frutto di un rinnovamento avvenuto nel corso di decenni e con concezioni architettoniche differenti. Nel 1998 però, dopo la grande eco del terzo posto della Croazia ai Mondiali in Francia, lo stadio ha subito un’ulteriore ristrutturazione che lo ha trasformato radicalmente, dandogli l’aspetto di un moderno edificio in vetro. Le tribune sono state ampliate e avvicinate al terreno di gioco portandolo a 60.000 posti, mentre esternamente è stato rivestito con pannelli fotovoltaici che trasformano la luce solare in energia elettrica.
Il 18 agosto 1996 ho assistito alla prima partita del campionato croato 1996/97 tra Dinamo Zagabria e HNK Šibenik, club della città di Sebenico. Davanti a circa 30.000 spettatori si è giocata una gara a senso unico: da una parte il Šibenik che l’anno prima si era a stento salvato dalla retrocessione, dall’altra i campioni in carica della Dinamo che schieravano, tra gli altri, giocatori di futuro avvenire come Dario Šimić, Tomislav Rukavina e l’attaccante australiano Mark Viduka. Alla fine fu 4-0 per i padroni di casa, poco più che un’esibizione.
Presi un biglietto per la tribuna ovest, proprio affianco al settore dei famigerati Bad Blue Boys – la parte calda della tifoseria della Dinamo – con il loro imperante striscione blu al centro della balaustra e la scritta biancorossa che riprende i colori della bandiera croata. Un tifo ultranazionalista, potente, aggressivo, caratterizzato da 90 minuti di cori secchi, boati che rompono il vociare dello stadio, per niente melodici, quasi sempre a sfondo cameratesco e militare.
Nonostante il valore agonistico nullo del match, il clima che si respirava non era dei più sereni. Tutt’altro: la sensazione era che la guerra non fosse finita con la firma di un trattato, che ci volesse ben altro per rimarginare le cicatrici di un conflitto fratricida che aveva lasciato dietro di sé fiumi di sangue e un presente carico di odio. Una storia che, come abbiamo detto, il mito narra sia cominciata proprio sugli spalti dello Stadion Maksimir di Zagabria, dove iniziò la fine della Jugoslavia.
Il 13 maggio 1990 allo Stadion Maksimir è prevista Dinamo Zagabria-Stella Rossa di Belgrado, una partita che non si giocherà mai e che segnerà simbolicamente per sempre le sorti della Jugoslavia. A dieci anni esatti dalla morte di Tito, i sentimenti nazionalistici e indipendentisti da parte delle varie etnie che componevano la Jugoslavia stavano per infuocarsi. La convivenza pacifica tra serbi, macedoni, croati, bosniaci, sloveni, montenegrini e kosovari che aveva tenuto in piedi la Repubblica Socialista Federale iniziava a venire meno. E il calcio, che da sempre era stato espressione di quei sentimenti altrimenti repressi nella società civile, ne fu testimone. Se all’epoca di Tito, infatti, era caldamente sconsigliato girare per strada brandendo ad esempio una bandiera croata, allo stadio diventava una semplice manifestazione di tifo e le squadre più importanti di ciascun paese finivano per rappresentare anche queste istanze. Così in Croazia c’erano la Dinamo Zagabria e l’Hajduk Spalato, in Slovenia l’Olimpija Lubijana, in Serbia la Stella Rossa e il Partizan Belgrado, in Bosnia il Sarajevo e lo Željezničar, in Montenegro il Buducnost, in Macedonia il Vardar Skopje e così via.
Con la Stella Rossa già campione con oltre 10 lunghezze di distacco proprio sulla Dinamo Zagabria, la gara del 13 maggio 1990 non aveva nessun significato sul piano del risultato. Ma dato il contesto sociopolitico in cui si giocava, il risultato era in fondo alla lista dei pensieri di tutti. I dirigenti della Dinamo già da settimane avevano richiesto la predisposizione di forze di sicurezza speciali. Sei giorni prima, infatti, in Croazia si erano tenute le prime elezioni indipendenti del paese che avevano premiato l’ultranazionalista Franjo Tuđman (ironia della sorte dirigente e addirittura presidente del Partizan Belgrado negli anni ’50), evento poco gradito alla Serbia di Milošević.
Dopo aver divelto il treno che li portava verso Zagabria, i circa 3000 tifosi della Stella Rossa cominciarono ancora prima di entrare allo stadio a distruggere tutto quello che avevano sotto tiro. Erano guidati da un certo Željko Ražnatović, che in seguito diverrà tristemente noto come il Comandante Arkan, la “Tigre”. Nel periodo della guerra, infatti, buona parte degli ultras della Stella Rossa confluirono nelle famigerate Tigri di Arkan, formazione paramilitare di volontari che avrebbero compiuto i maggiori crimini di quella guerra, artefici delle più cruenti operazioni di pulizia etnica soprattutto contro bosniaci e musulmani.
