I rhodesian ridgeback sono dei cani enormi, con un pelo corto marrone chiaro, lucido come legno di noce, che sulla spina dorsale forma una cresta più scura. La stazza e la cresta perenne (da cui deriva la seconda parte del loro nome) sono gli unici tratti intimidatori di un cane dal carattere calmo e dall’aspetto elegante. Non hanno lo sguardo freddo del dogo argentino, né la testa e il petto larghi da culturista che hanno i pitbull. Il muso da segugio, con le orecchie larghe come fazzoletti, comunica intelligenza e curiosità, se ti avvicini si lasciano accarezzare e non c’è niente in loro che tradisca aggressività, o nervosismo. Se però un altro cane li provoca la profondità del loro abbaio è stupefacente, spaventosa. In Sudafrica, di dove è originaria la razza, i rhodesian ridgeback venivano usati in branco per cacciare i leoni. Se è vero che il cane dice qualcosa anche della persona che se ne prende cura, può essere interessante sapere che tra i proprietari più famosi di rhodesian ridgeback ci sono: Anthony Kiedis il leader dei Red Hot Chili Peppers; Ranieri III Principe di Montecarlo e sua moglie Grace Kelly; Patrick Swayze l’attore protagonista di Ghost; il quarterback cristiano Tim Tebow; il premio Nobel per la pace Nelson Mandela e l’ex difensore olandese Jakob Stam, detto “Jaap”. Il rhodesian ridgeback di Stam si chiama – o più probabilmente chiamava: l’intervista dove l’ho letto è del 2001 – Tyson.
Da sempre gli appassionati (maschi) di sport sono attirati dalla forma più semplice e diretta di virilità, dall’aura intimidatoria che emanano i grandi maschi alpha come Stam. Ha iniziato a giocare tardi da professionista – rimpiangerà sempre l’atmosfera amatoriale vissuta fino ai vent’anni, gli amici invece dei “colleghi”, uscire il fine settimana e bersi una birra – ed è arrivato al Manchester United che aveva già 26 anni e quasi più nessun capello in testa. Tutto era minaccioso in Jaap Stam durante gli anni della sua maturità calcistica: gli occhi piccoli infossati, il naso che pareva la lama di un coltello infilata in mezzo alle sopracciglia tubolari, gli zigomi alti come paraurti, le orecchie a punta da Nosferatu.
La testa di Stam, con le sue sporgenze, i suoi pieni e i suoi vuoti, era quanto di più vicino a un teschio si potesse immaginare, ed era montata su dei trapezi spioventi come i tetti fiamminghi. Sulle tempie le vene gonfie parevano cavi elettrici, disegnavano un fuoripista pulsante che collegava i muscoli del suo corpo alla centralina della rabbia nel cervello, sempre pronta a mettersi in azione. Aveva un’aria glaciale a cui le occhiaie e il colorito insalubre aggiungevano una sfumatura funebre, da persona che tiene sempre le tende chiuse in casa, che vive in penombra. Jaap Stam era spigoloso e non sorrideva né parlava mai, quando si incazzava era terrificante, sopra le righe, eccessivo.
C’era persino qualcosa di ridicolo in lui, da fenomeno da baraccone. Quando Stam ha vinto il treble Champions + FA Cup + Premier League al suo primo anno al Manchester United, io avevo vent’anni. Portavo i capelli lunghi e avevo già avuto modo di rifiutare quel modello di uomo che a me pareva primitivo quanto i Neanderthal. I tizi come Stam erano l’incubo delle mie vacanze in Grecia e in Spagna, quei turisti olandesi o tedeschi che barcollavano di notte in cerca di cose o persone grandi quanto loro con cui misurarsi. La sua forza fuori scala lo rendeva una specie di Frankenstein addomesticato che solo in alcuni momenti – quando ha preso per il collo Pietro Parente, quando ha fatto uscire dall’inquadratura televisiva Gronkjaer con una spallata – ha mostrato la sua vera natura. Il calcio non sembrava lo sport per cui era veramente portato, quanto piuttosto un compromesso. Non erano strani i momenti in cui Stam perdeva la calma, ma lo erano tutti quegli altri, la maggior parte, in cui manteneva il controllo.
