La prima volta che si entra allo stadio, da bambini, somiglia a quando d’agosto, più o meno alla stessa età, sediamo sul sedile di dietro e, a metà di una curva, l’orizzonte dilaga nel mare.
Una sensazione che arriva scalando l’ultima rampa di scale, quando montati sull’estremo gradino lo sguardo corre in alto, il mondo per un attimo beccheggia e sotto di noi si spalanca il rettangolo verde. Poi arrivano il brusio, il vociare del bibitaro, i colori delle sciarpe, lo spicchio del settore ospiti, i gruppi diversi dei tifosi della stessa squadra, gli striscioni, i quadratini di carta che svolazzano, i cori che si inseguono, si rispondono, le volute ottundenti del fumo delle canne, ecco le squadre, entrano per il riscaldamento, i giocatori che provano i tiri da lontano e i pompieri che con gli idranti annaffiano la pista d’atletica, i raccattapalle.
Universale del sentire.
Il primo stadio edificato a Roma è stato quello di Domiziano, i suoi trentamila posti a sedere sorgevano dove ora c’è Piazza Navona, e i suoi resti sono l’elemento più notevole di quella che oggi è l’altrimenti trascurabile Piazza di Tor Sanguigna. Dello Stadio di Domiziano rimane poco, a parte qualche traccia inglobata nella muratura dei palazzi, perché in epoca barocca nessuno avrebbe mai neanche sognato di ipotizzare il concetto di “conservazione”, tanto che i signori Pamphili non ci pensarono molto ad abbatterlo ed erigere al suo posto una splendida piazza, con tanto di obelisco e di fontane.
Da allora, fino all’epoca moderna, Roma non ebbe più uno stadio (e in ogni caso era stata una delle poche città a vantarne uno di quella portata), ma neanche se ne sentiva la mancanza: l’idea delle competizioni sportive come le intendiamo noi, e dei luoghi dove si praticano, semplicemente smise di esistere. Almeno fino al 1896, anno delle prime Olimpiadi moderne, al posto degli stadi erano diffusi i circhi.
Inaugurazione dello Stadio Nazionale in località “Passeggiata Flaminia”, 11 Giugno 1911.
L'idea di uno stadio a Roma
L’idea di costruire un nuovo stadio a Roma è nata da una serie di vicissitudini legate a Pierre de Coubertin. Era il 1908 e in programma c’era la IV Olimpiade di epoca moderna e a contendersi l’onere dell’organizzazione erano Roma e Berlino. de Coubertin, che non nascose mai il sogno di portare i Giochi a Roma, provò a coronarlo assegnandone, in una sorta di “elezione” a candidato unico (Berlino si ritirò appositamente), l’organizzazione alla capitale del Regno d’Italia. Ma la notizia, a quanto pare inaspettata perfino da chi aveva avanzato la candidatura, fu accolta piuttosto male nell’Urbe, poiché l’Italia si trovava nel bel mezzo di una crisi economica (e come se non bastasse era anche eruttato il Vesuvio), e non era in grado di organizzare la manifestazione, che in quegli anni significava soprattutto dotarsi di uno stadio all’altezza dell’evento. Lo stesso sindaco di Roma, Ernesto Nathan, si oppose fermamente al progetto, intuendo che le spese per la nuova struttura avrebbero portato la città alla bancarotta.
Alla fine i Giochi del 1908 se li accollò Londra, che in un paio d’anni costruì il White City Stadium, da 20.000 posti (per poi demolirlo, alla maniera anglosassone, un’ottantina di anni dopo).
Da lì però fu evidente la necessità di dotare la capitale di uno Stadio adatto a ospitare grandi manifestazioni sportive, che ormai rappresentavano una delle novità più à la page negli ultimi decenni. Così, dopo aver scartato a malincuore l’ipotesi di riadattare il Circo Massimo a nuovo stadio di Roma, nel 1911 si decise di affidare il progetto di una struttura ex-novo allo scultore Vito Pardo e all’architetto emergente Marcello Piacentini, che a Roma, di lì a trent’anni, progetterà più o meno tutto. La pianta dello Stadio Nazionale, da erigersi in località Passeggiata Flaminia (vale a dire nella zona in cui oggi c’è il Flaminio), era una rielaborazione non troppo fantasiosa di quella dello stadio di Domiziano: stretto, lungo e a ferro di cavallo.
