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Stefano Piri

Il Genoa, zitto zitto

Una squadra che sembra tenerci a passare inosservata.

Se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, ha fatto rumore?

 

La grande stagione del Genoa, che battendo un Bologna in hangover ha chiuso a 49 punti e superato il proprio record da neopromossa, secondo il celebre paradosso dell’empirista inglese George Berkeley (quindi no, non è un “haiku”) forse non è mai esistita. Se ne parla molto poco e con vaghezza, non perché il Genoa sia inviso ai poteri forti ma perché nessuno sembra sapere bene cosa dirne, a cominciare dai genoani che da inizio stagione si scervellano e talvolta si scannano – ma sottovoce, come si addice alle dispute di natura sofistica – su cosa si debba pensare di Gilardino e dei suoi giocatori.

 

Per dirne qualcosa di carino i commentatori hanno dovuto tirare fuori la categoria di “miglior neopromossa d’Europa”, che sembra inventata come quelle dei Dundies di The Office. Nelle ultime giornate si sono congratulati molto con la squadra già salva per “non essersi scansata” o “non aver fatto sconti a nessuno”, rivelando di intendere i rossoblù soprattutto come una zona d’ombra, un ostacolo, un inciampo tecnico ed ermeneutico.

 

Se ci siamo distratti, va detto, è anche perché l’andamento della stagione del club più antico d’Italia non è stato certo romanzesco: in tutto il campionato il Genoa non ha mai vinto o perso più di due partite di seguito, in sostanza da agosto a maggio ha alternato i tre risultati come nella schedina di Baglioni, e ha chiuso con una statistica che a leggerla ti fa venire un colpo di sonno: 12 vittorie, 13 pareggi e 13 sconfitte. Vero che il Genoa ha fatto 21 punti nel girone d’andata e 28 in quello di ritorno, ma gli ultimi 7 sono arrivati giocando sul velluto a salvezza acquisita. Insomma, questa non è una stagione di una squadra di serie A, è un compito in classe di quel vostro compagno che stava abbastanza simpatico a tutti ma con cui nessuno sarebbe mai uscito la sera.

 

Ma come gioca il Genoa? In un modo che sembra fatto apposta per mettere in crisi la distinzione tra giochisti e cortomusisti su cui ci piace tanto litigare.

 

Fa una costruzione dal basso non leziosa ma insistita, a volte spericolata, con un portiere/play come Martinez, tre difensori che si abbassano insieme ai due esterni e due centrocampisti. Poi prova a saltare la pressione avversaria non tanto con il fraseggio quanto con verticalizzazioni veloci, verso l’ovvio riferimento avanzato di Retegui ma anche verso Gudmundsson, che è bravissimo ad abbassarsi tra le linee e ha il controllo orientato come vero superpotere, o nell’ultima parte della stagione anche in direzione della altitudini estreme presidiate da Thorsby, un giocatore unico come quegli omini del Subbuteo rotti e incollati male che restavano due millimetri più alti degli altri e con una fisica completamente alterata quando gli davi una bicellata (comunque, se volete farvi almeno un’idea, pensate al Fellaini di qualche anno fa).

 

A dispetto quindi di chi vorrebbe fare di Gilardino una sorta di Francesco Ferdinando della reazione calcistica, e che gli ha augurato se non proprio un Gavrilo Princip a Sarajevo almeno un esonero dopo la sconfitta a Frosinone, il suo Genoa ha segnato alcuni dei gol manifesto della costruzione dal basso in questa serie A, tracciando sull’erba da una porta all’altra linee sinuose quanto limpide, indifferenti alla presenza degli avversari come sulle lavagnette o nelle tesi di laurea a Coverciano.

 

 

Però è vero che il Genoa non è in linea di massima una squadra bella da vedere: i passaggi lunghi per vie centrali a cui ricorre non sono molto precisi (14%) e hanno spesso il sapore dell’alleggerimento. Gilardino insomma è un generale che dà spesso l’ordine di scaricare l’artiglieria verso il nemico più che altro per coprire la ritirata, senza grandi speranze di colpire davvero qualcosa. E infatti il Genoa è terzultimo per expected goals e addirittura penultimo per tiri verso la porta avversaria, davanti per un soffio a una Salernitana che quest’anno probabilmente non tirava in porta nemmeno in allenamento, si vedevano al campo per piangere un po’ assieme e poi se ne tornavano a casa.

 

E poi il Genoa fa un’altra cosa controculturale: difende molto basso, chiudendo gli spazi con tanti uomini dietro la linea del pallone, senza fretta di aggredire o andare a prendere l’avversario. Come si è visto ancora in Roma-Genoa e Genoa-Bologna, al netto di temperie opposte, in fase di non possesso il Genoa più ancora che a uno scacchista prudente fa pensare a uno scacchista che ritarda la mossa all’infinito, contando e ricontando i pezzi rimasti a sé e all’avversario, toccando ogni tanto un pedone con la punta delle dita come se volesse muoverlo, salvo poi ripensarci, alzarsi, fare un giro intorno al tavolo per sgranchirsi le gambe mentre i palmi delle mani dell’altro cominciano a sudare.