Ma l’undici giugno del 2000, quando l’Olanda ha giocato la sua prima partita dell’Europeo che ospitava, contro la Repubblica Ceca, Stam ha affrontato uno dei pochi calciatori più minacciosi di lui. Se non altro perché lui era uno e novanta mentre Jan Koller arrivava a due metri. Koller era davvero troppo grosso per giocare a calcio, come per qualsiasi altra cosa che non fosse provare a sradicare alberi secolari a mani nude, o prendere a pugni colonne di cemento. Koller sembrava a mala pena umano e vicino a lui Stam appariva, se non proprio piccolo, quanto meno una persona proporzionata. Koller faceva venire fuori la sua “normalità”. E però Jan Koller sembrava simpatico. Koller, nelle interviste, sorrideva. In campo esprimeva delle emozioni, la sua corsa era quasi ciondolante, più morbida rispetto a quella di Stam, che si muoveva solo in linea retta come una nave rompighiaccio. A differenza di Stam, Koller sembrava consapevole della propria natura spaventosa e cercava, come dire, di rendersi più presentabile.
Poi, ovviamente, interpretavano due ruoli opposti. La minacciosità di Koller era comunque funzionale alla creazione, Stam sembrava totalmente preso dalla sua gimmick di cattivo distruttore. Da unica punta Koller doveva muoversi alla ricerca dello spazio dove ricevere palla e con la palla era un giocatore sorprendentemente creativo. Anche Stam, in realtà, aveva un’ottima confidenza con la palla e nei primi anni in Olanda si faceva vedere anche in fase offensiva, ma col passare del tempo però ha ridotto all’essenziale il proprio gioco occupandosi quasi solo di togliere palla agli avversari e passarla ai compagni più avanzati. Stam era ossessivo, monomaniaco, accorciava la distanza con l’avversario diretto e quando intravedeva la palla lo spazzava via. Era un difensore estremamente tecnico, che raramente aveva bisogno di scivolare. Ed era velocissimo, in grado di stare dietro ad attaccanti che pesavano la metà di lui. «Ronaldo», ha detto Stam nel 2012, «non mi ha mai dato nessun problema». E stava parlando di Ronaldo il Fenomeno.
Quel giorno, all’Amsterdam Arena, Jaap Stam ha fatto qualcosa di eccessivo persino per i suoi standard. Qualcosa che il me ventenne ha osservato con stupore e che ricordo ancora come se fosse accaduto ieri.
Al sessantasettesimo, su una rimessa dal fondo calciata lunga dal portiere ceco Srnicek, ovviamente in direzione di Koller, Stam gli salta letteralmente sulla schiena, così in alto che per anticiparlo deve abbassare la fronte. Le due teste pelate entrano in contatto e Pierluigi Collina, forse la testa pelata più famosa in campo, fischia fallo contro Stam. Quando la regia torna ad inquadrarlo, Stam per un attimo sembra smarrito, quando si porta la mano all’arcata sopraccigliare e vede il proprio sangue. Koller si allontana parlando tra sé, forse infastidito dalla pressione autolesionista che Stam gli stava mettendo dall’inizio della partita. Insomma, in quel momento Stam si rende conto di essere vulnerabile, che esiste qualcuno più duro di lui. Collina chiama i medici mentre Stam sembra un orso a cui hanno sparato un sedativo, oppure un bambino che aspetta i genitori davanti al cancello di scuola.
Incredibilmente, nella panchina olandese c’è un dottore più alto e più grosso di Stam, che gli guarda subito la ferita. Il gioco riprende e per un minuto non sappiamo cosa stiano facendo Stam e il dottore che deve occuparsi di quel brutto taglio. Quando la regia torna a inquadrarlo, Stam sta guardando di lato mentre il dottore gli sta mettendo dei punti in diretta mondiale. Come può essere andata la cosa? Il dottore gli deve aver detto: «Mi dispiace Jaap ma qui ci vogliono i punti». E Stam deve aver risposto: «Ok. Mettimeli». «Ora?». «Sì». «Così, senza anestesia?». «Sì». Che non gli abbiano fatto una punturina o messo una pomatina per anestetizzare la zona intorno all’occhio è una cosa che do per scontata, ma magari mi sbaglio e in panchina avevano tutto l'occorrente. In ogni caso, credo che non ci siano precedenti di un giocatore a cui sono stati messi dei punti in faccia durante una partita di calcio: la regia internazionale è indecisa su cosa sia più interessante mostrare ai propri telespettatori e fa avanti e indietro dalla partita all’operazione in corso. Non sarò un esperto di punti, ma quella mi pare una ferita piuttosto grande e profonda. Sono immagini forti per gli spettatori sensibili, Stam muove i muscoli della faccia e la ferita si apre e si chiude, è così larga che ci si potrebbe infilare una moneta. Ha recuperato tutto il suo sangue freddo, adesso, pare un androide replicante mentre un secondo dottore piegato su di lui gli pulisce la ferita con un fazzoletto.