1928, Tamarri in motocicletta, davanti alla graziosa facciata dello Stadio PNF. Sulle sue spoglie verrà eretto nel 1959 lo Stadio Flaminio.
Lo stadio P.N.F, per via del suo aspetto immediatamente datato e in forte contrasto con lo spirito razionalista di cui il regime si sentiva portatore risultò da subito inadeguato per rappresentare l’Italia del Duce, che avallò la costruzione di un complesso sportivo totalmente nuovo e più moderno appena al di là del Tevere, tra Monte Mario, i colli della Farnesina e Ponte Milvio. Il piano regolatore di quella allora avveniristica città dello sport fu redatto da Enrico Del Debbio, e prese il nome di Foro Mussolini (l’attuale Foro Italico).
Per il restyling dello Stadio P.N.F. furono chiamati Cesare Valle e il giovane Pier Luigi Nervi, che progettarono uno stadio talmente imponente (i posti a sedere sarebbero dovuti essere addirittura 150.000) che ovviamente non venne mai realizzato – almeno in Italia. Ma lo studio di Nervi e Valle per il rinnovamento dello stadio PNF non era destinato a rimanere solo una serie di linee sulla carta: in seguito divenne il progetto per il principale stadio dei Mondiali brasiliani del 1950.
L’Olimpico 1.0 è il Maracanà.
C’è un momento, tipico di ogni nuovo complesso urbano, in cui l’insieme inizia a riecheggiare nell’immaginario della collettività. È un punto di svolta col quale si prende coscienza di un prima e di un dopo, e può manifestarsi anche se la “novità” non è altro che una palude alle pendici di Monte Mario. Il 4 novembre 1932 vennero inaugurate le due strutture più importanti del Foro Italico: lo stadio “dei Marmi”, pensato per gli allenamenti degli atleti, e quello “dei Cipressi” (o “dei Centomila”) destinato a ospitare le competizioni vere e proprie. Lo Stadio dei Cipressi, progettato da Del Debbio nel ’28, è l’embrione dell’attuale Olimpico: la struttura infatti, al netto dei vari ampliamenti che subirà nel corso dei successivi ottant’anni, non cambierà più il suo impianto originale.
Questi due monumenti rappresentavano il nucleo del Foro, una sorta di moderno centro storico da cui si diramavano le nuove arterie della città (secondo la funzione che negli insediamenti di nuova fondazione è solitamente affidata a Municipio e Chiesa). Attorno a luoghi del genere, e agli eventi che ospiteranno, è destinata a svilupparsi una memoria condivisa. Ed è dal 4 novembre 1932 che il Foro Italico diviene a tutti gli effetti parte di Roma.
In primo piano l’Accademia di Educazione Fisica e il magnificente Stadio dei Marmi. Nel 1928 lo stadio dei Cipressi sembra un ippodromo.
Lo Stadio dei Marmi e quello dei Cipressi andavano a occupare i due vuoti posti al termine del Piazzale della Vittoria, l’immenso spiazzo che ha per fuochi la Fontana della Sfera e l’Obelisco. Tra i due, il complesso più vistoso era senza dubbio quello dei Marmi, poiché fino al 1937 lo stadio dei Cipressi aveva una sola fila di gradinate, e sembrava più che altro un ippodromo dall’aria dimessa. L’anno precedente erano iniziati i primi lavori di ampliamento a opera di Del Debbio e Moretti, destinati a portare in dote all’impianto un nuovo nome: stavolta lo stadio diventava “Olimpionico” e contava circa 65.000 posti, di cui solo 35.000 a sedere. La curvatura degli spalti si rifaceva alle teorie sperimentate negli impianti di Football Americano – estremamente all’avanguardia, per l’epoca –, e portate in Europa da Gavin Hadden. Il principio alla base di questa soluzione è noto come “ammassamento spontaneo del pubblico”, e prevedeva che le gradinate avessero la forma di mezze-lune, in quanto il punto di vista migliore per guardare una partita è l’asse della linea di centrocampo e, forse avvantaggiati dall’assenza della cultura della curva, gli americani lo capirono prima di tutti.