 

Insomma il Genoa tiene poco e male il pallone, sbaglia tanti passaggi, subisce la pressione avversaria, sembra voler fare alla rispettabile ed euclidea metrica degli Xg quello che Trump e la Brexit nel 2016 hanno fatto ai sondaggi elettorali. Eppure tutti i criteri misurabili, dai punti in classifica alle curve di valutazione dei singoli giocatori, fino al monte ingaggi (i giocatori del Genoa guadagnano meno, per dire, di quelli di Cagliari e Sassuolo, e circa la metà di quelli della Fiorentina) ci dicono che è una delle realtà vincenti del nostro campionato. Il Genoa è l’amico che ti fa una scorreggia con l’ascella quando ti sei lanciato in un discorso serio a cena, fa ridere tutti e costringe anche te a ridere a denti stretti mentre in realtà vorresti ammazzarlo.

 

La stessa personalità di Gilardino fuori dal campo è piuttosto indecifrabile, e non per eccesso di piacevolezze. In conferenza stampa dopo la partita è sempre cupo e distante come uno che si è appena svegliato da un incubo, e poco cambia se alla fine di quell’incubo magari ha vinto. Coi giornalisti ha la stanca dimestichezza di uno che è diventato famoso da appena maggiorenne, e che a 23 anni è stato oggetto delle carezze professionali di Fabrizio Corona: li considera nemici evolutivi, gli risponde senza astio ma col calore di uno che sta flaggando le opzioni sulla privacy di un sito internet.

 

Più ci si addentra nelle statistiche, più la stagione del Genoa risulta avvolta in una nube di fattoidi insoliti. I rossoblu attaccano soprattutto sulla destra, la fascia di Sabelli, un terzino di 31 anni che di fatto non aveva mai dimostrato di poter giocare in serie A, e che ai nastri di partenza era considerato un tallone d’Achille forse esiziale nell’undici del Genoa, uno che si lascia chiamare “Sabellao” da compagni e tifosi con un riferimento affettuoso, ma non esattamente lusinghiero, al suo piede non proprio brasiliano. Ancora: pur essendosi lagnato ben poco per illuminata e sacrosanta policy aziendale, il Genoa è stato al centro, dalla parte della vittima, di diversi tra gli episodi arbitrali più contestati delle stagione: dal gol di Pulisic segnato dopo un evidente controllo di mano allo sfortunatissimo doppio confronto con l’Inter, segnato all’andata dallo spintone di Bisseck e al ritorno dal rigore assegnato da Ayroldi per un intervento regolare di Frendrup su Barella. Altro fun fact: a dispetto di un’efficienza offensiva certificata anche dai numeri, il Genoa per buona parte della stagione è stato in testa alla classifica dei legni colpiti (e ancora adesso tallona la Fiorentina), e con un recordman individuale imprevedibile: il messicano Johan Vàsquez, un difensore dalla carriera enigmatica (retrocessione col Genoa, retrocessione in prestito alla Cremonese, ritorno al Genoa e improvvisa fioritura) il quale in realtà non ha il vizio del gol, ne segna uno a stagione, ma è proprio bravissimo a colpire pali, 6 quest’anno. Questi ultimi elementi, si direbbe, mettono in crisi la percezione del Genoa come squadra cinica e sembrano suggerire che il Genoa può addirittura coltivare qualche rimpianto sugli episodi, e se gli fosse girata diversamente magari sarebbe finito addirittura nella lotta per la Conference.

 

Infine, ci tengo a segnalare a chi non lo sapesse che Sabelli è sposato con la sorella di Vogliacco che a sua volta è sposato con la figlia di Mihajlovic, il che deve senz’altro significare qualcosa.

 

Il Genoa quindi ha raccolto più o meno di quanto meritava? Ha senso parlare di “impresa” o i rossoblu sono una squadra da metà classifica nascosta dietro al badge da neopromossa? Gilardino è davvero un alfiere della conservazione, o un allenatore talmente moderno da trascendere le dicotomie?

 

Neppure l’analisi della rosa ci offre un conforto definitivo. Dobbiamo basarci su quel che dice Transfermarkt o sugli elementi che Gilardino ha effettivamente avuto a disposizione? Gli uomini-copertina Gudmundsson, Frendrup e Martinez sono infatti prodotti artigianali della casa, gente che 9 mesi fa non si sapeva nemmeno se fosse in grado di giocare in serie A, mentre i “nomi” che potrebbero far scegliere il Genoa in un videogioco a un gamer coreano, come Retegui, Malinovskyi e Messias, sono spesso venuti meno per infortuni e strascichi, al punto che si può azzardare che senza di loro la sostanza della stagione non sarebbe cambiata.