Il dottore continua a infilargli il filo nella carne sopra all’occhio sinistro, poi lo annoda girando con le pinze intorno alla mano che lo tiene e stringe. In campo intanto c’è Nedved che piange a terra, in posizione fetale, ha preso anche lui una testata da Franck de Boer e il dottore ceco controlla se per caso non gli si è aperta una feritina nel cuoio capelluto, come una mamma scimmia cerca le pulci tra i peli del bebè scimmia. La freddezza di Stam fa sembrare le espressioni di dolore di Nedved, a confronto, un’oscenità. Al dottore che lo sta ricucendo tremano le mani, la punta delle pinze vicina al suo sopracciglio oscilla come il pendolo di un metronomo. Tutto sommato è una scena comica.
Tony Soprano, in una delle prime puntate della serie, chiede alla sua terapeuta: «Che fine hanno fatto i Gary Cooper? Quel tipo di uomo forte e silenzioso?». E aggiunge: «Gary Cooper non era “in contatto con i suoi sentimenti”, faceva quello che andava fatto e basta». Tony Soprano era un gangster tormentato dai sensi di colpa, consapevole di rappresentare un modello maschile ormai passato, inaccettabile, «disfunzionale». Persino Gary Cooper, che era famoso per accorciare i dialoghi della sceneggiature limitandosi a volte a rispondere «Yep» o «Nope», aveva delle caratteristiche umane, una sensibilità e una vulnerabilità seppellite molto a fondo ma che in qualche modo trapelavano in superficie e rendevano la sua faccia interessante. C’è sempre qualcosa dietro la forza e il silenzio. E invece non sembra esserci niente dietro la faccia impassibile di Stam, come non c’era niente dietro le superfici ad olio della grande pittura fiamminga. La crudezza iperrealista di Stam, come quella degli artisti olandesi del quindicesimo e sedicesimo, era forse in collegamento con il principio calvinista di «depravazione totale», secondo cui gli uomini non hanno libertà né responsabilità alcuna, essendo tutto predeterminato da Dio. Stam sembra indifferente a se stesso, totalmente sottomesso al proprio destino.
Sono passati sei minuti in tutto quando Stam si alza dalla panchina, di nuovo pronto a tornare in campo. Gli si avvicina Rijkard, l’allenatore olandese, che scuote la testa guardandogli la ferita. Forse, nonostante tutto, sanguina ancora. Stam ci passa sopra un pezzo di garza e Rijkard chiama un giocatore che era andato a scaldarsi, Konterman, per farlo entrare al suo posto. Quindi, quella a cui abbiamo assistito, è stata una scena inutile, pur nella sua grandezza. Vana quanto una performance artistica. L’Olanda vincerà la partita con la Repubblica Ceca 1-0, grazie a un rigore di Frank de Boer a un minuto dalla fine, passerà il girone, batterà la Yugoslavia ai quarti (6-1) e verrà eliminata dall’Italia in semifinale, ai calci di rigore.
Contro l’Italia, Stam ha calciato alto il suo rigore, il secondo della serie. Ha colpito la palla di collo pieno, più forte che poteva. È difficile immaginare cosa gli sia passato per la mente mentre decideva di calciare in quel modo il rigore, ammesso che Stam sia capace di porsi delle domande e di dubitare, ma sarebbe stato strano se avesse preso la porta, per quanto ha calciato forte. Sam Pilger, suo traduttore ai tempi del Manchester United, che gli ha fatto anche da ghost-writer quando ha tenuto una colonna sul Daily Telegraph, racconta di averlo chiamato dopo quella partita, per consolarlo. «Per che cosa?», gli ha chiesto Stam. Pilger ha accennato all’Europeo, al rigore con l’Italia… «Oh, quello. No tranquillo, non ci penso per niente».
Stam dice di essere cresciuto in una famiglia poco religiosa e nei racconti di chi lo ha conosciuto sembra un uomo gentile, un padre di famiglia modesto e tranquillo, come un rhodesian ridgeback senza leoni da cacciare. Vent’anni dopo, ripensando a quell’Europeo e a quegli incredibili sei minuti in cui Jaap Stam ha rubato la scena sottoponendosi a un intervento da pronto soccorso in diretta, non posso dire di sentire la mancanza di uomini come lui. Eppure continuo ad essere al tempo stesso attratto e respinto da quel tipo di maschio apparentemente imperturbabile, da quella crudezza che continuo a trovare esagerata, forse persino inumana. Soprattutto, mi sembra una scena più attuale di quanto lo fosse vent’anni fa, più in sintonia con altre scene di cruda violenza che ho visto invecchiando. La verità è che questa scena è invecchiata meglio di quanto abbia fatto la mia sensibilità.