Il 5 Maggio del 1938, forte di uno stadio finalmente moderno e degno di essere esposto agli occhi del mondo, il regime scelse il Foro Italico come fondo scenografico per la visita di Hitler, e lo Stadio dei Cipressi come sede delle parate. Nell’occasione, per andare incontro ai raffinati gusti del Führer, si decise di addobbare il muro di cinta delle tribune con 24 torri sormontate da aquile imperiali realizzate in “carpilite”, cioè in un materiale fatto di pannelli di paglia e cemento, vuoti al loro interno, e brevettato nientemeno che dall’ingegner Carpi.
Nuova vita
Caduto in disuso durante la guerra, l’impianto trovò un’inaspettata nuova funzione all’indomani della Liberazione di Roma, quando le truppe angloamericane decisero, meravigliate da tanta magnificenza, di sfruttarne la grande superficie come parcheggio degli automezzi militari. Il fatto che gli Alleati stabilirono nel Foro il quartier generale, contribuì in modo decisivo all’ottima conservazione del complesso durante quegli anni.
“Povera Roma mia de travertino, te sei vestita tutta de cartone pe' fatte rimira' da 'n imbianchino venuto da padrone!” Le maestose torri di “Carpilite”, erette per la visita di Hitler a Roma (1938).
Il paradosso della nave di Teseo ci invita a domandarci se una nave cui siano state sostituite pezzo a pezzo tutte le parti, pur restando uguale nella forma, possa continuare a dirsi la stessa nave. Fino a questo punto lo Stadio di cui stiamo trattando pareva rispondere che fosse necessario variare insieme agli elementi anche il nome, mentre da qui in avanti sembra mutare avviso: perché è da ora che lo stadio nipote di quello di Domiziano e per lo meno zio del Maracanà diventerà Olimpico. I nuovi lavori di ampliamento e ristrutturazione iniziarono nel 1950 per mano degli ingegneri Valle e Roccatelli (in breve raggiunti dal Vitellozzi), e il loro scopo era proprio quello di ottenere l’assegnazione dei Giochi del ’60, già che si cominciava a sentire il profumo del boom.
Per prima cosa fu tracciato il nuovo perimetro, la cui ellisse includeva e ampliava le gradinate in cemento armato realizzate nel 1938. I principali interventi riguardarono la tribuna Monte Mario, che in realtà fino a quel momento non aveva una vera sostanza strutturale, era semplicemente addossata alla collina da cui prende il nome, alla maniera dei teatri greci. Anche se non si sarebbe più chiamato dei Centomila, nella nuova release l’Olimpico era davvero capace di ospitare centomila persone (ben presto ridotte a 65.000), di cui però soltanto una parte adagiata su dei comodi seggiolini di legno. L’unica sezione coperta era la tribuna stampa, disposta come oggi nel cuore della Monte Mario.
Lo stadio Olimpico in una cartolina del 1958. Si nota lo sbancamento della collina di Monte Mario per lasciare il posto alla tribune in calcestruzzo armato. Fino a quel momento le gradinate erano addossate alla collina come teatri greci.
Per la giornata inaugurale del 17 maggio 1953, furono organizzati in rapidissima successione due importanti eventi sportivi: prima la sfida tra Italia e Ungheria valevole per la Coppa Internazionale e, a seguire, l’arrivo della Napoli-Roma, sesta tappa del Giro d’Italia: per battezzare l’impianto si puntò su quanto di meglio potesse allora proporre lo sport nazional popolare, il tutto in poco più di due ore, all’interno finalmente di una cornice magnifica, “che sembra più un plastico che uno stadio per centomila spettatori”.
L’Italia può finalmente tornare a tessere le sue gesta nella sfavillante arena, e lo fa con una sonora batosta subita per 0-3 dall’Ungheria di Puskas, nel torneo antesignano degli odierni Campionati Europei. Ma soltanto una mezzoretta dopo il triplice fischio, Giuseppe Minardi detto il Pipazza, con una volata epica riporta provvidenzialmente in alto l’onore ferito del pubblico in tripudio.
A memoria, Olimpiadi escluse, si dura fatica a ricordare due eventi di tale portata tenuti nello stesso stadio a così breve distanza. La concomitanza era studiata appositamente per dimostrare al CIO che l’Olimpico – e il CONI – era in grado di gestire l’organizzazione simultanea di più gare. La trovata si rivelò indovinata e Roma finalmente ottenne i Giochi.
Se Cruijff ha portato il calcio nel XXI secolo, Puskas deve averlo almeno condotto all’età dei lumi.