Una volta entrati allo stadio la loro furia si scatenò devastando l’intero settore, incendiando i cartelloni pubblicitari, staccando i seggiolini e lanciandoli in campo e, infine, dopo aver sfondato una ringhiera divisoria al grido di “Zagabria è Serbia, uccideremo Tuđman”, attaccando e picchiando selvaggiamente un piccolo gruppo di tifosi della Dinamo che si trovava nel settore adiacente.
La polizia, che in quella fase era ancora sotto l’influenza serba come corpo federale e prendeva il nome di Milicija, permise ai Delije (Eroi in serbo, come si fanno chiamare i tifosi della Stella Rossa) di continuare nelle loro violente intemperanze senza intervenire. A quel punto per i Bad Blue Boys della Dinamo la misura era colma e, cercando di farsi giustizia da soli, invasero il campo di gioco proprio mentre i calciatori delle squadre stavano scendendo in campo. Iniziò una vera e propria caccia all’uomo tra tifosi della Dinamo e la polizia che, in assetto antisommossa e cannoni ad acqua, cercava di contenerli.
Mentre i giocatori della Stella Rossa si rifugiarono negli spogliatoi, quelli della Dinamo Zagabria, animati dallo stesso spirito nazionalista croato, rimasero sul terreno di gioco unendosi ai tifosi. Tra questi un giovane Zvonimir Boban, divenuto poi stella del Milan e della Nazionale croata. Inizialmente cercando di placare gli animi, si rivolse a un poliziotto gridando: “Vergognatevi! Stanno massacrando i bambini!”. A sua volta questi gli rispose: “Stai zitto, figlio di puttana: sei come tutti gli altri”, sferrandogli due manganellate. Il ventunenne Boban perse le staffe e senza pensarci due volte gli si lanciò contro con un calcio e una ginocchiata in faccia, fratturandogli la mascella. Il fotogramma che ritrae questa scena, di una potenza comunicativa disarmante, fece il giro del mondo anche senza l’ausilio di internet. Rintracciato anni dopo, il poliziotto – che era bosniaco – perdonò pubblicamente Boban, dichiarando che quelli “erano giorni dove le persone parevano cieche”. Nel frattempo, però, Zvone Boban fu squalificato per nove mesi, saltando anche il Mondiale in Italia dove sarebbe stato tra i protagonisti dell’ultima performance calcistica della Jugoslavia unita. Uno squadrone che in tanti ancora ricordano.
I disordini proseguirono fino a tarda sera fuori dallo stadio. Entrambi gli schieramenti misero a ferro e fuoco la città con barricate nelle strade, la distruzione di tram e auto parcheggiate, l’incendio di diversi mezzi della polizia. Centinaia furono i feriti tra le forze dell’ordine e i tifosi, tra cui una decina ricoverati in gravi condizioni e uno ferito da un colpo di arma da fuoco. Protetti dalla Milicija, quelli della Stella Rossa riuscirono a lasciare lo stadio solo alle 23 e con un treno speciale furono rimandati a Belgrado.
A ben vedere non si trattò di guerriglia, ma già di guerra civile. Nei giorni successivi, infatti, la stampa parlò di incidenti da stadio minimizzando l’accaduto ma era evidente che si fosse giunti ormai al limite. Nella prima giornata del campionato successivo – l’ultimo della Jugoslavia unita – a Belgrado il 26 settembre 1990, durante la partita tra Partizan Belgrado e Dinamo Zagabria, la situazione precipitò definitivamente. I Bad Blue Boys, con la squadra sotto di due reti, invasero il terreno di gioco armati di spranghe e, dopo esser riusciti ad ammainare la bandiera jugoslava sostituendola con quella croata, rivendicarono la nascita della Federazione croata di calcio.
Come spesso accade durante i conflitti bellici, gli stadi divennero trincee di guerra e laboratori dove reclutare milizie ed effettuare torture e interrogatori. La partita allo Stadion Maksimir di Zagabria fu solo uno dei tanti segnali di quello sgretolamento annunciato, che grazie alla potenza del calcio ebbe risalto internazionale. Il preludio di una guerra spaventosamente atroce che iniziò nel luglio del 1991 provocando oltre 100.000 morti, stupri e deportazioni e che riportò l’Europa indietro al tempo alle barbarie nazifasciste, fatte di campi di sterminio, esecuzioni sommarie e persecuzioni delle minoranze. Una guerra che dissolse la Jugoslavia e portò odio tra persone che fino al giorno prima erano semplici vicini di casa, colleghi di lavoro o compagni di studi.
Per Franjo Tuđman, che in pratica instaurò un regime autoritario fino alla sua morte nel 1999, la battaglia dello Stadion Maksimir fu il mito perfetto per celebrare la nascita della propria nazione, descrivendolo come prima grande ribellione del suo popolo alla dominazione serba, sfruttando il grande potere narrativo e culturale del calcio. Così come fecero i Bad Blue Boys erigendo fuori dallo stadio un monumento “a tutti i tifosi della Dinamo per cui la guerra iniziò il 13 maggio 1990, e finì ponendo le loro vite sull’altare della patria croata”, mettendo in risalto il fervore nazionalistico che armò quegli anni e nutre ancora oggi l’astio tra i popoli dei Balcani.