 

A questo punto dell’analisi diventa perfettamente logico che l’uomo chiave, il solo vero insostituibile di Gilardino, sia un giocatore poco visibile e spesso incompreso persino dai suoi tifosi come Milan Badelj. Pure voi lo vedete in giro da dieci anni, gli avete perfino visto giocare un Mondiale, eppure non sapete come pronunciare il suo cognome. E non sarò certo io qui a togliervi le castagne dal fuoco.

 

Badelj è un signore stempiato dalla magrezza preoccupante e le gambe storte, che sul campo ha i movimenti nervosi e apparentemente incoerenti di un robot-aspirapolvere su una moquette. È anche un genio del calcio, e non lo scrivo con leggerezza. Badelj ha una comprensione non comune del gioco che, si parva licet, gli consente di stare davanti alla difesa un po’ nel modo al contempo dominante ed elusivo in cui ci stava Sergio Busquets. Per capire Badelj bisogna partire dalle statistiche: è secondo nella rosa per intercettazioni e dribbling difensivi, ma anche per il numero di passaggi. E poi bisogna vederlo giocare. Non parlo di guardare le partite del Genoa, ma proprio di concentrarsi su di lui come fareste su una pagina di Dov’è Wally o sul vestito blu e nero/bianco e oro che fu tanto caro all’internet. Da un lato nel non possesso Badelj è il torero che, spesso con la sola posizione del corpo e senza sfiorare né la palla né un giocatore, acceca con un velo l’avversario rendendolo furioso per la frustrazione. Dall’altro è anche colui che, tenendoci evidentemente poco alla pellaccia e rischiando continuamente di perdere palla in zona fatale (da qui il disamore del genoano medio, che notoriamente ha un temperamento un filo ansioso), riesce sistematicamente a far uscire i palloni recuperati dalla difesa, o semplicemente sporcati e finiti nella terra di nessuno, attraverso linee che gli altri non oserebbero nemmeno immaginare, permettendo al Genoa di rovesciare il campo in modo così efficace.

 

Imago / Nur Photo.

 

Non è un caso che al croato sia stato praticamente imposto l’ennesimo rinnovo annuale, sebbene il suo desiderio sia da anni chiaramente quello di tornare a Zagabria e dedicarsi ai nipotini.

 

Infine, è difficile anche provare a interpretare il presente del Genoa leggendogli il futuro. È vero che negli ultimi anni le azioni del progetto-Genoa hanno avuto l’andamento della ricchezza di Zio Paperone in un fumetto, ma nessuno può dire di sapere davvero chi siano i 777 Partners e perché a un certo punto abbiano deciso di comprarsi il Genoa invece di un altro aereo di linea per la loro flotta o, per dire, un sacco di Bitcoin. Anche al netto delle voci poco rassicuranti legate al tormentatissimo tentativo di acquisizione dell’Everton, è difficile interpretare una mossa come la cessione di Dragusin lo scorso gennaio, ben prima che la salvezza fosse acquisita, senza scivolare negli estremi opposti del disfattismo o della prescienza (“sono talmente bravi che avevano calcolato tutto”).

 

Di certo il Genoa ‘23/’24 è stato una squadra più interessante del credito che gli è stato dato, e merita un po’ della nostra attenzione perfino in una stagione sovraccarica di “imprese” e “favole” come un albero di Natale i cui rami iniziano a piegarsi sotto il peso di troppi addobbi (l’Atalanta che gioca due finali in due settimane e vince quella di Europa League, il Bologna in Champions, il Verona salvo dopo essersi venduto a gennaio pure i palloni, la salvezza del Cagliari con Ranieri che ha ormai occupato nell’immaginario nazionale il ruolo che fu di nonno Libero, e sicuramente dimentico qualcosa).

 

E se il Genoa mette in crisi le nostre categorie su come il calcio andrebbe giocato, o su cosa è “vecchio” e cosa è “moderno”, invece di ignorarlo dovremmo forse approfittarne per allargare e affinare le categorie stesse.

 

 

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Stefano Piri è nato a Genova nel giorno in cui a Bel Air moriva Truman Capote. Nato a Genova nel giorno in cui a Bel Air morì Truman Capote, dopo un lungo percorso di autocoscienza si è rassegnato all’idea che si tratta solo di una coincidenza. Scrive per Esquire, Ultimo Uomo, Minima et Moralia, Pandora e altre testate. Ha scritto anche due libri sul calcio per 66thand2nd: "Roberto Baggio. Avevo solo un pensiero" e "Italia-Francia, l'ultima notte felice".