Dopo Italia 90
Seduti a una certa altezza nei Distinti Sud o in Tribuna Tevere, guardando nella fessura che si apre in alto tra l’ultima fila degli spalti della Monte Mario e la copertura, si vede la madonnina dorata del Don Orione, distante e incongrua proietta un misterioso monito sull’esito di ogni partita e sul destino di uno Stadio da vent’anni uguale a se stesso. Un tempo per incrociarne lo sguardo bastava alzare gli occhi al panorama del colle che si offriva con una piacevole nota silvestre alle spalle degli spalti ma, come noto, in occasione dei Mondiali del ‘90 tutti gli stadi coinvolti nella manifestazione subirono profonde trasformazioni. E anche l’Olimpico, che avrebbe ospitato le prime cinque partite della Nazionale e la finale, non poteva che essere investito da un radicale intervento di rinnovamento, guidato ancora una volta dell’architetto Vitellozzi – già autore dell’ampliamento negli anni Cinquanta.
Giornata inaugurale dei Giochi di Roma del 1960, lo stadio Olimpico è ancora senza la sua copertura. Ma quanto era bello lì dietro Monte Mario?
Il progetto prevedeva un impianto per 85.000 posti, stavolta tutti al coperto, e l’avvicinamento di una decina di metri delle curve al terreno di gioco; oltre a una miriade di miglioramenti ai servizi e agli impianti, all’installazione dei maxischermi e alla sostituzione dei seggiolini in legno con quelli – orribili – di plastica celestina. Ma l’intervento più imponente, che ridefinirà lo skyline del Foro Italico, fu senza dubbio la costruzione dell’enorme copertura, disegnata – pensate che combinazione – dal padre di una nostra compagna di classe delle elementari: Federica Piacentini, che a sette anni si vantava d’essere la figlia di quello che l’aveva firmata (che però si chiamava Vitellozzi). Nel ripensare a Federica fa impressione constatare come a Roma l’ombra di Marcello Piacentini – una figura a metà tra un geometra comunale e Bertolaso – continuasse ad aleggiare sulle grandi opere a decenni di distanza dal Ventennio, in cui il bisnonno (?) della mia amichetta era l’architetto ufficiale del regime, che si dimostrava così ancora capace, dopo tutto quel tempo, di gettare sinistrissime ombre materializzandosi perfino in una scolaretta di fine anni Ottanta.
“Un UFO non può atterrare a Lucca”, direbbero Fruttero e Lucentini, ma invece a Monte Mario…
Ispirata ai velarium degli anfiteatri romani, la copertura dell’Olimpico è un’opera dalla qualità ingegneristica e dalla finezza architettonica fuori dal comune. La corona bianca di acciaio che ne sovrasta l’anello perimetrale sembra sospendersi leggera al di sopra degli spalti, che dall’esterno tendono a scomparire rimanendo costantemente in ombra.
Arrivando allo Stadio dal Foro Italico o guardando un panorama di Roma – dallo Zodiaco per esempio, ma anche dalla Cupola di San Pietro – l’elemento che ci consente deindividuà lo stadio è l’anello lucente della copertura. Ha cambiato con una certa grazia l’aspetto della città. Pur essendo vero che il “vecchio” Olimpico, con la tribuna Monte Mario addossata al colle, risultava più integrato con l’ambiente circostante, la verità è che oggi sarebbe impossibile immaginare il Foro Italico privo del suo splendente diadema. La caratteristica aureola in effetti non sembra solo sospesa sugli spalti dell’impianto, ma lo è davvero, poggiandosi sui 16 pilastri esterni d’acciaio bianco (la struttura delle gradinate non avrebbe sostenuto il peso della copertura), e dai nodi di questa corona sospesa (tecnicamente una trave reticolare spaziale alta 14 metri), si dirama un sistema di tensostrutture a “ruota di bicicletta”, dove gli elementi tesi sono funi d’acciaio che a loro volta tengono in sospensione le travi a sbalzo a cui è agganciato il manto del velarium.Velo di copertura che è costituito da una membrana in lana di vetro spalmata con PTFE, che la protegge dal sole e dalle intemperie (materiale molto all’avanguardia per la fine degli anni ’80, se si pensa che è lo stesso scelto più di quindici anni dopo per rivestire l’Allianz Arena di Monaco, nonché quello che si usa per rendere antiaderenti le padelle e che mia nonna chiama Teflon).
I lavori per la copertura in vista di Italia 90. Quella corona bianca, che d’ora in poi sarà l’immagine dello stadio Olimpico, è proprio una reticolare spaziale.
Quelle enormi travi a sbalzo dovrebbero crollare sugli spalti. Ma sono agganciate con delle funi di acciaio alla reticolare spaziale (sempre lei).
Il velarium di Teflon
Da Italia ‘90 lo Stadio è rimasto sostanzialmente lo stesso, forse è cambiato qualcosa nel disegno delle aiuole ai piedi della tribuna autorità, più volte le reti delle porte (sempre scelte con un certo gusto), ma sono dettagli, il catino è restato immutato e pronto ad accendersi nella sua vastità solo in alcune occasioni (sempre più rare, considerato che ormai tende a non riempiersi praticamente mai), nelle quali lo spettacolo di una struttura piana e continua ha saputo sfrigolare in modo indimenticabile.
L’assenza della suddivisione degli spalti in gradinate, in uno stadio di tale grandezza, ha incoraggiato e verrebbe da dire quasi preteso, chiamato, la realizzazione di coreografie totali, capaci di imporsi come modelli per altre tifoserie, in altri continenti. Vengono in mente i derby, con le curve pronte ad accendersi simultaneamente, alla ricerca dell’attimo più esatto in cui estrarre, distendere e spiegare con le mani alte verso il campo il rettangolo di plastica rossa, gialla, arancione (ok, anche bianca o blu).
In quale altro stadio si poteva vedere un simile spettacolo?
Negli ultimi anni in Italia – non solo a Roma – l’esperienza dello stadio è cambiata. L’inconsapevole spensieratezza degli appuntamenti “alla palla” (i.e. la Fontana del Globo), all’obelisco o allo Stadio del Tennis (quanto era più bello quando, nominalmente provvisorio, per una decina d’anni il Centrale appariva con la fragile e incongrua grazia degli spalti in legno?), è stata scalzata da un assetto di controllo paramilitare dovuto alle barriere di filtraggio, che arrivano a lambire addirittura Lungotevere.
E se la presenza dei controlli è comprensibile, resta qualche dubbio sull’ampiezza dall’area circoscritta dal cerchio più esterno, che di fatto sottrae l’intero Foro Italico a una frequentazione non viziata da un’atmosfera da città sotto assedio e dagli sguardi di schiere di agenti in tenuta antisommossa – perché se da una parte è vero che le barriere sono aperte e le forze di polizia assenti quando non ci sono le partite, dall’altra è altrettanto evidente che ben pochi frequentano il Foro Italico se non in corrispondenza degli incontri (o degli Internazionali di tennis). E come a raddoppiare l’effetto-cataratta, dall'anno scorso, all’interno dell’Olimpico, a essere divise sono state addirittura le Curve. L’inserto, da un punto di vista meramente architettonico, è stato leggero, e sebbene formalmente consenta – dimezzando il numero di spettatori in entrambi i settori – di far conservare allo Stadio il massimo livello di classificazione previsto dalla Uefa, quello che permette di ospitare le finali delle principali competizioni internazionali (e l’Olimpico attualmente è il solo stadio italiano a poter vantare un Livello 4) – lo stesso non può dirsi sul piano simbolico, avendo le barriere architettoniche fatto definitivamente esplodere i malumori che covavano nelle due tifoserie.
Che senso ha?
Si tratta di una questione complessa, ma resta forte il dubbio che valga la pena sacrificare sull’altare del Livello 4 le curve piene dell’Olimpico. Conviene davvero al CONI e a tutto il movimento del calcio italiano – ma allargando il discorso anche alla città di Roma, visto che la decisione sulle barriere è presa dal prefetto (decisione per altro dal sapore punitivo e “sperimentale”, essendo l’unica del genere addirittura in Europa) – offrire in occasione del derby, al posto dello spettacolo delle curve pulsanti, quello di due muri di vetro che graffiano gradinate cieche?
L’impressione è che oggi lo Stadio Olimpico di Roma stia vivendo una delle fasi più meste della sua grande storia, del resto, per quanto possa suonare retorico, erigere barriere negli anni in cui dagli stadi d’Europa si sta provvedendo a toglierle, è un chiaro messaggio di desolazione e di resa.